Sempre e comunque Nunzia

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Tra storie, parole ed emozioni è tornato “Ciao maschio” il sabato in seconda serata su Rai 1. Nunzia De Girolamo al RadiocorriereTv: «È un programma per gli uomini che piace alle donne. Un viaggio che elaboro ogni giorno e che mi ha fatto conoscere più a fondo il mondo maschile»  

“Ciao maschio”, un viaggio iniziato sei stagioni fa, cosa le sta lasciando?

È uno dei viaggi della mia vita. L’ho fortemente voluto, pensato, scritto, un viaggio che elaboro ogni giorno e che mi ha fatto conoscere più a fondo il mondo maschile e anche quello femminile per come si relaziona all’altro sesso.

Quali sono le conquiste del maschio del XXI secolo e su cosa, invece, deve ancora lavorare?

Il maschio attuale, i ragazzi che crescono con noi mamme, sono ragazzi liberi. Liberi dai condizionamenti sociali, dal dovercela sempre fare, dall’essere sempre forti, dall’avere il mito del maschio alfa. Riescono a palesare molto di più le loro fragilità, a metterle in campo, a non avere paura del giudizio della società. Questa generazione è forse più forte della precedente, o quanto meno è meno smarrita. Penso invece che il maschio adulto sia più smarrito dall’evoluzione del genere femminile. Noi donne siamo tanto cambiate, siamo diventate più indipendenti, a volte siamo anche abbastanza aggressive per definire questa indipendenza e difenderla, quindi, c’è un pezzo di generazione del maschio italiano che è impaurito, che non ha ancora digerito questa evoluzione. C’è ancora tanto da fare nel rapporto uomo-donna, se guardiamo anche quello che ancora succede, le violenze verbali e fisiche, i femminicidi, anche tra le nuove generazioni. Questo significa che il lavoro culturale che dobbiamo fare sui nostri figli, maschi e femmine, è ancora tantissimo. Dobbiamo lavorare sempre più sulla valorizzazione delle differenze. 

Di che cosa il maschio d’oggi fa fatica a parlare?

Della malattia, della vecchiaia e molti maschi adulti anche della sofferenza, della sofferenza d’amore. C’è sempre il tentativo di nascondersi, di mostrarsi non vulnerabili rispetto ai sentimenti. Poi il maschio italiano non parla di tradimenti, o al massimo lo fa negli spogliatoi di una partita di calcio o di tennis (sorride).

Nemmeno quando questi tradimenti riguardano il passato?

Negare, negare, negare è parte di una generazione di cinquantenni e sessantenni. Hanno difficoltà ad ammettere o ad analizzare le ragioni profonde per le quali avviene. Sul tradimento non riescono a fare un reale coming out, non trovano il coraggio di dire dove, quando, perché.

Di questo mondo in drammatico fermento, al di là di alcune eccezioni, la guida è ancora al maschile, andrebbe allo stesso modo se in alcune posizioni ci fossero delle donne?

Sicuramente le donne hanno un approccio alla società diverso. Il mondo è ancora molto maschile e maschilista, per fortuna non in politica in Italia, visto che il premier è donna e il capo dell’opposizione è donna. In questo abbiamo fatto un grande passo in avanti, ma la strada è ancora lunga, nei posti di potere e nell’approccio che si ha quando la leadership è femminile. Penso che avere una parità, sia salariale che di ruoli, e di esercizio di questi ruoli, sarebbe un bene per la società. Penso che la donna sia più predisposta a non farsi contaminare, a non fare compromessi. È meno distratta da fattori esteriori e più concentrata nelle cose che fa.

Le propongo un po’ di fanta-televisione. Pensi a tre personaggi della storia, anche di epoche diverse, che porterebbe nel suo salotto grazie alla macchina del tempo…

Metterei insieme Dante, Einstein e Berlusconi. 

C’è una domanda che farebbe a tutti e tre?

Se tu rivedessi il te bambino, con il senno di poi, cosa gli diresti?

“Ciao maschio” ha vinto la sfida degli ascolti, perché un salotto di soli uomini piace tanto al pubblico?

Perché è un programma di genere e perché non siamo abituati ad ascoltare il maschio. Noi donne abbiamo più abilità nel parlare, nell’esprimerci, nel piangere, nel sorridere, ci raccontiamo molto di più, e quindi la novità è proprio nel salotto di genere maschile. È un programma per gli uomini che piace alle donne. Ci sono generazioni di donne che non fanno domande: penso a mia madre, a mia nonna, a una generazione adulta. Alcune domande che noi poniamo ai maschi, sia di carattere sessuale che intimo-sentimentale non le farebbero.

Ha mai pensato a un talk tutto al femminile?

Per me sarebbe altrettanto interessante. Il maschio è stato una sperimentazione anche molto adatta alla mia personalità, ci ragionai molto, all’epoca, con Stefano Coletta, che mi conosceva fuori dall’ambiente televisivo e vedeva il mio modo di relazionarmi con il maschio. Ho la tendenza all’amicizia maschile, mi viene naturale fare domande, a volte imbarazzanti, con naturalezza, come da maschio tra i maschi. La forza è proprio l’interazione di una donna con più uomini. Farlo con le donne sarebbe una sperimentazione sociale molto diversa.

Cosa ha imparato dalla politica e cosa invece le ha insegnato la televisione?

In entrambi i casi l’arte della comunicazione e dell’ascolto. Bisogna saper comunicare con semplicità, immediatezza, empatia ma bisogna anche sapere ascoltare. L’ascolto è la chiave e deve essere un ascolto umile, perché solo quello ti pone in empatia con l’altro.

Che cosa c’è nel cassetto dei sogni di Nunzia?

A livello umano sogno di potere invecchiare accanto a mia figlia, vederla diventare madre, per stare accanto a lei per accompagnarla con discrezione nel percorso della vita. A livello professionale quello di essere sempre me stessa, con i piedi a terra come ho sempre fatto, da ministro o da conduttrice. Restare sempre e comunque Nunzia.

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Ma… diamoci del tu!

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Con il suo stile ironico e graffiante, Enrico Brignano parla al pubblico di sé e delle sue esperienze, della sua professione e della sua storia personale, fatta anche di delusioni, false partenze e dei tanti NO ricevuti. Martedì 15 aprile alle 21.20 su Rai 2

Un viaggio a ritroso nel tempo, tra le delusioni e le false partenze dei “no” e delle porte in faccia prese nella sua vita professionale e non. C’è anche la storia familiare sotto forma di aneddoti divertenti ma con un filo di serietà che invita ad interrogarsi sui rapporti umani. Il titolo dello spettacolo di Enrico Brignano vuole essere un invito a riprendersi quella confidenza bella e solare, raccontandosi in maniera cruda e nuda. Darsi del tu oggi è ormai la prassi, mentre il “lei” sembra qualcosa di arcaico e formale. “Per dire, quando ti chiamano dal call center per discutere che so, la tariffa telefonica, oppure per proporti di investire l’eredità di ‘pora’ nonna in cripto valute, usano il lei, probabilmente per renderti più difficile il mandarli a quel paese. Ultimamente ho notato che per colpa della mia età sempre più persone tendono a darmi del lei, un lei che è doloroso come una fitta della sciatica, che è più fastidioso e irritante di quando mi scopro a tirarmi su dal divano esclamando: ‘oplà’. Però, quando parlo alla gente, io voglio darle del tu, mi voglio prendere una certa confidenza per raccontare in modo intimo le insidie del mondo, dalla tecnologia, utile ma infìda, alle varie crisi economiche, ecologiche e sanitarie. Avrei pure un paio di notazioni da fare sull’amore e sul sesso, sui rapporti personali e sociali, su certe stranezze di questi tempi… ebbene sì, c’ho tanto da parla’, e qualche volta anche da lamentarmi”. Uno spettacolo di Enrico Brignano, con la regia di Luigi Antonini.

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Donato Bendicenti al centro della tempesta europea

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È appena uscito per Rai Libri “Al centro della tempesta – L’Europa tra ordine mondiale e disordine generale” di Donato Bendicenti, responsabile della sede di Corrispondenza Rai di Bruxelles. Partendo dal presupposto che l’Europa è nata come il più importante progetto di prevenzione dei conflitti mai tentato e che ha ottenuto settanta anni di pace accompagnata da un progressivo e intenso sviluppo socioeconomico, Bendicenti racconta ciò che Giuliano Amato aveva previsto già nel 2013: il passaggio “dall’Europa della speranza all’Europa della paura”.

«Quella frase era riferita alla crisi migratoria, uno degli elementi che hanno caratterizzato le dinamiche delle politiche comunitarie negli ultimi quindici anni, però oggi risuona come terribilmente reale.»

Ed ecco il senso del titolo “Al centro della tempesta”: 253 pagine che ripercorrono gli eventi che ci hanno portato all’attuale “disordine generale” e che – dall’alto dell’esperienza di chi ha toccato con mano eventi inimmaginabili fino a pochi anni fa – prova a fornire gli strumenti per capire e immaginare un futuro che non ci costringa a rinunciare a quanto si è conquistato fino ad oggi.

«Esiste una questione irrisolta che riguarda l’Unione Europea, la sua struttura, le dinamiche normative che la governano, fin dai trattati fondativi, per arrivare poi a quella che è la grande domanda: come metti d’accordo le politiche economiche e le politiche estere di ventisette paesi (ed è probabile l’allargamento a trenta) che agiscono in un clima di campagna elettorale permanente, dovendo conciliare il proprio ruolo nell’Unione e dovendo rendere conto ognuno alla propria opinione pubblica?»

Tra le molte citazioni contenute nel libro – che si avvale della prefazione del ministro degli Affari Esteri, Antonio Tajani, e di un intervento del vicepresidente esecutivo della Commissione europea, Raffaele Fitto – colpisce quella di Mario Draghi: “Tutti noi vogliamo la società che l’Europa ci ha promesso, una società in cui possiamo sostenere i nostri valori indipendentemente da come cambia il mondo intorno a noi. Ma non abbiamo il diritto immutabile che la nostra società rimanga sempre come la desideriamo. Dovremo lottare per mantenerla.”

«Il monito di Draghi è molto realista. “Se l’Europa non agisce – ha dichiarato – arriverà un momento in cui non potrà più decidere del suo destino”. Ha poi aggiunto: “Non so cosa dobbiate fare, ma fate qualcosa e fatela subito”. Ha espresso necessità e urgenza, altrimenti ciò che è stato dato per scontato, ovvero benessere economico, democratico, di welfare, non lo sarà più.»

La difficoltà di prendere decisioni unanimi e tempestive è il punto dolente quando si parla di Unione Europea.

«Comprendo le difficoltà che rallentano il potere decisionale dell’Unione», continua Bendicenti, «ma ci sono stati anche esempi virtuosi: la politica di vaccinazione globale con il covid e la politica sanzionatoria nei confronti della Russia per l’attacco all’Ucraina, per esempio. Di fatto un piccolo miracolo politico perché l’Europa si è posta in una posizione che ha aiutato la Nato a rinsaldarsi e il concetto di occidente a ridefinirsi in positivo. Va riconosciuto all’UE di aver avuto molto coraggio anche nell’affrontare la crisi energetica, la questione delle bollette e il tentativo di gestire un passaggio così delicato prima dell’accordo sul PriceCap. Poi però il tema dell’energia si è saldato con il modello al centro del Green Deal, un modello che certamente ha una componente ideologica, che considera le energie rinnovabili una panacea. La tempistica scelta dall’UE per arrivare a un abbattimento importante delle emissioni e per porsi come modello di energia sostenibile si è scontrata con due elementi che toccano la carne viva delle imprese e dei cittadini: l’industria automobilistica da una parte e, dall’altra, la questione delle case green, con un’ipotesi troppo rigida di adeguamento. È come se si fosse dimenticato che ogni paese ha un suo interesse nazionale e questo non si può non prendere in considerazione, perché sarebbe antistorico. Una cosa sono i nazionalismi, una gli interessi nazionali.»

Donato Bendicenti è arrivato a Bruxelles da poco più di quattro anni, provenendo dal giornalismo parlamentare. E – definendosi un “prodotto semilavorato” – ha portato in Europa l’esperienza acquisita occupandosi di politica interna al Tg1 e per RaiNews24.

«Sì, avevo un piccolo vantaggio. Ma la cosa più bella di questo mestiere è l’apprendimento permanente. Vale per i giornalisti come per gli eurodeputati a causa dell’aggiornamento normativo costante. Si deve studiare, tanto, stare al passo e affrontare giornate che cominciano col Tg1 delle 8 e finiscono con quello delle 20, a riprova di una centralità della Rai che a Bruxelles è riconosciuta e presente.»

Un apprendimento permanente che si riflette nello sforzo di rincorrere gli sviluppi più recenti della cronaca internazionale anche attraverso un libro che, di fatto, non può e non vuole fornire soluzioni, ma spunti di riflessione e approfondimento su un momento storico che, come cittadini europei, ci coinvolge tutti.

Laura Costantini

 

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Fuochi d’artificio

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Una grande avventura partigiana e una storia d’amore e di amicizia, raccontata dal punto di vista della dodicenne Marta. Una serie evento diretta da Susanna Nicchiarelli, in onda su Rai 1 martedì 15, 22 e venerdì 25 aprile

1944, Alpi piemontesi. Marta (Anna Losano), Davide (Luca Charles Brucini), Sara (Carlotta Dosi) e Marco (Lorenzo Enrico) sono quattro amici tra i 12 e 13 anni che sognano la fine della guerra e il momento in cui potranno riabbracciare i genitori e i fratelli maggiori. Stanchi di essere trattati come bambini, quando scoprono per caso che la loro età consente di evitare sospetti e perquisizioni, decidono di aiutare in segreto i partigiani. I quattro assumono così l’identità del fantomatico “Sandokan”, il ribelle che mette in difficoltà i nazisti e i fascisti della valle. Tra ripide salite e discese mozzafiato, enormi pericoli e grandi prove di coraggio, Marta e i suoi amici contribuiranno a loro modo alla vittoria finale della Resistenza e alla liberazione del nostro Paese dall’occupazione nemica.

Susanna Nicchiarelli, la regista, racconta

«Il progetto nasce da un innamoramento per il libro di Andrea Bouchard, un libro che i ragazzi di tutte le età adorano perché appassionante, avvincente, buffo e a tratti commovente. Fino ad ora non esistevano prodotti televisivi o cinematografici con vocazione popolare, per famiglie, che parlavano della Resistenza in termini così semplici e al tempo stesso profondi: prodotti che potevano essere visti ed apprezzati da genitori, nonni, e ragazzi insieme. La vicenda di “Fuochi d’Artificio”, per come è articolata, è per tutti: piena di suspense e avventura, pur trattando temi delicati ed importanti. L’ambientazione nelle montagne piemontesi poi è una cornice estetica favolosa per l’avventura di questi ragazzi: i percorsi, la paura dei lupi, le biciclette, i rifugi, il fiume e le chiesette abbandonate assieme alla fattoria dei nonni e il famigerato Forte diventano nella vicenda una cornice estremamente suggestiva, a tratti incantata. I quattro protagonisti sono tutti diversi, tipi singolari di adolescenti incredibilmente vicini agli adolescenti di oggi: ma soprattutto la protagonista Marta, piccolina per la sua età (e da qui parte la vicenda) ma con una gran voglia di crescere, con la sua passione per il canto e la musica e la sua capacità di inventare storie conquisterebbe chiunque; anche perché combina un sacco di guai e pasticci ed è tutt’altro che perfetta. I riferimenti usati nella scrittura e condivisi con tutti i capi reparto e i membri della troupe sono stati principalmente i film per ragazzi di avventura degli anni Ottanta, i Goonies, Stand by Me, E.T. In questi film entravano nelle vicende dei ragazzi anche la vita, la morte, il pericolo, un mondo di adulti crudele e pericoloso: succede così anche in “Fuochi d’Artificio” e questa intrusione del mondo dei grandi è un’occasione per una riflessione profonda sui valori che fondano la società in cui viviamo. Anche nella tradizione televisiva italiana esistono esempi di prodotti popolari per adulti e ragazzi che rappresentano il naturale riferimento per un lavoro come “Fuochi d’Artificio”: più di tutti il magistrale “Pinocchio” di Luigi Comencini, scritto insieme a Suso Cecchi d’Amico, nel quale fantasia e tradizione, coraggio ed ironia si fondono in un prodotto che ha incantato generazioni di grandi e piccini. La struttura narrativa seriale, il realismo e la semplicità delle scenografie nel racconto del territorio italiano uniti ad un uso sapiente e misurato della narrazione fantastica, hanno portato generazioni di famiglie davanti alla TV, unendo il proposito di una televisione che promuove la cultura e la storia italiana intrattenendo le famiglie con prodotti che possono essere compresi ed apprezzati a più livelli.»

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Eden

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Basato su un mistero irrisolto che si è svolto su un’isola remota nelle Galapagos, Un survival thriller diretto da Ron Howard provocatorio e sorprendente nei cinema dal 10 aprile

Ispirato a due versioni completamente diverse della stessa storia, “Eden” di Ron Howard indaga su uno dei più antichi e affascinanti misteri umani. Otto persone si trasferiscono su un’isola e meno della metà sopravvive. Tra le due guerre mondiali, il filosofo tedesco Dr. Friedrich Ritter diventa una celebrità per aver abbandonato la civiltà ed essersi trasferito sull’isola di Floreana, nelle remote Galapagos, insieme alla sua discepola e amante Dore Strauch. La loro incredibile dedizione nella ricerca di una vita migliore e di un nuovo modello di società ispira Heinz Wittmer, vedovo e veterano della brutale guerra di trincea, a fuggire anch’egli verso le Galapagos per ricominciare da capo. Heinz, la sua giovane e intraprendente nuova moglie Margret e il figlio malaticcio Harry arrivano sull’isola. A differenza di Ritter e Dore, non sono avventurieri esperti e non hanno esperienza di vita fuori dalla civiltà. Arrivano con libri di istruzioni e grandi sogni. Questo scatena immediatamente l’ira del Dr. Ritter e Dore, che non hanno alcun interesse ad avere vicini e detestano profondamente l’intrusione. “Abbiamo iniziato a lavorare alla sceneggiatura prima della pandemia e l’abbiamo sviluppata osservando il mondo cambiare – afferma il regista – con il crescere di eventi sempre più oscuri, complessi e spaventosi, il film ci è sembrato diventare sempre più attuale sotto i nostri occhi. Alla fine, abbiamo portato la sceneggiatura ad un punto in cui sentivamo fosse chiara. Mi sono sentito connesso all’attualità: stiamo vivendo tempi di incertezza, sfiducia nella società e la sensazione che la civiltà ci stia soffocando. Vivere ‘fuori dalla rete’ è uno dei temi più visitati su Reddit. Queste persone hanno vissuto decenni fa tra le due guerre mondiali, ma le loro paure, la loro rabbia e le loro speranze suonano e sembrano molto simili alle nostre, perciò ho sentito che era il momento giusto. Quello che queste persone cercavano è molto comprensibile, molto riconoscibile anche oggi”. Nel cast Jude Law, Ana De Armas, Vanessa Kirby, Daniel Brühl e Sydney Sweeney.

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VALERIO LUNDINI

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Inchieste surreali

Seconda stagione per “Faccende complicate”, dieci nuove puntate dal 10 aprile su RaiPlay. Il comico e conduttore romano intervistato dal RadiocorriereTv, presenta i nuovi episodi di interesse sociale, con il suo stile inconfondibile e mai scontato

Cosa succede in questa seconda stagione di “Faccende Complicate”?

È il seguito di un programma andato in onda lo scorso anno ma, a differenza dei sequel cinematografici, anche guardando soltanto la seconda serie, si comprende tutto. Io, ad esempio, non posso vedere un solo film della Marvel, perché ogni volta penso che non avendone visto uno del passato non capirei niente.  In questa stagione di “Faccende complicate” c’è una puntata a tema politico con tre persone che non sanno per chi votare e che cercano la loro identità politica. Ovviamente qui la politica viene trattata come farebbe un bambino di sette anni di fronte a un tema troppo grande per lui. Nonostante, purtroppo, io non faccia più parte del mondo dell’infanzia, mi diverte sempre trattare i temi con quella superficialità di quando ero in prima media.  In un’altra puntata ci sono i cortometraggi sul tema del bullismo, con un musical di bambini, una delle mie puntate preferite. In un’altra ancora scopro l’esistenza di uno sport indiano mai giocato qui in Italia e quindi organizzo la prima partita alla prima squadra italiana di questo sport. Una puntata davvero divertente.  Vado anche in Spagna a ripercorrere l’esperienza di un Erasmus, cosa che non ho mai fatto all’università e cerco di farla adesso a 38 anni.

Qual è stato il momento più memorabile durante la realizzazione del programma?

Ricordo, in Spagna, c’era una serata di stand up comedy in spagnolo. Mi esibisco sul palco spesso, ma non faccio mai la stand up comedy che è quella in cui prendi il microfono, parli al pubblico e fai battute. Il mio obiettivo era quello di cercare di parlare in spagnolo, lingua che non padroneggio, facendo battute volontariamente non funzionanti. Una missione da kamikaze. Sono andato lì per non essere apprezzato o capito, una figura orribile. Magari poi mi rivedranno in Tv e capiranno.

Cosa pensa del politicamente corretto nella comicità?

È un tema molto amato, se ne parla sempre. Secondo me molte persone lo usano per lamentarsi. Io non ho mai avuto esperienze di censura dal “politicamente corretto” né ho fatto autocensura.  Molti hanno delle idee ma poi pensano che vadano contro qualche canone di correttezza allora le censurano, quando in realtà il pubblico è intelligente da capirle. Oggi c’è molta più correttezza e tutto ciò che facciamo e diciamo, non sarebbe stato possibile tanti anni fa. Di “politicamente corretto” se ne parla tanto, ma in realtà ce n’è poco.

Costruendo il programma, ha fatto i conti con la sua pigrizia?

In questa stagione ho girato tanto, pensare che fosse un programma poco stressante è stata una ingenuità. Avevo anche pensato che, scrivendo minuziosamente tutti gli sketch, sarebbe stato più semplice. Non è vero che prendi la telecamera vai, giri quello che succede e lo monti. C’è bisogno di un team. Insomma, devo fare una cosa da pigro ma spero che i risultati si vedranno perché sono dieci puntate da venti minuti che volano via.

Qual è stato il finale di puntata inaspettato che, davvero, non si aspettava?

C’è una puntata in cui io avevo scoperto che esisteva un signore che ha collezionato, suo malgrado, ben 56 multe per lo stesso autovelox. Avevo visto delle interviste in cui lui si lamentava di questo autovelox che definiva “truffaldino”. Allora sono andato nel suo paese, anzi, proprio nel suo campo dove coltiva le rape. Mi ha fatto vedere tutto il suo campo e le 56 multe. Si diceva poco intenzionato a pagarle e così, per convincerlo a pagarle, le abbiamo fatte diventare delle opere d’arte contemporanee, con una mostra a Roma dove sono state messe in vendita. Il finale inaspettato sta nel fatto che oltre a venire gente, come pensavamo, sono arrivati anche dei critici che ancora non ho capito se hanno inteso l’intento surreale della cosa. Alcuni hanno anche commentato in maniera interessante la mostra. Tutto molto divertente.

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ULISSE, IL PIACERE DELLA SCOPERTA

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Dopo il grande successo dello speciale “La Sicilia di Montalbano”, Alberto Angela torna su Rai1 con la nuova serie di “Ulisse, il piacere della scoperta”. A partire da lunedì 7 aprile in prima serata Rai 1, Rai Cultura propone quattro nuovi episodi dedicati a grandi personaggi del passato e alla storia di luoghi unici ed affascinanti

Nel primo episodio Alberto Angela racconterà la vita di Vincent van Gogh, il pittore che ha incantato il mondo con la luce e i colori delle sue opere. Viaggeremo attraverso i luoghi che hanno ispirato i suoi quadri più celebri e hanno fatto da sfondo alla sua dolorosa vicenda umana. Ripercorrendo la vita del pittore, cercheremo di capire come sono nate le sue opere, il perché siano attraversate da pennellate energiche e ammantate da una luce così inconfondibile da farle sembrare sogni. Chi era veramente Van Gogh? Su di lui è stato detto tutto: artista maledetto e incompreso, persona bipolare, frequentatore di bordelli. Siamo sicuri di poter definire con valutazioni così assertive un uomo così complesso e capace di rivoluzionare la storia dell’arte? Si può esplorare una città attraverso una playlist di canzoni? Sì, se quella città è Londra. È qui che “Ulisse” volerà, lunedì 14 aprile, per raccontare i suoi luoghi più amati attraverso la musica. Dodici destinazioni nella capitale inglese per altrettante canzoni di artisti indimenticabili: dai Beatles a David Bowie, da Freddy Mercury ad Amy Winehouse. Successivamente si andrà a Istanbul per ripercorrere la vicenda di Lucrezia Borgia. Nell’appassionante storia di Istambul, divisa tra Europa ed Asia, si muovono imperatori e sultani, basilisse e concubine, eunuchi e visir, e ciascuno lascia un’impronta più o meno duratura del suo passaggio nell’inconfondibile skyline che si affaccia sul Corno d’Oro. Lucrezia Borgia, una delle donne più controverse del rinascimento: figlia di un papa, sorella di uno spregiudicato condottiero e lei stessa abile politica e diplomatica. Cosa c’è di vero nella sua leggenda nera? Da chi e perché è stata tanto infamata?

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ELEONORA DE LUCA

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Il grande dono della leggerezza

È tra i protagonisti di “Costanza”, la serie tratta dai romanzi di Alessia Gazzola che sta ottenendo grande successo nella domenica di Rai 1. Al RadiocorriereTv l’attrice siciliana parla della sua Toni e di una narrazione al femminile sempre più gradita al pubblico televisivo: «Quando una donna riempie uno spazio, un personaggio, una storia, crea immediatamente libertà»

Cosa ha pensato di Toni al vostro primo incontro?

È stato un incontro felicissimo e giocosissimo sin dalla prima lettura del copione. Antonietta Macallè, detta Toni, è un personaggio che pensavo fosse distante da me, ma non è stato così. Sul set si è creata una chimica bellissima con Miriam Dalmazio (Costanza) e con il regista Fabrizio Costa, attento a tutto e molto creativo, che ci ha lasciato grande libertà. Mi sono divertita molto, il ruolo è diventato da subito tridimensionale: la serie è ben scritta, piena di azione e di gioco.

Cosa ha regalato di sé al suo personaggio?

Buona parte della mia goffaggine, che si è rivelata utile nel portarla in scena (sorride). Lei è una psicologa, una donna intelligente, equilibrata, e quando è consigliera è un po’ come se fosse la guida di Costanza.  Quando invece è coinvolta direttamente nelle situazioni la vediamo un po’ più goffa. Amo Toni anche perché rappresenta l’accoglienza.

Il racconto della sorellanza e della solidarietà tra donne. Cosa significa dare respiro a una storia al femminile?

Significa liberare la narrazione, perché le donne sono un principio liquido. Non sono il contenitore di qualcosa, ma spesso ne sono il contenuto. Al di là della forma del contenitore quando una donna riempie uno spazio, un personaggio, una storia, crea immediatamente libertà. Sento che i tempi stanno cambiando, insieme alla concezione di donna, abbiamo un respiro più aperto verso la figura femminile.

Un femminile che vive nella contemporaneità…

Alessia Gazzola è una donna davvero in gamba e la storia che ci ha regalato è intrisa di temi che riguardano i nostri tempi. L’ho vista contenta della mia Toni, felice e sorpresa come una bambina di come è stato messo in scena il mondo di “Costanza”. Nei suoi romanzi ha creato qualcosa che non esisteva, una volta sul set ho osservato l’incanto nei suoi occhi.

Come sceglie i suoi ruoli?

Accade un po’ come quando ti innamori di qualcuno (sorride), in realtà non sai mai per davvero il perché, c’è qualcosa che ti chiama e che non comprendi bene. Quando vai troppo con la logica significa che il cuore non si è del tutto attivato. Se invece una storia o un personaggio non fanno per me lo sento subito.

Cosa ha provato nel rivedere Toni sullo schermo?

È stato sorprendente, anche se cerco di non giudicare né me né il mio personaggio e mi affido totalmente ai registi. Ma già da dentro, durante le riprese, sentivo che le cose stavano funzionando. Si è fatto tutto con grande cura, e questo mi ha aiutato a esprimermi liberamente.

Dove nasce il suo essere attrice?

Chissà (sorride). Tecnicamente ho cominciato a recitare per affrontare la mia timidezza, poi, come abbia fatto a farlo diventare un lavoro, non lo so spiegare. Quello di fare l’attrice è stato ed è il mio solo piano. Certo, so bene che le cose nella vita possono sempre cambiare, ma al momento posso dire che questa cosa mi appartiene.

Che cosa c’è nel suo cassetto dei sogni?

Recitare, fare il lavoro che amo. Sono felice di continuare a prendere parte a storie belle, con persone che stimolano la mia creatività. Spero anche di crescere e di migliorarmi.

Quali sentimenti spera possa suscitare Toni nei telespettatori?

Un dolce sorriso e anche un grande senso di accoglienza, spero che sia amata e adorabile anche per il pubblico. Le ho voluto bene come fosse una parte di me che si staccava da me mentre recitavo. Toni ha una profonda saggezza che utilizza anche nel lavoro che fa: è a conoscenza delle cose,  anche dolorose, ma sceglie la leggerezza. Se questa serie riuscirà a portare leggerezza sarà un grande dono per gli spettatori.

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AMBROSIA CALDARELLI

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Cristina? La porterei a ballare

In “Che Dio ci aiuti 8” interpreta la giovane ospite de “La casa del Sorriso” alle prese con una gravidanza adolescenziale. «Per lei provo grande tenerezza, l’adolescenza è sempre una cosa complicata» afferma l’attrice al RadiocorriereTv. Promessa nel cinema e nella serialità si dice pronta a nuove sfide: «Mi piace variare ed entrare in personaggi che abbiano grandi messaggi»

Come è stato il suo incontro con “Che Dio ci aiuti”?

Non avevo mai fatto provini per serie già avviate e così lunghe ed è stato bellissimo, anche grazie a un gruppo di lavoro che si conosce, che si aiuta. È stata un’esperienza molto rassicurante, mi sono sentita protetta.

E con Cristina?

Mi piace il modo in cui è scritta, ho pensato immediatamente che fosse molto simile a me e mi ci sono affezionata. È bello pensare che tra il pubblico siano molte le persone che si rispecchiano in lei. Puntata dopo puntata sta crescendo.

Dalla scrittura al set, cosa ha aggiunto, di Ambrosia, al suo personaggio?

La me di quando avevo 16-17 anni. Ho avuto problemi diversi da quelli di Cristina, ma l’adolescenza è sempre una cosa complicata, difficile. È una fase in cui vivi emozioni diverse: interpretandola mi sono ricordata di quel periodo in cui anche io ero tanto scontrosa e diffidente con le altre persone. Ripensandomi ho provato grande tenerezza.

Cosa le fa decidere se scegliere o meno d’interpretare un personaggio?

Non tendo a rifiutare ruoli, perché ogni nuovo personaggio è sempre una sfida. Ho fatto cose molto diverse e mi piace che il pubblico possa vedermi in ruoli sempre nuovi, da quelli impegnati a quelli più divertenti, rassicuranti. Mi piace variare ed entrare in personaggi che abbiano grandi messaggi.

Che ricordo ha del suo primo ciak sul set di “Che Dio ci aiuti”?

Sin dalle prove di lettura, che sono sempre un momento anche di “caciara”, mi sono subito trovata bene, insieme a bravi attori e belle persone. Il primo ciak è stato una grande emozione, io e Tommaso (Donadoni, interpreta Pietro) eravamo in cucina a preparare gli gnocchi. Rivedendo la scena in Tv ho percepito la tensione del momento. Poi è andato tutto più liscio.

Pensi a una serata da trascorrere con la sua Cristina, dove la porterebbe, cosa le proporrebbe di fare?

Per una serata un po’ malinconica la porterei nei luoghi in cui è cresciuta, per una più divertente credo le proporrei di andare a ballare… non in discoteca ma a un festival con tanta gente.

Cosa l’ha spinta verso la carriera dell’attrice?

Qualcosa che avevo dentro, una sorta di disagio interiore. Ero titubante e mi capitava di non sentirmi all’altezza. Al liceo cominciai a fare teatro, poi arrivarono i primi provini e i primi set. Da allora ho sempre lavorato. Stando sul set mi sentivo giusta in quel contesto e ho continuato, ho avuto le conferme sul campo.

Preferisce il dramma o la commedia?

Al di là del genere mi appassionano le storie. Mi piacerebbe tornare a un dramma, ma anche la commedia mi sta dando tanto. Vive di un linguaggio completamente diverso.

Che cos’è per lei l’ironia?

Non è far ridere forzatamente ma è un dono. Non amo chi si prende troppo sul serio, chi vive le cose in modo pesante.

Che cosa la diverte nella vita?

Quasi tutto. Rido sempre, ero così anche da piccola. Ci sono persone che ti fanno sorridere naturalmente, penso a mio papà Fulvio, a come parla, come ti ascolta. Mi divertono anche i miei amici e mi fanno ridere le situazioni di silenzio.

Se dovesse descriversi con tre aggettivi quali userebbe?

Determinata, perché ho imparato a non abbattermi e a guardare avanti con ottimismo, onesta, nel lavoro come in amore e nell’amicizia. E tanto affettuosa.

Cosa augura all’Ambrosia di domani?

Di credere ancora di più in se stessa.

Che emozione prova di fronte all’affetto del pubblico?

Apprezzo tanto che le persone dimostrino affetto. Lavoriamo per il pubblico verso il quale provo gratitudine.

Le capita, nelle sue giornate, di dire “Che Dio mi aiuti”?

Solo per le cose importanti, penso sempre anche molto agli altri, mi preoccupo per le persone a cui voglio bene.

 

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Lucio Corsi: album, tour ed Eurovision

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Il momento d’oro del cantautore toscano che a maggio rappresenterà l’Italia all’Eurovision Song Contest a Basilea

“Volevo essere un duro” è il nuovo album che racconta di una musica d’autore intima e a tratti immaginaria, in una scrittura delicata e sincera, senza mai cadere nella superficialità. Il disco su tutte le piattaforme digitali e disponibile in pre-order nei formati vinile e CD, arriverà l’11 aprile. Lucio Corsi vive un momento professionale davvero magico e il “Club Tour 2025”, la cui partenza è prevista per il 10 aprile, è tutto esaurito. Partenza da Perugia, per poi toccare Bologna, Torino, Firenze, Roma, Napoli, Padova e Milano il 29 aprile e il 4 maggio.  A queste date, si aggiungono le tappe estive nei più importanti festival italiani, che comprendono anche gli imperdibili appuntamenti di “Ippodromi 2025” di Roma e Milano: si parte il 12 giugno da Mestre, per poi proseguire ad Aosta, Cagliari, Roma, Bologna, Genova, Camaiore, Perugia, Collegno, Arezzo, Casera, Sassari, Termoli, Catania, Lamezia Terme, Bari, Mantova, per concludere il 7 settembre al Milano. «“Volevo essere un duro” è un disco che parla di infanzia, di amicizia e di amore. È un disco di ricordi veri e falsi, di personaggi del bene e del male, di località, che esse siano prati di margherite o squallide zone industriali – spiega Lucio Corsi – nelle forme di espressione credo che la cosa a cui si debba tendere è il cambiamento. In questo album ho cercato una trasformazione soprattutto a livello testuale, cercando di non staccare più di tanto i piedi da terra. Ho cercato di cantare in maniera chiara e diretta di persone. “Volevo essere un duro” è nato strisciando sui marciapiedi, nascondendomi negli armadi o sotto le zampe dei tavoli, girando tra i panni sporchi nelle lavatrici, appendendomi con le mollette ai capelli ai panni stesi, cercando ricordi non miei nei cappelli degli altri, cercando nuovi orizzonti nelle scarpe degli alti. Dopo circa due anni ho trovato nove canzoni diverse e le ho convinte ad andare ad abitare nello stesso palazzo. Così è nato il disco.» Il quarto album in studio si compone di nove tracce, tutte scritte e composte da Lucio Corsi e Tommaso Ottomano, che ne hanno curato anche la produzione insieme ad Antonio “Cuper” Cupertino. A popolarle, molti personaggi come “Francis Delacroix”, amico fotografo, Rocco compagno delle medie in “Let There Be Rocko”, e “Il Re del rave”, sagoma romantica e sgangherata. Ad aprire e chiudere la narrazione musicale del disco, anche i brani già editi “Tu sei il mattino” – che ci narra di come il tempo scorra inesorabile, come la corrente di un fiume che ci tira sempre e solo da una parte – e “Nel cuore delle notte” – una canzone sull’amicizia, una lunga coda di pianoforte sull’autostrada della luna, presentata a sorpresa la scorsa Vigilia di Natale con una live session -, oltre a “Volevo essere un duro” (il brano indipendente più ascoltato in radio e recentemente certificato disco d’oro), in gara alla 75esima edizione del Festival di Sanremo, dove Lucio – al suo debutto sul palco dell’Ariston – si è classificato secondo ed è stato insignito del Premio della Critica “Mia Martini”, entrando nel cuore del pubblico.

 

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