Nella tana del coniglio

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FRANCESCA FIALDINI

Sei storie di vita vera, racconti a cuore aperto di persone affette da disturbi del comportamento alimentare. L’autrice incontra Martha, Benedetta, Giulia, Valentina, Marco e Anna, lo fa guardando, insieme a loro, all’interno del buco nero in cui sono caduti mentre rincorrevano un mito, un ideale di perfezione, la considerazione degli altri, un bisogno d’amore. Sei interviste intime e potenti in cui le parole sono strumenti centrali per riflettere sui motivi di un dolore che punisce e trasfigura il corpo, mettendo a repentaglio serenità e futuro. Il volume, scritto con lo psichiatra Leonardo Mendolicchio, propone una riflessione sull’uso delle parole nell’affrontare temi come l’anoressia, la bulimia, il bindge eating, con la consapevolezza di come proprio il linguaggio sia alla base delle nostre relazioni, proponga un’immagine di noi stessi e dia forma alle nostre ansie e paure più profonde

Martha, Benedetta, Giulia, Valentina, Marco, Anna. Sei persone che hanno deciso di aprire la loro tana al suo sguardo, alla sua narrazione, come è andata?

È stata una specie di immersione in acque profonde. E come in ogni immersione bisogna saper prendere il respiro e lasciarsi portare negli abissi. Ciascuno di loro mi ha condotto nelle profondità del proprio animo, delle proprie paure, del proprio spirito, e anche della propria intelligenza. Chi di solito inizia a sviluppare i disturbi del comportamento alimentare è una persona particolarmente intelligente e particolarmente sensibile. Ma come ogni immersione fa delle promesse, come quella di garantirti una visione nuova delle cose, anche in questo libro, dentro le loro storie, credo che si possa trovare un panorama meraviglioso. Però, bisogna appunto saper respirare.

Quali sono i tratti che uniscono le storie di queste persone?

Il desiderio di trovare qualcuno che convalidi la loro esistenza. Sembra assurdo, perché viviamo iperconnessi, concentrati in una comunicazione, ma che è solo fittizia, dopodiché non ci sentiamo sufficientemente amati, compresi e considerati. Abbiamo bisogno di convalidare il bene, sentirlo sulla nostra pelle. Come si fa? Con le parole prima di tutto. Questi ragazzi di cui parlo sono persone alla ricerca di affetto, di attenzione. Di qualcuno che dica loro: vai bene così!

Come è possibile trovare un rapporto di equilibrio con il cibo?

Il rapporto con il cibo è uno specchio. Anche le parole sono uno specchio, un riflesso continuo di come noi ci vediamo, di come vorremmo essere visti, di come ci interpretiamo gli uni con gli altri. Questi ragazzi non riescono però più a mettersi a fuoco, e lo stesso accade con il cibo. Usano il cibo per modificare la propria immagine, e di riflesso il loro corpo.

Quali sono le parole giuste per raccontare tutto questo?

Spero di averle trovate, ma non è detto che ci sia riuscita. Certo è che la cura delle parole è stata particolarmente attenta e mirata durante questo lavoro. Quella che propongo è proprio una riflessione sulle parole: quando i media trattano argomenti così sensibili, come il malessere mentale, il disagio psicologico, i disturbi del comportamento alimentari, devono essere premurosi.  Anche nella velocità del lavoro dobbiamo fare una riflessione. Queste ragazze, ad esempio, non amano sentirsi fare dei complimenti, perché hanno un rapporto conflittuale con il loro corpo e con la loro immagine. Se dici loro “come ti trovo bene!” vanno in allarme. Il loro pensiero sarà “come mi trovi bene? Vuol dire che sono ingrassata”. Ecco che inizia una vertigine dentro di loro, per cui rifiuteranno il pasto successivo. Se vuoi fare un complimento a una ragazza anoressica, potrai dirle “che begli occhi che hai”, perché gli occhi sono l’unica parte del corpo che non ingrassa e non cambia. Quando noi in televisione, sui giornali, parliamo di questi argomenti dobbiamo prestare attenzione alle parole che usiamo. Dobbiamo far capire davvero le cose come stanno.

Quali finestre le ha aperto questa esperienza?

Credo che sia una chiave di comprensione dell’attualità e della realtà sociale del momento, che è diventata un’emergenza che ci è esplosa tra le mani durante il covid e subito dopo la pandemia. Adesso si parla del disturbo del disagio giovanile, prima molto meno. E se lo sapevamo facevamo finta che non ci fosse e che prima o poi ce ne saremmo occupati. E’ un’emergenza sociale a tutti i livelli, perché attraverso la vita di un giovane si racconta esattamente lo stato di salute della società in cui viviamo. Quindi che fine hanno fatto la famiglia e la scuola? Dove è iniziato il corto circuito nel linguaggio e nella comunicazione? Di che cosa hanno bisogno i giovani oggi? Perché la disoccupazione è così grande? Perché ci rifiutano e perché non hanno un rapporto di fiducia con noi? Se parliamo di loro parliamo del futuro e del presente del nostro Paese.

A chi dedica questo libro?

A loro. A tutti coloro che hanno fame d’amore. A chi ha un disturbo del comportamento alimentare, ma anche altre forme di disagio o di disturbo psichico, ma che non trova le parole per dirlo.

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Il mio bellissimo presente

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Damiano Gavino

Scoperto da Alessandro D’Alatri, il giovane attore romano, tra i protagonisti anche della seconda stagione di “Un Professore”, è ormai stato lanciato nell’Olimpo del cinema e della tv: «È grazie a lui se io sto vivendo una vita così, è grazie al suo coraggio che ho iniziato a fare questo mestiere»

Due artisti in famiglia… come stanno vivendo tutto questo i suoi genitori?

È stato molto bello per loro quando mia sorella ha deciso di intraprendere la strada della recitazione, era una novità per la famiglia. Lea stava studiando all’università – che ha terminato – e, poco dopo, per caso, anch’io mi sono ritrovato a frequentare questo ambiente. Diciamo che è stato un po’ destabilizzante, anche perché sappiamo tutti che quello dell’attore è un mestiere che comporta dei rischi, ci si espone e si vive nell’insicurezza, qualcosa che spaventa chi cerca di farlo, figuriamoci un genitore. All’inizio, quindi, è stato un colpo, ora però la vivono benissimo, sono orgogliosi di noi e dei risultati che stiamo ottenendo. Per “Un Professore” organizzano anche le serate con gli amici, erano presenti alla prima di “Nuovo Olimpo”, si divertono molto.

Poco più che ventenne, eppure mostra una maturità, anche professionale, invidiabile. Il segreto?

Il fatto che mia sorella faccia questo mestiere da più tempo mi ha certamente aiutato. Allo stesso tempo, sono sempre stato uno che ha cercato di informarsi prima di muovere qualche passo, ho provato a capire come funzionava questo mondo dietro le quinte. Diciamo che ho sempre voluto avere a che fare con il cinema, mi mancava solo il coraggio di iniziare. Mi ha aiutato molto la consapevolezza che insieme al fascino del mestiere, è importante non dimenticare gli aspetti negativi, i no ai provini, le lunghe attese tra un lavoro e un altro, le critiche…

Non ha frequentato scuole di recitazione, la sua scuola sembra essere una straordinaria emotività e spontaneità che si traduce in sensibilità artistica. Si riconosce?

Quando recito cerco di portare in scena i sentimenti del personaggio che interpreto, nel modo in cui li ho vissuti nella mia vita, attingendo alle mie esperienze. Senza dubbio, come attore provo a replicare in scena la mia sensibilità, anche se nel quotidiano nascondo questo lato del mio carattere per proteggermi, per non apparire troppo vulnerabile. Quello che invece mi ha davvero aiutato, nel lavoro come nella vita, è stato dare sempre peso alle parole, al loro significato, per non rischiare di usarle a sproposito.

Il successo enorme della prima stagione di “Un Professore” ha catalizzato l’attenzione di tutti per voi nuove leve di attori. Come è riuscito a concentrarsi dopo il successo?

È una bella sensazione sapere che quello che fai emoziona le persone e che, quando hanno l’occasione di incontrarti, mostrano il loro affetto, ti raccontano come il tuo lavoro abbia portato dei frutti nella loro vita.  Non avendo cercato all’inizio di diventare a tutti i costi un attore, so bene cosa significhi essere fan, lo sono anch’io quando incontro una persona che stimo: faccio di tutto per farglielo capire. Trovarmi ora dall’altra parte è stimolante, non sento pressione perché ancora vivo serenamente il mio privato.

Come la mettiamo con sua “madre” Claudia Pandolfi?

Claudia dice spesso che sono suo “figlio” veramente (ride), lei è una donna piena di energia, fuori e dentro il set, una carica per tutti. I rapporti bellissimi che si sono creati sul set hanno una origine: Alessandro D’Alatri.

Ci racconta la sua esperienza con il regista che l’ha scoperta?

È stato un incontro importante per la mia vita e per la mia carriera, nei suoi confronti sento tanta gratitudine. È grazie a lui se io sto vivendo una vita così, gli devo il mio presente, è grazie al suo coraggio che ho iniziato a lavorare come attore. Ha combattuto per avermi nel cast, rappresentavo un rischio, perché non avevo nessuna esperienza, non avevo mai studiato recitazione, non aveva idea di come avrei lavorato o di come avrei reagito a tutte quelle luci, alle macchine da presa, a tutte le persone. A lui devo dire grazie anche per le meravigliose persone che è riuscito a mettere insieme.

Come sta Manuel?

È sempre un po’ sfacciato, tormentato, anche perché a questo povero ragazzo succede di tutto, deve affrontare situazioni molto complesse per uno della sua età. Allo stesso tempo Manuel è maturato, come spesso accade quando, dopo tre mesi di vacanza dalla scuola, dopo aver staccato dall’impegno scolastico per un lungo periodo, hai vissuto la pausa estiva con più leggerezza, ti ritrovi a settembre con più esperienza e con una consapevolezza diversa. È stato così anche per quando ero studente, dopo la scuola era il tempo del riposo e dello svago totale, ma anche un profondo momento di riflessione in cui sentivi che qualcosa dentro di te stava cambiando, crescevi tu e quelli che ti stavano intorno. Manuel è cresciuto fisicamente ovviamente, perché in questi due anni sono cambiato anch’io (ride), emotivamente è meno impulsivo e indulgente con chi nella vita è stato costretto a fare delle scelte.

La filosofia del professor Balestra unisce tutti gli episodi della serie, qual è, invece, la sua filosofia di vita?

Vivere giorno per giorno senza farsi troppi problemi su come sarà il domani. Cerco di non farmi troppe domande, prendo il buono di ogni attimo, perché non c’è mai un momento vuoto, si impara sempre, sia stando fermi, sia impegnandosi in molte cose… è un esercizio continuo per comprendere cosa ci fa star bene o cosa ci rende felici.

Tra le tante domande esistenziali che l’essere umano si pone, a quale non le interessa dare una risposta?

Dove siamo realmente, se ci sono altre forme di vita, lontane, vicine, se viviamo in una realtà truccata, come vogliono farci credere le teorie complottiste, che spesso mi fanno ridere, altre volte invece riflettere. In generale, meglio non avere risposta, mi angoscia troppo.

A un certo punto della sua vita è arrivato un regista che l’ha portata sull’Olimpo. Come si sta?

A Ferzan Ozpetek sono grato tantissimo, mi ha dato un’opportunità enorme, far vivere sullo schermo la sua storia. Mi sono sentito onorato che lui abbia riconosciuto in me qualcosa di lui, mi ha fatto venire i brividi. Se avessi l’opportunità di girare questo stesso film adesso, avrei interpretato Enea in una maniera totalmente diversa, perché le mie emozioni, il mio vissuto è diverso.

Nel film si raccontano molto gli anni Settanta, un periodo storico in cui la parola d’ordine era libertà. Che valore assume per lei questa parola oggi?

Questa parola diventa negli anni sempre più complicata, ognuno ha la propria visione di libertà. Per me significa riuscire tutti a vivere in maniera serena. La libertà per me è serenità, nell’esprimersi, nel vivere, nell’esporsi… Se mi guardo attorno, oggi non la trovo e mi viene da pensare che tutta questa libertà non c’è. Nel mondo ci sono tante persone impegnate in nome di questa battaglia, vorrei che nessuno smettesse mai di lottare per la propria libertà, soprattutto noi giovani e il nostro desiderio di esprimere quello che siamo.

Sappiamo che è anche un appassionato di musica, in questo periodo della sua vita che musica, che canzone si sente?

La musica mi aiuta spesso, ci sono canzoni che per qualche mese ascolto almeno tre volte al giorno, e poi le metto completamente da parte, ma che sono associate a periodi precisi della mia vita. In questa fase, anche per motivi di lavoro, seguo il ritmo di Jim Croce, in particolare il disco – “You don’t mess around with Jim”, ritmi country e blues anni Settanta.

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La voce a chi non ce l’ha

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Il lunedì in prima serata su Rai 3 debutta “Farwest”, ultima creatura della Direzione Approfondimento della Rai. «Un racconto immersivo per entrare dento le cose, un programma che approfondisce nel segno della qualità» dice il giornalista siciliano

Che programma vedremo?

“Farwest” è un programma d’approfondimento, di inchieste. Un programma diverso dagli altri che ha la possibilità di proporre un’inchiesta giornalistica con il racconto in studio, con l’analisi di esperti e di testimoni che ci aiuteranno a fare luce sugli angoli più bui del nostro Paese. Cercheremo di portare una luce lì dove le istituzioni non esistono, cercheremo di occuparci di tutti i farwest, delle piccole e delle grandi truffe. Ci occuperemo anche di cronaca nera, di sociale, cercando di fare un programma giornalistico puro, che sia di servizio pubblico e nello stesso tempo di approfondimento.

Quali saranno i temi della puntata del debutto?

Ci occuperemo di un caso che porto nel cuore, quello dell’attentato a Paolo Borsellino. Cominciai proprio così, a 19 anni, facendo la diretta della strage di via d’Amelio. Ci occuperemo quindi di una grandissima truffa che ha creato una voragine nei conti pubblici dello Stato e di un ricatto sessuale fatto da un calciatore ai danni di due ragazze che intervisteremo in esclusiva.

Tanti farwest in lungo e in largo per lo Stivale… e la speranza?

Non vogliamo dipingere l’Italia come se fosse tutta un farwest. Il compito che ci diamo è quello di dare voce, e appunto una speranza, a chi non ce l’ha. Ma per farlo dobbiamo immergerci nel farwest quotidiano.

Questo programma segna un tuo ritorno alla cronaca, alla strada…

Sono molto contento che la Rai e Paolo Corsini (Direttore dell’approfondimento Rai) mi abbiano dato la possibilità di tornare alle origini, al mio mestiere di cronista. Io e tutta la squadra cerchiamo di fare il nostro lavoro in maniera onesta, puntando alla qualità. Sono molto orgoglioso del mio gruppo di lavoro e dei giovani inviati che mi aiuteranno nel racconto.

Qualità e buoni ascolti, questo l’obiettivo?

Gli ascolti sono importanti ma fino a un certo punto, ci sarà tempo per crescere. Questo programma ha bisogno di un tempo fisiologico per strutturarsi: cominciamo sapendo che sarà una sfida non facile, partiamo con le migliori intenzioni e con la certezza di fare un programma di servizio pubblico.

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Continuo a sognare…

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Nicolas Maupas

È uno dei giovani attori del momento, apprezzato dal cinema e dalla tv, amato dal pubblico come una rockstar. Due le serie di cui è protagonista, la seconda stagione di “Un Professore” e il fantasy “Noi siamo leggenda”: «Mi sarebbe piaciuto volare. Tra i tanti poteri, quello che non è proprio indispensabile, almeno per me, è leggere nel pensiero delle persone. Un rischio che potrebbe fare molto male»

Sta vivendo un momento d’oro, questo mestiere non è più un sogno, le cose si stanno facendo molto serie…

È diventato il mio mestiere con annesse responsabilità, paure e il grande impegno che ci vuole. Ancora oggi, però, recitare rappresenta una grandissima opportunità, i sogni non sbiadiscono, al contrario si moltiplicano e si riproducono da soli. Quando hai la fortuna di fare il lavoro che ami, conquisti un sogno e se ne creano immediatamente altri. Spero di continuare a sognare a lungo…

Una seconda stagione molto attesa, come siete riusciti a conquistare il cuore delle persone?

“Un Professore” è un progetto estremamente sincero, genuino nel quale si raccontano tante fasi della vita, dall’adolescenza all’età più matura, si parla di famiglie e del dialogo tra ragazzi e adulti. È una serie nella quale il pubblico riesce a trovare sempre una parte di sé, un lato del proprio carattere, una sfaccettatura che permette a chiunque di immedesimarsi nella drammaticità della storia. È un racconto che ti fa sentire a casa e dove puoi ritrovare casa.

Il pubblico vi ama, avete fan che vi considerano delle rockstar. Che effetto le fa tutta questa attenzione?

Fa un po’ paura, ma c’è anche la contentezza di ricevere l’affetto delle persone. Ho ricevuto un’educazione familiare che mi fa stare tranquillo, so di dover mantenere i piedi per terra.

Tra Manuel e Mimmo c’è Simone. Questo nuovo ingresso come sposta il baricentro tra i due protagonisti?

Mimmo è una di quelle incognite che entra nella vita di Simone e lo invade di molte domande, alle quali il mio personaggio cerca di dare delle risposte. Più si va avanti con le puntate, più i due ragazzi imparano a conoscersi meglio, i rapporti si fanno più stretti, le storie si intrecciano. Dal punto di vista professionale, è stato molto interessante, dopo “Mare Fuori”, lavorare di nuovo con Domenico Cuomo.


Avere come “maestro” Alessandro Gassmann, Prof. e padre per fiction, fuori dal set, cosa le ha trasmesso?

Alessandro ha uno stile comunicativo molto simile a quello di Dante, ha la generosità di spirito. È una persona estremamente generosa, disponibile a dare a noi attori più giovani consigli importanti sulla professione, su come ampliare le nostre conoscenze, quali film guardare o quali libri leggere. È un essere umano attento all’altro, che prende a cuore le persone. È un uomo buono, buono, buono… e poi fa veramente ridere.

“Noi siamo leggenda”, ci racconta la sua esperienza in questo fantasy?

Un teen drama corale nel quale l’elemento fantasy rappresenta una bella scommessa, una sfida anche per noi attori che abbiamo lavorato con il VFX (Visual Effects), con la fantasia o con elementi non proprio canonici del mestiere. Meno nuovo per me è stato avere a che fare con un ruolo che ha delle caratteristiche molto simili ai personaggi che ho interpretato fino adesso. La sfida è stata, però, proporlo in una maniera completamente nuova. Dal punto di vista drammatico, Jean è davvero molto carico, ci sono tante lacrime, tanta incomprensione, si rappresenta, ancora una volta, una fase dell’adolescenza un po’ cieca.

E i poteri?

Non sono i protagonisti, piuttosto delle metafore. Il pubblico non troverà la spettacolarizzazione, ma il tema è “cosa fanno questi ragazzi una volta che acquisiscono dei poteri”, come reagiscono, quali saranno le loro azioni, che tipo di responsabilità sono in grado di assumere. Ma soprattutto quali paure sono in grado di vincere o quali nuovi timori sorgono dopo la scoperta di questi poteri.

Se avesse avuto un potere…

… mi sarebbe piaciuto volare. Tra i tanti poteri, quello che non è proprio indispensabile, almeno per me, è leggere nel pensiero delle persone. Un rischio che potrebbe fare molto male. Non tutte le cose vanno dette, meglio lasciarle nascoste… scoprire qualcosa in più dell’altro non è per forza sempre un bene.

In questa serie si esplorano le radici delle proprie paure e le proprie insicurezze. Qual è la sua paura più grande?

È una domanda molto difficile… credo di averne di molto umane, paura dell’abbandono, della solitudine, di ferire o essere ferito da qualcuno, di perdere le persone a me care.

Quando non lavora, a quali altre passioni si dedica?
Il disegno è una attività che mi piace e riesce a rilassarmi, poi c’è sicuramente la musica… adoro fare delle ricerche, spulciare nelle playlist e scovare ritmi nuovi.

Sempre più di frequente ci sono attori che si cimentano con la macchina da presa. Si vede nel futuro come regista?

Sì, è un’altra aspirazione.

Con quale ruolo vorrebbe mettersi alla prova?

Mi piacerebbe fare il cattivo, non ho mai provato e sarebbe una bella prova per uscire dalle mie corde, sporcare un pochino di più questo viso così pulito… ho anche provato a farmi crescere la barba, ma ho dovuto tagliarla perché i commenti erano molto negativi (ride).

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Mi presento ai tuoi

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Lorena Bianchetti conduce il primo game show tutto dedicato ai sentimenti. Dal 2 dicembre, il sabato alle 14.00 su Rai 2

Al via “Mi presento ai tuoi”, una nuova sfida televisiva per Lorena Bianchetti che, a partire dal 2 dicembre alle 14.00 su Rai2, proverà a raccontare le famiglie e le loro dinamiche, attraverso una serie di giochi che porteranno alla scelta di un possibile partner per il proprio familiare, protagonista della puntata.  “Mi presento ai tuoi” è un’alternativa giocosa al dating tradizionale, un game show dedicato alle relazioni e ai sentimenti. Ogni settimana un ragazzo o una ragazza, accompagnato dalla propria famiglia, incontra un gruppo di persone tutte diverse tra loro, ma che possiedono almeno una caratteristica che possa colpire il suo interesse. Ed è proprio la famiglia a selezionare le persone da proporre, mentre al figlio spetta il compito di scegliere con chi approfondire la conoscenza. Ma come fare a capire quale sia la persona giusta? In “Mi presento ai tuoi” sono stati messi a punto una serie di giochi con lo scopo di far emergere le caratteristiche di ognuno dei partecipanti e di mostrare ai familiari i lati ancora nascosti del proprio figlio. Si parte da una rosa di sei possibili pretendenti, tra cui i familiari selezionano i quattro con cui giocare. Al figlio la possibilità di cambiarne uno. Da questo momento al termine di ogni gioco, il cerchio si restringe sempre di più, fino ad arrivare alla scelta finale. Qui, però, non ci sono consigli che tengano: la decisione è tutta nelle mani del figlio. Farà bene la sua scelta? Ma soprattutto, sarà ricambiato? Presente in studio la psicologa Flaminia Bolzan, che analizzerà alcuni meccanismi che muovono gli atteggiamenti più comuni in famiglia, provando a dare piccole soluzioni e spunti di dialogo. In ogni puntata, inoltre, un personaggio noto del mondo dello spettacolo racconterà in un’intervista il proprio rapporto famiglia/sentimenti che, da qualunque lato lo si guardi, è speciale e a suo modo complesso.

In alcune puntate, al posto del nucleo familiare, sono previsti gruppi di amici, coinquilini, colleghi di ufficio, compagni di squadra, ecc.

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Il Metodo Fenoglio

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Una vicenda epica, un protagonista, che crede in quello che fa e cerca di farlo a tutti i costi, pur restando nei confini che lui stesso si è scelto. E questi confini si chiamano Legge. Da lunedì 27 novembre, in prima serata su Rai 1, Alessandro Casale dirige la nuova serie crime con Alessio Boni

25 ottobre 2023 IL METODO FENOGLIO

“Il Metodo Fenoglio” racconta una vicenda epica nella storia italiana con toni intimi e delicati, un viaggio all’interno di una “zona grigia” dove diventa difficile, se non impossibile, distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato.   Il maresciallo piemontese Pietro Fenoglio si muove nella Bari degli anni Novanta, è uno degli esponenti di spicco del Nucleo Operativo dell’Arma dei Carabinieri, dotato di acuto istinto investigativo e spinto nelle sue azioni da un profondo rispetto per la legge e la verità, anche quando la sua apertura umana nei confronti dei criminali lo porta in diretto conflitto con i superiori. Durante le sue ultime indagini Fenoglio ha cominciato a nutrire un sospetto che lo sta ossessionando. È, infatti, convinto che la criminalità locale non sia più composta solo da un manipolo di bande rivali, ma che sia nata una vera e propria mafia barese. Eppure, le sue indagini personali non trovano ancora riscontri pratici e vedono l’opposizione del suo superiore, il colonnello Valente. Nei giorni successivi all’incendio doloso del Teatro Petruzzelli, cuore pulsante della città di Bari, la tensione è alle stelle: agguati, uccisioni e casi di lupara bianca creano un clima di terrore che rende impossibile la vita in città. E Fenoglio non riesce a decifrare le ragioni di quell’esplosione di violenza senza precedenti. Fino a quando non emerge un fatto inatteso e sconvolgente: il figlio di Nicola Grimaldi, il boss più potente e spietato del territorio, è stato sequestrato. Durante le indagini svolte in collaborazione con l’appuntato Pellecchia, i cui modi spicci si scontrano con l’atteggiamento legalitario del suo superiore, e guidate dalla scontrosa e carismatica PM Gemma D’Angelo, Fenoglio vuole vederci chiaro. Scopre che il boss ha pagato un riscatto per riavere suo figlio, ma che il bambino non è mai tornato a casa.
I sospetti di tutti si concentrano su Vito Lopez, ex braccio destro del boss Grimaldi: la fortissima amicizia che li ha legati per anni è ormai entrata in crisi e si è risolta in una lotta fratricida e mortale. Ma è davvero Lopez l’artefice della faida, oppure è solo un ennesimo capro espiatorio in una guerra criminale senza vincitori né vinti? Una domanda che tormenta Fenoglio, mentre sul livido orizzonte delle vicende nazionali si consuma l’attacco di Cosa Nostra al cuore dello Stato con i massacri mafiosi di Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e delle rispettive scorte. La risposta arriverà da un’indagine diversa da tutte le altre, che porterà a scoprire una verità sorprendente.

Alessandro Casale, regista 

Trasporre per immagini in una serie televisiva il romanzo di Gianrico Carofiglio “L’estate fredda” è stato un grande privilegio e allo stesso tempo una sfida elettrizzante. Il mio obiettivo è stato ricostruire il più fedelmente possibile le atmosfere che caratterizzavano Bari, capoluogo pugliese, teatro delle vicende criminali dei primi anni ‘90 del secolo scorso che si dipanano nella serie. Una città in cui il nostro protagonista affronta importanti e delicate indagini nei mesi più caldi della lotta alla criminalità organizzata italiana di quegli anni. Pietro Fenoglio è un personaggio raro, crede in quello che fa e cerca di farlo a tutti i costi, pur restando nei confini che lui stesso si è scelto. E questi confini si chiamano Legge. Per accompagnare il Maresciallo nelle sue complesse indagini ho scelto attori e ambientazioni estremamente legati al territorio, atti a rendere la sua attività investigativa assolutamente credibile, una scelta, per me, necessaria per calare gli spettatori nella cruda realtà di quel periodo. Ho scelto una grammatica di ripresa classica, elegante e decisamente cinematografica per impreziosire questo racconto anche con accenni epici, avvalendomi della collaborazione di ottimi capi reparto artistici per restituire il sapore e il calore della realtà barese di quell’epoca, così affascinante e controversa.

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Diabolik, chi sei?

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Nelle sale dal 30 novembre il terzo capitolo della saga diretta dai Manetti bros. Con Giacomo Gianniotti, Miriam Leone e Valerio Mastandrea

Chi è veramente Diabolik? Le sorelle Giussani nel marzo del 1968, a cinque anni dalla pubblicazione del primo numero del leggendario fumetto, provarono a rispondere a questa domanda, scrivendo e poi pubblicando quello che probabilmente è l’albo del Re del Terrore più famoso di sempre: “Diabolik chi sei?”. «Dopo due film, e qualche anno di completa dedizione al nostro antieroe preferito, abbiamo pensato che fosse arrivato il momento di prendere il toro per le corna e di far diventare un film il mitico albo del ’68 – affermano i Manetti bros. –
Le Giussani, con la capacità di suggestione che le ha rese tra le autrici di fumetti più importanti d’Italia e probabilmente del mondo, sono riuscite, ancora una volta, a trovare la quadra magica, a spiegare il personaggio e le sue origini senza veramente spiegarlo o, quantomeno, senza svelarlo completamente, lasciandolo misterioso e affascinante». Un lavoro che trasferisce al cinema la suggestione dalla pagina disegnata. «Nel primo film abbiamo raccontato Diabolik dal punto di vista di Eva Kant, la donna che si innamora di lui e che affiancandolo lo completerà – proseguono i registi – nel secondo attraverso quello dell’ispettore Ginko, l’uomo che gli dà la caccia e alza costantemente il livello della sfida. Nel terzo film abbiamo deciso di raccontare Diabolik dal punto di vista di Diabolik stesso. Chi è Diabolik? E soprattutto: il Re del Terrore è completamente conscio delle sue origini e della sua misteriosa identità? Da lettori abbiamo visto Diabolik attraversare gli anni con quella capacità magica, che hanno sempre i fumetti, di restare identico, e apparentemente della stessa età, mentre passano i decenni. Abbiamo voluto mettere anche questa caratteristica nel film, facendo un balzo in avanti di un decennio».  Dopo gli anni 60 del primo e del secondo capitolo, la pellicola ci porta improvvisamente negli anni 70. Scenografie, costumi e fotografia sono cambiati in modo piuttosto radicale: dalla fredda razionalità ed eleganza che caratterizza gli anni 60, il passaggio alla follia eccentrica e rivoluzionaria del decennio successivo, cosa che ha dato un taglio completamente diverso al film, anche dal punto di vista cinematografico e di ritmo del racconto. «Se non bastasse, – aggiungono i registi – nella seconda parte, quando raccontiamo la sorprendente infanzia di Diabolik, abbiamo fatto un tuffo in dei non ben definiti anni 40, cambiando ancora una volta lo stile, in maniera ancora più repentina, passando a un immaginario espressionista rigorosamente in bianco e nero».  «Il terzo film è pieno di canzoni e di straordinarie interpretazioni di grandi cantanti italiani e non – concludono i Manetti bros. –  Per il brano dei titoli di testa, dopo l’oscurità di Manuel Agnelli e l’eleganza di Antonio Diodato, siamo passanti al funky frizzante e stiloso dei Calibro 35 in coppia con Alan Sorrenti. Questa canzone rappresenta la profonda differenza di questo film rispetto ai precedenti».  Nel cast di “Diabolik, chi sei?”, coprodotto da Rai Cinema, ritroviamo Giacomo Gianniotti (Diabolik), Miriam Leone (Eva Kant) e Valerio Mastandrea (Ginko). Nel cast anche Monica Bellucci (Altea), Pier Giorgio Bellocchio (Sergente Palmer) e Chiara Martegiani (Elisa Coen). «Già durante il primo incontro, con i Manetti avevamo scelto a quale albo si sarebbe ispirato il terzo film della saga – afferma la casa editrice Astorina – Non soltanto perché il più amato dai lettori, non soltanto perché il più ristampato (a grande richiesta), non soltanto perché affascinava tutti e tre l’idea di trasferirlo dalla carta alla pellicola… ma soprattutto perché eravamo certi che il pubblico delle sale, dopo aver visto il Re del Terrore un paio di volte in azione, si sarebbe chiesto: Diabolik, chi sei?. Lo stesso era successo tanti anni fa ai lettori del fumetto e all’epoca le sorelle Giussani avevano risposto con poche informazioni e molti misteri sul passato del loro personaggio. Lo stesso vale per il terzo film, come i precedenti rispettoso della storia da cui è tratto, che ha scelto come simbolo lo sguardo inquietante della pantera nera. Come fece il fumetto».

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Basta!

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Una panchina rossa in tutte le trasmissioni della Rai, il nastrino rosso nei loghi delle reti Tv, uno spot per invitare tutti, e in particolare gli uomini, a riflettere sul tema, un promo per “correggere” i luoghi comuni sessisti e la sede di Viale Mazzini, a Roma, illuminata di rosso. La Rai è scesa in campo con forza e determinazione nella Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne

La televisione e la radio, RaiPlay e RaiPlay Sound. I vertici aziendali, gli artisti, i giornalisti, le maestranze. La Rai, unita, ha fatto di sabato 25 novembre, Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, la propria bandiera. «La violenza di genere è la più drammatica e visibile piaga di una cultura della non parità che viene da lontano – afferma la Presidente Rai Marinella Soldi – Rai, come prima azienda culturale del Paese, deve essere protagonista di racconti che promuovano la ricchezza della diversità, della parità di opportunità e di una raffigurazione femminile moderna, reale e aspirazionale, specialmente per i giovani. Per questo, oltre alla campagna contro la violenza sulle donne, il Servizio Pubblico si impegna in progetti concreti per favorire la partecipazione delle donne e per premiarne il merito e le competenze: No women no panel, sui territori, e 50/50 nei nostri contenuti. La Rai oggi, come sempre nella sua storia, è determinante per il progresso sociale e culturale del Paese».

In onda un palinsesto articolato che ha attraversato, nel segno delle donne e contro la violenza di genere, tutti i canali radiofonici, televisivi, digitali e social. Per l’amministratore delegato della Rai, Roberto Sergio, «la Giornata Internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne è stata l’occasione per il Servizio Pubblico di ribadire il proprio impegno a combattere e a vincere a tutti i costi una battaglia che è prima di tutto di civiltà, di rispetto della dignità, di rifiuto convinto e senza sconti di ogni forma di violenza, anche la più subdola. La Rai è stata totalmente coinvolta, per estirpare, senza se e senza ma, una piaga indegna del nostro Paese. Lo ha fatto assumendo come simbolo, nelle sue trasmissioni, la panchina rossa, per ricordare il colore del sangue femminile versato, che interpella ciascuno di noi. Lo ha fatto tingendo dello stesso colore i loghi di tutte le reti e l’esterno di Viale Mazzini, a Roma. La programmazione tv, radio e digital dedicata alla Giornata; gli spot, in onda più volte durante il giorno: uno per cancellare i luoghi comuni sessisti, l’altro per invitare soprattutto gli uomini a riflettere sulla violenza. Perché la violenza contro le donne è un orrore da cancellare».

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Nella vita di Donatella

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AMBROSIA CALDARELLI

«Ho sentito il peso della responsabilità, ma anche la consapevolezza di vivere una opportunità importante. Mi sono sentita molto fiera di avere avuto la possibilità di interpretare una donna che, seppure nel dramma, ha contribuito a un cambiamento epocale nella società italiana» racconta al RadiocorriereTv la giovanissima attrice, protagonista con Greta Scarano di “Circeo”, il martedì in prima serata su Rai 1

Quanta fatica c’è stata per entrare nei panni di Donatella Colasanti, una donna che ha avuto un vissuto così pesante?

Dal punto di vista emotivo è stato un viaggio davvero impegnativo, non potevo mai perdere di vista il rispetto verso una persona realmente esistita. Non ho avvertito fatica, certamente sentivo il peso della responsabilità, ma anche la consapevolezza di vivere un’opportunità importante. Mi sono sentita molto fiera di avere avuto la possibilità di interpretare Donatella Colasanti, una donna che, seppure nel dramma, ha contribuito a un cambiamento epocale nella società italiana.

Dal provino al set, che esperienza è stata “Circeo”?

Ricordo che avevo mandato un video per partecipare ai provini, senza però pensarci più di tanto. Mi hanno richiamato per vedermi dal vivo, per un provino con il regista, e mi sono resa conto che per questo ruolo stavano provinando tantissimi ragazzi. Più andavo avanti nella selezione, più mi rendevo conto che mi stavo affezionando alla storia. Alla fine, ho cominciato anch’io a credere che avrei potuto farcela. E così è stato. Alla mia carriera auguro di prendere parte sempre di più a progetti come “Circeo”, una tappa importante del mio percorso professionale.

Quali sono state le indicazioni del regista per entrare nella vita di Donatella Colasanti?

Sono stati mesi molto intensi sul set, il regista Andrea Molaioli mi ha lasciato molta libertà, si è sempre preso cura di me, aveva a cuore la mia opinione sulle scene, mi chiedeva sempre come volessi raccontarle. Sono stata seguita e sostenuta passo dopo passo sia da Andrea che da Greta, da loro ho ricevuto molti consigli, non solo a livello attoriale, ma su come affrontare il lavoro dal punto di vista emotivo. Tutto questo è stato fondamentale, mi ha tranquillizzato molto.

Spesso si accusano le donne di non fare squadra, Greta Scarano ha invece parlato di “sorellanza”…

Con Greta non abbiamo avuto bisogno di dire niente, è stato tutto naturale. Il carattere di entrambe ha reso possibile stringere un legame molto stretto tra noi, che ha certamente permesso di rendere veritiero il rapporto tra Donatella e Teresa. Quando nella vita reale si va d’accordo, il resto va da solo…

Una serie al femminile…

Lo sguardo femminile è presente ovunque nella serie, a partire dalla sceneggiatura. Raccontiamo il movimento femminista e la sua capacità di scendere in campo e lottare per i diritti delle donne, la stessa Donatella non rinunciare alla sua battaglia, e la sua avvocata, Teresa Capogrossi, porta la voce delle donne nelle aule dei tribunali.

Conosceva la storia del massacro del Circeo e quello che è accaduto dopo?

Vivendo a Roma ne avevo sentito parlare anche dai miei genitori, ma non sapevo molto di Donatella Colasanti. La serie mi ha dato l’opportunità di conoscerla, di entrare nella sua vita, nelle sue emozioni. Ha fatto una scelta forte, nonostante tutto quello che le era capitato, è andata avanti, non come una vittima o una sopravvissuta, ma come una persona che voleva giustizia. Ha sempre combattuto in prima persona, dentro e fuori dai tribunali.

Una ragazza così giovane…

…così coraggiosa. La sua forza mi ha colpito molto, mentre tutti le consigliavano di lasciar perdere, lei che era una “sempliciotta” di borgata, ci ha messo la faccia e il suo coraggio ha cambiato la storia italiana. Spero che il pubblico voglia vedere la serie, che i giovani possano comprendere il valore di storie come quella di Donatella, così drammaticamente attuale. Questa donna è un esempio per tutte le donne, il suo gesto ha insegnato che, di fronte alla violenza, ai soprusi non bisogna far finta di niente, si deve rispondere, si deve lottare per affermare se stesse e non farsi mai dire cosa si può o non può fare.

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La forza di una passione

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Antonella Clerici

Con “The Voice Kids” tornano su Rai 1 le voci (e le storie) di bambini e ragazzi.  La conduttrice al RadiocorriereTv: «Ormai il talento è precoce, già a 13, 14 anni i giovani sanno quello che vogliono e hanno gusti musicali ben definiti, autonomi da quelli dei loro genitori». In giuria la new entry Arisa, Loredana Bertè, Clementino e Gigi D’Alessio. Dal 24 novembre in prima serata

I suoi bambini, i suoi ragazzi tornano in scena con “The Voice Kids”, che edizione sta preparando?

Una bella edizione perché ci sono dei veri talenti. Ormai il talento è precoce, accade nella musica come nello sport. Vedi ragazzini di 13, 14 anni che non dico sappiano già che cosa vogliono, ma che hanno sicuramente passioni ben definite. Sono tutti ragazzi che amano la musica, che vanno a scuola di canto, che hanno una famiglia musicale. Hanno magari il papà che suona o la mamma che canta, per hobby, perché nessuno di loro ha genitori famosi. Hanno un talento naturale, che in alcuni di loro è già pronto e che in altri casi deve ancora essere coltivato. Mi piace molto fare questo programma, dove sono di casa gentilezza e rispetto, credo che sia un appuntamento giusto per le famiglie, penso che anche l’inserimento di Arisa, che si unisce ai giurati storici, sia perfetto.

Il talento lei l’ha sempre fiutato…

Moltissimi dei miei bambini di “Ti lascio una canzone” oggi lavorano nel mondo della musica, e non parlo solo del Volo, ma di chi sta dietro le quinte. C’è chi fa il produttore musicale, come Mattia Lever, chi fa il pianobar, chi insegna musica. Pochi giorni fa ho incontrato Ilaria Mongiovì, che ha preso parte recentemente a “Tale e Quale”. Penso di avere lasciato in loro un buon ricordo. È bello vedere che le note di questa gioventù rimangono a disposizione di tutti e che, a prescindere dal successo, hanno continuato a coltivare la propria passione. C’è chi suona il pianoforte, chi la batteria. Suonare uno strumento è importantissimo, perché come dice Gigi D’Alessio ti rende indipendente, ti dà la possibilità di comporre la musica quando hai l’ispirazione.

Bambini e anziani, che cosa hanno in comune?

Tantissimo, innanzitutto perché bambini e anziani stanno bene tra loro: i nonni tornano un po’ bambini e i bimbi si affidano a una persona grande. Quando sei piccolo i nonni sono il tuo mondo. Sono due età della vita che amo molto. L’inizio, in cui tutto è possibile, e il secondo tempo, in cui i giochi sono fatti. Quando sei “senior” e sali sul palco vivi quell’esperienza come fine a se stessa.

Cosa può dare Arisa, con il suo sorriso, con la sua energia, alla narrazione di “The Voice Kids”?

Intanto il suo lato bambino. Lei è un po’ un cartoon (sorride). E poi ci sono le sue canzoni che sono amatissime dai più piccoli, sono tantissimi i bambini che ai provini portano “La notte”. Arisa si è integrata perfettamente nel gruppo di lavoro, sia con Loredana che con Gigi e Clementino, e questo è importante per la resa del programma.

Regala un aggettivo o un pensiero per ognuno dei giurati?

Loredana è una ragazza rock con uno spirito indomito. Dietro alla sua scorza si nasconde una donna molto dolce. Clementino è la follia, l’eccesso, la simpatia. Gigi è il musicista, è romantico. Lo prendo spesso in giro perché sciorina frasi da Baci Perugina. Arisa è suadente, delicata, anche con i bambini.

Prima “Ti lascio una canzone”, oggi “The Voice Kids”, cosa le hanno insegnato i ragazzi?

Tantissimo. Iniziai “Ti lascio una canzone” che non ero ancora mamma e lo diventai un anno dopo. Per me fu importante anche come allenamento, per capire come erano i bambini. Da allora a oggi, a quindici anni di distanza, ho notato un grande cambiamento tra i ragazzi: ascoltano più musica, sono molto più consapevoli. Una volta i gusti musicali dei bambini erano un po’ quelli degli adulti, oggi chi viene a “The Voice Kids”, ha gusti musicali molto precisi. I bambini hanno le loro classifiche, le loro playlist, accedono alla musica in modo diverso da come avveniva un tempo.

Se fosse stata una cantante con quale brano le sarebbe piaciuto arrivare al successo?

Sicuramente con una canzone di Mina, un mito assoluto della musica, una vocalità straordinaria. Amo molto, da sempre, anche Lucio Battisti, che per di più oggi sta ritornando molto di moda tra i ragazzi.

Qual è la parola che più racconta la sua carriera?

Eclettica. Credo di essere, tra i conduttori, quella che ha fatto più cose diversificate, più titoli in assoluto, nel prime time e non solo. Ho fatto anche tante sperimentazioni assumendomene i rischi.

C’è un tassello che ancora manca a un puzzle così bello e colorato come è la sua carriera?

Direi di no. Ho fatto tutto (sorride).

Lei è una donna felice?

La felicità è un attimo, e di attimi ne ho avuti tanti. La serenità è più un equilibrio, che è quello che spero di avere raggiunto.

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