MASSIMO ROSCIA

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Il manuale per decifrare il linguaggio giovanile

Esiste un manuale per sopravvivere all’intricata giungla linguistica dei giovani? Da oggi sì: con oltre duecento lemmi e mille esempi, l’autore esplora con ironia e profondità il gergo giovanile, offrendo agli adulti uno strumento divertente e utile per conoscere parole e modi di dire spesso incomprensibili. Un viaggio tra slang, abbreviazioni e neologismi, per non sentirsi più… troppo cringe!

 

Come nasce l’idea di esplorare il linguaggio giovanile contemporaneo?

Da tanti anni mi occupo della lingua italiana, attraverso diversi generi letterari, senza essere un esperto linguista. Sono un appassionato della lingua, un artigiano delle parole. Mi interessano l’evoluzione, gli abusi, usi e trasformazioni. Un anno fa, con Rai Libri, avevo pubblicato un piccolo dizionario degli errori grammaticali, in cui riflettevo su come la lingua si adatti e cambi, soprattutto per effetto delle nuove generazioni. La lingua italiana è viva, è un organismo che si evolve quotidianamente. Ogni giovane ha il suo linguaggio, è fisiologico, e con il linguaggio giovanile non c’è nulla da temere: è creativo, dinamico, che riflette la vitalità e la fantasia dei ragazzi.

Parliamo di un linguaggio vivo, in evoluzione…

Esattamente! Il linguaggio giovanile è espressivo, creativo, e a volte può sembrare scomposto o sfidante, ma in realtà è porta energia e freschezza. Non bisogna temerlo, anzi, è una parte integrale del nostro linguaggio. È vero che a volte diventa difficile comprenderlo, ma è naturale che i giovani vogliano esprimersi con un codice proprio, un linguaggio che li differenzi dagli adulti.

 

Qual è stata la scintilla che ha ispirato la scrittura di questo libro?

La curiosità. Mi sono trovato più volte di fronte a frasi o testi che non capivo, e ho sentito il bisogno di comprendere meglio questo linguaggio. Non è solo una questione anagrafica, ma anche professionale. Lavorando nella comunicazione, ho capito che il linguaggio è uno strumento potente. Quando mi sono trovato a non capire certe espressioni usate dai ragazzi, ho deciso di studiarle e di comprenderle più a fondo. Ho iniziato a osservare i testi sui social, a leggere i dialoghi, e da lì è nato tutto.

È stato difficile trovare un equilibrio tra ironia e serietà?

No, affatto. Ho cercato di assecondare la mia indole, che è fatta di leggerezza, ma anche di rigore. La leggerezza non è superficialità, ma un modo per rendere fruibile un argomento serio, come la lingua, senza rinunciare alla profondità. Penso che sia possibile trasmettere messaggi anche importanti con un approccio leggero, senza perdere di vista la sostanza. Ho fatto lo stesso anche in un libro precedente dedicato ai bambini dove ho cercato di insegnare in modo divertente ma efficace.

Come ha scelto i vocaboli da inserire nel suo libro e cosa li rende rappresentativi del linguaggio giovanile?

I vocaboli scelti sono un campione di ciò che oggi caratterizza il loro linguaggio. Ho cercato di includere parole che potessero essere riconoscibili da diverse generazioni, anche se è un linguaggio in continua evoluzione. Ogni gruppo ha il suo, e questo cambia velocemente. Alcune espressioni che oggi sono popolari potrebbero essere già obsolete tra un mese. Questo linguaggio non è uniforme, ma varia in base all’età, alle influenze culturali e ai contesti sociali e viene principalmente da internet, dai social, dalla musica, dai videogiochi, dallo sport, ma anche dalla tradizione orale che ha sempre accompagnato il nostro linguaggio.

Quanto è importante per un adulto comprendere questi termini per instaurare un dialogo più efficace con i giovani?

È fondamentale. Il linguaggio giovanile non è solo una forma di divertimento, ma una vera e propria strategia identitaria. Utilizzano questi termini per affermare la loro appartenenza a un gruppo e per differenziarsi dagli adulti. In un certo senso, è un codice segreto che serve anche a non farsi capire dagli estranei. E proprio come un codice, è in continua trasformazione, con nuove parole che nascono ogni giorno. Perciò, per gli adulti, è importante non solo comprendere questi termini, ma anche riconoscere il valore che hanno per i ragazzi. Non dobbiamo rassegnarci a non capirli, ma fare uno sforzo per entrare in sintonia con questa nuova forma di comunicazione.

Come si inserisce questo libro nel suo personale viaggio letterario e culturale?

Il libro si inserisce in un cammino che ho intrapreso ormai vent’anni fa, senza armarmi di lance o spade, ma con il sorriso. È un viaggio che non ha una fine prestabilita, ma che mi permette di esplorare la lingua, la grammatica e la cultura da angolazioni sempre nuove. Mi ha dato l’opportunità di guardare il linguaggio giovanile con occhi diversi, di approfondire un aspetto che, prima, consideravo solo marginale. La lingua giovanile è un universo difficile da classificare, ma incredibilmente affascinante, polimorfo e in continua evoluzione.

Cos’è che l’ha sorpresa di questo linguaggio?

Il fatto che, nonostante sia una lingua che sfugge a ogni tentativo di classificazione, ha una sua logica, un suo dinamismo. Esiste solo dal secondo dopoguerra, quindi è relativamente giovane. Ed è interessante perché, pur essendo transitoria, continua a evolversi: non segue regole rigide, ma si adatta ai contesti.

Come l’ha arricchita, professionalmente, questo percorso?

Mi ha permesso di esplorare angoli che non avevo mai considerato: ho avuto la lingua italiana da una prospettiva completamente nuova. Questa esplorazione mi ha dato anche l’opportunità di migliorare il mio approccio scientifico al linguaggio, applicando metodi di studio e analisi più rigorosi. È stato un modo per approfondire la mia comprensione della lingua e, allo stesso tempo, divertirsi.

Considera il linguaggio giovanile una risorsa o un rischio per la lingua italiana?

È una risorsa, una varietà della lingua italiana, che si sviluppa in contesti informali, all’interno di gruppi di pari. Non va contro la lingua italiana, anzi la arricchisce. Certo, bisogna fare attenzione ai contesti. Il rischio può emergere quando non si distingue l’uso di questo linguaggio in situazioni informali rispetto a quelle più formali, come un articolo giornalistico o una tesi di laurea, dove una certa “pulizia” linguistica è necessaria. Ma, se usato nei contesti giusti, è un arricchimento, un modo di rinnovare la lingua.

Come vede il futuro di questo linguaggio?

Come parte integrante della lingua italiana. È un linguaggio che riflette i cambiamenti sociali, culturali e tecnologici. Con la sua mescolanza di regionalismi, dialettismi e influenze internazionali, arricchisce la lingua, ma non la minaccia. Naturalmente, sarà importante che i giovani imparino a utilizzarlo con consapevolezza, riconoscendo quando è appropriato e quando no. La lingua italiana continuerà a evolversi, ma il linguaggio giovanile è destinato a restare, forse sotto forme diverse, adattandosi ai nuovi tempi.

Cosa pensa dell’uso dei termini anglosassoni o delle parole “moderne” nel quotidiano?

Penso che ci sia una certa esagerazione, da parte nostra, nell’adozione di termini stranieri. A volte usiamo parole come “location” o “step by step” come se fossero indispensabili, ma sono solo il riflesso di un periodo in cui pensavamo che usare un po’ di anglicismi ci facesse sembrare più colti o alla moda. Nel linguaggio giovanile questi termini sono spesso usati in modo consapevole. Il problema nasce quando li usiamo senza comprenderne il significato o senza contestualizzarli correttamente. Se li usano nei giusti contesti, senza abusarne, non vedo alcun problema.

Qual è il suo prossimo progetto in ambito linguistico?

Sto continuando il mio tour con “Errorario”, che è sempre un divertente approfondimento sulle peculiarità della grammatica e del linguaggio italiano. In futuro, vorrei approfondire ulteriormente l’aspetto del linguaggio giovanile, magari con nuovi spettacoli o libri. L’idea è di proseguire il mio viaggio attraverso la lingua, sempre in modo giocoso, ma anche con l’obiettivo di fare riflettere sulle sue sfumature e sulla sua evoluzione. Oltre ai corsi di scrittura e alle presentazioni con “Errorario”, dal 18 maggio riparto in tour in tutta Italia anche con “Boomerario”. Sono eventi che mi permettono di interagire con il pubblico in modo informale e divertente, senza perdere mai il focus sulla cultura e sulla lingua.

 

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VALENTINA ROMANI

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Preferisco le storie scomode

«Mi piace interpretare personaggi densi, difficili, contraddittori». Raggiunta la popolarità con serie di successo della Rai come “La porta rossa” e “Mare fuori”, dal 22 maggio l’attrice romana conduce l’original di RaiPlay “Dark Lines” dedicato a casi efferati di cronaca nera, mentre su Rai 1 si avvia alla conclusione la fiction “Gerri”, nella quale interpreta il personaggio della viceispettrice di polizia Lea Coen. Al RadiocorriereTv confida: «Nel lavoro porto la mia parte bambina. Mi piace giocare con lo stupore»

 

Che cosa la attrae del mondo dark e del genere crime?

La cosa che apprezzo del crime è il fatto di essere un genere, spesso, in grado di innescare profonde riflessioni nel pubblico. Tutto ciò che può invitarci a porci delle domande lo trovo molto stimolante.

 

Cosa l’ha spinta ad accettare di narrare “Dark Lines”?

Raccontiamo otto fatti di cronaca nera che hanno al centro delle vittime donne. È un tema a cui mi sento molto vicina e spero che, con la mia presenza, si riesca a sensibilizzare anche i più giovani.

 

Cosa deve avere una storia per catturare le sue emozioni?

Non sento di avere un genere che preferisco, vado un po’ a periodi. In generale mi piacciono le storie con personaggi densi, difficili, contraddittori. La scomodità a volte è l’ingrediente perfetto per spingerci oltre i nostri limiti.

 

Cosa significa dare voce a storie di donne?

Per me l’occasione di fare da ponte con le nuove generazioni. La situazione dei femminicidi in Italia è qualcosa che ha urgente bisogno di essere debellata. Noto con piacere che anche molti uomini sono vicini alla tematica e questo, da donna, mi incoraggia perché è una battaglia da fare insieme.

 

Cosa porta di Valentina nel suo lavoro?

Forse la mia parte bambina, ma non lo faccio apposta. Mi piace giocare con lo stupore, cercare di non aspettarmi niente, mi lascio guidare spesso dall’istinto e lo presto, come posso, ai miei personaggi. Credo che restituisca una buona dose di realismo.

 

Un nuovo femminile proposto con la serie “Gerri” alla platea di Rai 1, che donna è Lea?

Lea è una donna molto forte, che sa bastarsi. Non ama scavare in profondità dentro se stessa e non è una crocerossina, piuttosto una persona che ha scelto di dedicare la sua vita agli altri, alla giustizia.

 

Qual è l’ambizione di una serie come “Gerri”?

Speriamo che il pubblico possa affezionarsi alla nostra serie, perché ambisce ad abbattere i pregiudizi che spesso usiamo come filtro tra noi e il mondo. È un racconto che esplora gli esseri umani in tutta la loro complessità.

 

Tra cinema, serie e Tv che tipo di attrice desidera essere?

Desidero potermi riconoscere sempre e portare avanti una carriera lavorativa che possa essere coerente con me stessa. Mi piace spaziare tra i personaggi e immergermi in mille vite nuove.

 

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Aemilia 220

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La Mafia sulle rive del Po

L’espansione della ‘ndrangheta in Emilia-Romagna, una terra a lungo ritenuta immune dalle infiltrazioni mafiose. Il racconto esclusivo del più grande processo per mafia mai celebrato nel Nord Italia: 220 arresti, centinaia di intercettazioni audio e video, e un’aula bunker costruita appositamente per ospitare un’inchiesta senza precedenti. Un viaggio dentro una criminalità organizzata che si è evoluta, mimetizzandosi nel tessuto economico e sociale del territorio. In prima visione su Rai 2, venerdì 23 maggio 2025, in prima serata

Una docufiction che, per la prima volta, racconta in modo sistematico e con un linguaggio cinematografico l’espansione della ‘ndrangheta in Emilia-Romagna, una regione a lungo considerata immune dalle infiltrazioni mafiose. Al centro del racconto, il più grande processo per mafia mai celebrato nel Nord Italia: 220 arresti, centinaia di intercettazioni audio e video, un’aula bunker costruita appositamente per ospitare un’inchiesta che ha segnato una svolta. Una criminalità che ha cambiato volto: non più lupara e pizzo, ma giacca e cravatta, frodi fiscali, imprese inquinate, appalti truccati e legami trasversali con politica, istituzioni e media locali. Attraverso le voci di investigatori, magistrati, giornalisti e una potente ricostruzione fiction – firmata da Claudio Canepari e Giuseppe Ghinami – la docufiction trasforma le carte processuali in un thriller civile, capace di restituire tutta la tensione, la complessità e l’urgenza di una vicenda che ha scosso il Paese. “220” non è solo un numero, è il simbolo di un’inchiesta che ha spezzato il silenzio, rivelando quanto la mafia si sia fatta moderna, mimetica e trasversale. È la storia di un territorio che ha faticato a riconoscere il nemico, ma che ha saputo – tardi ma con coraggio – reagire. Un’indagine che ci ricorda come nessun luogo sia davvero al sicuro, e che la vigilanza democratica non sia mai un lusso, ma una necessità.

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Look at me

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Un viaggio nel mondo alla scoperta dei giovani, dei loro sogni e della loro tenacia. In onda su Rai Gulp dal 12 maggio, dal lunedì al venerdì alle 17.40

Arriva su Rai Gulp la nuova edizione di “Look at me”, il progetto di documentari per ragazzi co-prodotto da Rai Kids realizzato in collaborazione con la Direzione Produzione TV della Rai – Centri di Produzione “Piero Angela” di Torino e di Roma e dall’EBU-UER, l’unione delle televisioni pubbliche europee.  Appuntamento dal 12 maggio, dal lunedì al venerdì alle ore 17.40. Quest’anno la serie si arricchisce di 12 nuovi documentari: storie di ragazzi e ragazze di 10-12 anni che abitano in diversi paesi d’Europa e in Giappone. I protagonisti sono alle prese con piccole o grandi sfide personali: che si tratti di scrivere e mettere in scena una commedia per la pace, salvare un animale selvatico in pericolo, allenarsi per diventare vigile del fuoco oppure organizzare un concerto per promuovere la sicurezza stradale. Ciascun documentario accompagna il protagonista nel suo viaggio intimo verso il raggiungimento di un obiettivo, raccontandone la dedizione, la passione e il coinvolgimento emotivo. Il loro motto è “I can do it!”, “Posso farcela!”. In rappresentanza dell’Italia c’è Lorenzo Gerbi, 10 anni, di Dronero (Cuneo), cittadina ai piedi della Val Maira, una delle più belle e caratteristiche delle Alpi piemontesi. Lorenzo ama tutti gli animali, sia selvatici che domestici, ma ha una passione speciale per i rapaci. Il suo sogno è trascorrere una giornata al CRAS, Centro Recupero Animali Selvatici. Lì incontrerà un allocco caduto dal nido e se ne prenderà cura fino a quando sarà pronto per essere liberato in natura. Tra loro si creerà un legame speciale, che li accompagnerà fino al difficile momento della separazione. Il viaggio prosegue in Giappone dove Soen farà scoprire il gioco del kendama; in Germania Benet tenta di segnare il suo primo gol in una partita di calcio, sfidando la sua bassa statura; Mimi suona il cimbalom, vuole fondare una band ed esibirsi al più grande festival folkloristico della Slovacchia; Georgie ha un legame speciale con le mucche della fattoria in cui vive in Irlanda e vuole vincere un concorso con la sua vitella da esposizione; in Serbia Alisa adora scivolare sul ghiaccio con i suoi pattini e vuole allenarsi nel salto Lutz; Mateus, appassionato di parkour, è determinato a fare un backflip durante il più grande evento di parkour del Portogallo; Iva spazia dalla robotica alle danze folkloristiche del Montenegro; alla Battaglia delle Band, Calum ci accompagna alla scoperta della musica gaelica scozzese.

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La guerra di Cesare

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Una favola sociale, un dramma contemporaneo in cui la provincia è la cornice per raccontare la crisi del lavoro e di un’epoca che non esiste più. Il film racconta una storia di ribellione fallita, che parte da una miniera sarda che ha esaurito la sua potenzialità estrattiva e, di conseguenza, il suo ruolo sociale, ma non la sua forza metaforica. La storia parte da qui, dalla fine delle cose e da un popolo di lavoratori abbandonato. Da questo evento nasce il racconto di due amici lavoratori che vivono una relazione viva e complessa, fino a che la morte di uno dei due spingerà l’altro a cercare, in qualche modo, un senso di riscatto. Nelle sale dal 20 maggio

Nel sud ovest della Sardegna, in un piccolo paese minerario in grave declino economico, Cesare e Mauro, ex minatori e amici da sempre, lavorano come guardie giurate all’interno di una miniera di carbone in disuso. Attendono speranzosi che un’importante azienda cinese acquisti la miniera e la rilanci, ma purtroppo per loro e per tutti gli altri lavoratori del comparto, i dirigenti orientali rompono improvvisamente la trattativa e abbandonano l’isola. La miniera è definitivamente morta e i due possono dire addio al loro lavoro. A seguito di questa tragica decisione economica, Mauro ha una reazione esasperata e nel tentare di dar fuoco ad un ufficio della miniera, commette un errore e perde la vita. La morte dell’amico mette Cesare davanti ad un’amara verità: la sua vita è ferma al palo. Senza più un lavoro, con un matrimonio ormai fallito, a Cesare non resta che reagire. Si mette in viaggio assieme a Francesco, il fratello problematico di Mauro, in direzione della città dove l’azienda mineraria ha la sede principale, con il chiaro obiettivo di vendicare l’amico morto. Ma inaspettatamente, una volta giunto in città, Cesare si ritrova a vivere una serie di esperienze che metteranno in discussione i suoi valori e la sua ferrea volontà di vendetta.

 

I personaggi

Cesare (Fabrizio Ferracane)

Cesare ha circa cinquant’anni, di cui ventisei spesi nell’impresa mineraria di cui è ancora dipendente. L’estinzione del giacimento lo porta a mansioni sempre più umili fino ad essere ricollocato nel ruolo di guardia giurata all’interno della miniera. In questo lavoro decisamente inutile – il giacimento è improduttivo da anni – è affiancato dall’amico Mauro. Cesare è sposato con una donna che ha amato molto in gioventù, ma il lento incrinarsi di tutto – il lavoro, la vita del paese, la loro relazione senza figli e l’amore per la danza che adora praticare e insegnare – ha finito con lo spegnere quel sentimento. Ma la vita continua a scavare sottotraccia e, quando Mauro muore, Cesare si riprende e ingaggia una lotta sia contro sé stesso sia contro quel nemico che ha causato il suo disfacimento esistenziale: l’azienda che prima ha sfruttato la miniera e il paese, per poi abbandonare tutto e tutti.

Mauro (Alessandro Gazale)

Tra tutti gli ex minatori che lavorano ancora nel giacimento del paese Mauro è quello più vivo e iracondo. Ha circa 55 anni ed ha iniziato a lavorare tardi, da ragazzo si è goduto la vita. È sardo da generazioni e vive con una famiglia tutta storta, un trio un po’ grottesco. Lui, appunto, sempre su di giri e pronto allo scontro come all’abbraccio fraterno, la moglie, Daniela, che tenta disperatamente di contenerlo, una casalinga che si è trovata costretta in un ruolo che non desiderava e Francesco, il fratello di Mauro, uno che ha seri problemi psichiatrici. Mauro odia l’ipocrisia dei sindacati e ovviamente odia il padrone, la miniera, chi lo reprime. È anche un uomo, però, votato al buon sentimento: ama chi se lo merita, perdutamente.

Francesco (Luciano Curreli)

Il fratello problematico di Mauro, Francesco, è un uomo di quasi 50 anni. Non lavora e trascorre tutto il suo tempo a ciondolare per casa esasperando Daniela, la moglie di Mauro. Ha una venerazione per Francesco Cossiga, che cita costantemente nei suoi discorsi. Francesco è molto legato a Cesare, che considera uno di famiglia. Insieme fanno danza, Cesare come insegnante e Francesco come allievo, anche se è indisciplinato e non molto capace.

Lori (Francesca Ventriglia)

Di chi poteva innamorarsi Cesare una volta scoperta la vita di città? Di una donna scriteriata, vitale, traditrice, sensuale. Di una modesta ballerina di tip tap di mezz’età che si mantiene con dei corsi di danza per principianti, guidata da una vitalità distruttiva che la porta a far crollare tutto quello che costruisce: lavoro o relazioni, il risultato è sempre il medesimo. Lori è una bellezza che tarda a sfiorire, che è rimasta intatta nonostante la poca cura prestata. È una donna fuggita dalla propria famiglia, straziata dall’idea di stare ferma in un luogo.

 

Il regista Sergio Scavio racconta… 

«La missione mia era questa: far saltare tutti e quattro i palazzi e, in ipotesi secondaria, occuparli, sbattere fuori le circa duemila persone che ci lavoravano, chine sul fatturato, sui disegni tecnici e sui testi delle umane relazioni, e poi tenerli a disposizione di altra gente. Veramente nessuno venne a dirmi che questa era la mia missione, che dovevo fare così e così, ma era pacifico, toccava a me (“La vita agra” di Luciano Bianciardi) “La guerra di Cesare” nasce dalla voglia di rimettere in moto un libro per me molto importante, “La vita agra” di Luciano Bianciardi. Il romanzo racconta le prime crepe del boom economico ed io mi sono chiesto che cosa è rimasto oggi di quel mondo economico e sociale dopo che quella crepa, inizialmente sottilissima, è oggi diventata una voragine dentro cui è tutto precipitato: la società tutta e soprattutto quei lavoratori, i loro sogni. Ho pensato alle persone che mi erano vicine che venivano da quel mondo e li ho immaginati immersi, impotenti, dentro una Sardegna mineraria che penso di conoscere bene: un territorio segnato dalla fine di un’epoca, dall’esaurimento delle risorse e dall’abbandono. Tempo fa lessi che, in certe miniere sarde, c’erano minatori che non erano mai stati dentro un pozzo, dentro una galleria: pur di tenere in vita un sistema produttivo lo Stato creava paradossi del genere. Qui, tra rituali quotidiani svuotati di senso, due famiglie e due amici lavoratori vivono una relazione intensa, messa alla prova dal licenziamento e dalla conseguente ribellione. Ma ha ancora senso rivoltarsi, oggi? È ancora possibile? Ha senso fare cose dimostrative, simboliche, cose inutili? Questa è la domanda che attraversa il film. L’inutilità di far rivivere una miniera spenta, di un’amicizia tossica, di cavalli che non corrono, di una statua abbattuta. Eppure, è proprio in questa gratuità che risiede la forza dei personaggi, la bellezza insostituibile delle cose che non servono. Ho provato a mettere in scena quello che credo un’opera prima dovrebbe fare: rischiare tutto, non limitarsi, provare a mettere in scena tutto il cinema inespresso fino a quel momento. E quindi, insieme al tentativo di raccontare una ribellione fallita, ho descritto il mondo vicino a me, lo spirito della mia città, Sassari, e il mio cinema, cioè tutto ciò che amo; ho mischiato attori professionisti con amici e li ho tutti mascherati dentro personaggi grotteschi, comici e drammatici insieme. Li ho fatti ballare, ridere, abbracciarsi, suonare insieme. La musica è un elemento importante del film. Ho costruito con il compositore una colonna sonora che avesse dei suoni nostalgici, musiche dei tempi passati, con un impasto contemporaneo: quindi suoni vaporwave, un genere che inquadra delle musiche che rappresentano la nostalgia di un periodo che non si è mai vissuto, il mio caso con il mondo operaio e politico degli anni del lungo secondo dopoguerra. Ma non solo: canti operai, rock, dance music… E ad ospitare la musica e i suoi danzatori un dopolavoro operaio convertito in una discutibile e bizzarra discoteca. È poi un film che arriva dopo una lunga, faticosa e non ancora esaurita carriera da spettatore professionista e poi da insegnante di cinema. Grazie alle opere e agli sguardi di tanti registi è stato possibile per me realizzare questo film, troppi per nominarne qualcuno, ma tutti in qualche modo parlano di me.»

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FABIO GENOVESI

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Che poesia il Giro d’Italia

Dalla sua voce nasce l“altra” telecronaca dell’appuntamento ciclistico più amato. Lo scrittore al RadiocorriereTv: «Passo mesi alla ricerca di informazioni, a raccogliere dettagli, perché lo spettatore della Rai merita il meglio, che il racconto sia unico, fatto per lui»

Uno scrittore che racconta il Giro in Tv. Quella che all’inizio poteva sembrare una sfida è oggi una felice consuetudine, che esperienza è per lei?

La mia prima volta fu con il Corriere della Sera, dopo arrivò l’esperienza con la Rai, che è per me motivo di grande felicità e orgoglio. A ogni nuovo Giro la passione aumenta, e ho voglia di fare sempre meglio. Passo mesi alla ricerca di informazioni, a raccogliere dettagli, perché lo spettatore della Rai merita il meglio, che il racconto sia unico, fatto per lui. Mi piace raccontare il territorio in maniera esaustiva ma non ovvia.

Da martedì 13 maggio i corridori saranno in Italia, partiranno da Alberobello in direzione Lecce. Che cosa si aspetta dal percorso 2025?

Il percorso è interessante e può nascondere grandi sorprese: ci sono almeno due tappe che prevedono lo sterrato, una vera e propria roulette russa in cui può succedere di tutto. Mi spiace che non ci sia tanto Sud, che è pieno di luoghi stupendi, ma capisco che ci siano esigenze logistiche. Mi affascina invece che si arrivi in molti luoghi non notissimi, cosa che ci consentirà di raccontare zone meno conosciute, dando anche impulso a un turismo di scoperta di famiglie, di amici, così come di persone che viaggiano da sole, interessati a vedere luoghi che sino al giorno precedente non conoscevano.

Il viaggio, la carovana, la sfida sportiva, le persone… quanta poesia c’è in tutto questo?

C’è una grande poesia, e c’è soprattutto uno spirito speciale di fratellanza, non solo tra chi il Giro lo corre, tra chi lo segue per raccontarlo, per costruirlo, organizzarlo, ma anche tra chi va a bordo strada per vederlo passare. È un’esperienza strana e vera. Il mondo che conoscevo prima, quello della cultura nel quale ho tanti amici, non è paragonabile come affetto, attenzione, calore, a quello del ciclismo, che è sinceramente appassionato, in cui c’è davvero interesse a sapere come stai, e dove ho trovato tante belle persone. Ho sempre seguito il ciclismo, conoscevo già dalla televisione il lavoro del team di Rai Sport, e quando sono andato a lavorare con loro la mia paura è stata quella di rimanere un po’ deluso, invece è capitato l’esatto contrario: non solo mi hanno confermato la positività che avevo, ma sono rimasto stupito ancora di più. Una bellissima sorpresa. Non ci sono professori, ma compagni di viaggio.

Cosa significa, per uno scrittore, raccontare con la voce senza fare uso della scrittura?

Per me non è complicato. Ho sempre considerato la scrittura come una parte dell’oralità. In fondo se pensi all’Iliade e all’Odissea sono capolavori messi per iscritto dopo secoli di storie che giravano a voce. Quando scrivo i miei libri li faccio uscire solo dopo averli letti ad alta voce, da solo, a casa, come un pazzo, venti, trenta volte. La parte orale, della voce, è fondamentale. Se una cosa non suona bene a voce non suona bene nemmeno letta. E poi mi piace girare l’Italia facendo i monologhi, ciò che faccio al Giro è parte di quello che già facevo. Dopo il commento alla gara prendo parte al “Processo alla tappa” per leggere la cartolina, un lavoro di scrittura e lettura. La scrittura è parte della voce.

Il Giro potrebbe diventare, in qualche modo, protagonista di uno dei suoi futuri romanzi?

Non lo so. Mi piace di più che ci entri senza che si veda. Le mie storie parlano di tutt’altro, l’ultimo mio romanzo (“Mie magnifiche maestre”, Mondadori) parla delle mie nonne e zie che tornano in sogno da me. Lo fanno in un modo che ha a che fare con il ciclismo, ci sono lo stesso atteggiamento, la grande umanità, nonostante dalla vita non avessero avuto tanto. Ci sono la fatica, la passione.

Il momento più emozionante (e quello più difficile) di questi suoi lunghi viaggi per l’Italia…

I momenti che mi piacciono di più sono soprattutto quelli che viviamo prima e dopo la tappa, quando arrivano gli appassionati: vedi tanti bambini, che hanno gli occhi pieni di sogni, e tanti anziani, vedi la signora e il signore che si vestono bene per assistere al passaggio dei ciclisti, è una cosa commovente. È bello parlare con loro, condividere la passione. Mi spiace, invece, vedere, talvolta, l’insofferenza di alcuni, perché magari la strada viene bloccata per qualche ora. Quando passa una grande festa come è il Giro, e hai una reazione di frustrazione, vuol dire che il tuo stato d’animo è così pieno di amarezza e di rancore che non sei più capace di goderti le cose belle. Non mi dispiace per il Giro, ma per quelle persone lì, che perdono l’occasione di godersi le cose belle.

Cosa non può mancare nella valigia per il “Giro d’Italia” di Fabio Genovesi?

C’è di tutto. Devi mettere il costume da bagno e il passamontagna, la tuta termica e i sandali perché sai che troverai temperature estreme, da un lato o dall’altro, e in poco tempo. È la valigia più varia che tu possa mai fare.

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FABRIZIO FERRACANE

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Storie che penetrano l’anima

Nella serie “Gerri” firmata da Giuseppe Bonito, l’attore siciliano interpreta Alfredo Marinetti, un uomo diviso tra rigore professionale e fragilità emotiva. Al RadiocorriereTv racconta la complessità del suo personaggio, il legame speciale con Gerri, e l’alchimia sul set con Roberta Caronia. In arrivo al cinema anche “La guerra di Cesare”, film che gli è valso il premio come Miglior Attore Protagonista al Bif&st 2025

 

Proviamo a presentare Alfredo Marinetti. Quali sono i tratti salienti di questo essere umano?

Come per tutti, anche nella vita di Marinetti esistono due dimensioni: quella pubblica e quella privata. Sul lavoro è meticoloso, estremamente puntiglioso, e in ogni ambito ricerca onestà e sincerità. In questo ci somigliamo molto: anch’io detesto i soprusi, le sopraffazioni, ogni forma di disonestà. Non capirò mai perché non si riesca a puntare tutto sulla meritocrazia, preferendo invece scorciatoie e compromessi. Tornando al mio personaggio, nel privato si aprono veri e propri burroni: è un uomo timido, in Sicilia diremmo “scantulino”, profondamente innamorato di sua moglie, interpretata magistralmente da Roberta Caronia, che conosco da una vita.

Che tipo di relazione avete costruito sul set?

Roberta è una donna dotata di grande charme, oltre che un’attrice straordinaria. Secondo me, la grandezza di un interprete si riconosce nella capacità di mettersi in ascolto dell’altro, di accantonare il proprio ego. Quando questo accade sul set, nasce la magia. Con Roberta è successo proprio questo. A contribuire alla bellezza di questo lavoro è stato anche il regista, Giuseppe Bonito, che avevo già apprezzato ne “L’Arminuta”. Abbiamo riflettuto molto su questa coppia: non hanno figli, forse c’è qualcosa di irrisolto tra loro, ma si amano profondamente. Lei è gelosissima e lo dimostra con scene degne di adolescenti. A un certo punto entra in scena anche Giovanna Aquarica, il Vicequestore dell’Ufficio Minori della Questura di Napoli, interpretato dalla bravissima Irene Ferri. Sarà lei ad aiutare Marinetti a capire meglio Gerri, il fulcro della storia.

Il destino mette Gerri sulla strada di Marinetti. Cosa ha di speciale questo ragazzo?

Nella serie, Alfredo “scopre” Gerri durante un’esercitazione, quasi fosse un talent scout del calcio. Rimane colpito dalla sua straordinaria capacità di leggere le persone, anche quando mentono. Ma Marinetti percepisce subito che qualcosa non va, che c’è un turbamento profondo in lui. Tutti noi, nel bene e nel male, ci formiamo dentro una famiglia, siamo il risultato di ciò che i nostri genitori ci trasmettono – o non ci danno. Ed è da lì che si parte, indipendentemente dal legame biologico. Io, ad esempio, considero mio nipote come un figlio, lo sto accompagnando nella crescita. Non ho una compagna in questo momento, non ho avuto figli, ma lui è la mia vita. Perché l’amore è universale, così potente da andare oltre la biologia.

È accaduto qualcosa di simile tra Gerri e Marinetti?

Sì, tra loro nasce un legame speciale, si riconoscono e si scelgono. Alfredo lo prende sotto la sua ala, lo coinvolge nel lavoro, lo tutela, sopportando anche le sfuriate del suo superiore Nicola Santeramo – Capo della Mobile – interpretato da un attore straordinario come Massimo Wertmüller. Marinetti intuisce il malessere di Gerri, che si manifesta anche nella sua difficoltà a costruire relazioni affettive durature con le donne. Per aiutarlo, inizia a indagare sulla sua famiglia, scoprendo che è stato abbandonato dalla madre da piccolo. Credo che questa sia una serie innovativa, forte, dove il regista ha avuto massima libertà creativa. Questo clima di fiducia ha permesso di realizzare un prodotto davvero riuscito.

Ancora una volta le parole di uno scrittore danno vita a personaggi destinati alla TV. Cosa l’ha colpita della scrittura di Angela Lombardo Lepore?

Mi ha immediatamente colpito il tema dell’infanzia e, in particolare, dei bambini scomparsi, che ovviamente richiama anche la vicenda personale di Gerri. È una tematica che mi tocca nel profondo. Davanti alla violenza sui minori impazzisco, forse perché darei la vita per mio nipote Daniele. La scrittura della Lepore è coinvolgente, libera, essenziale e diretta. Non ha bisogno di orpelli, arriva dritta al cuore.

Cosa significa per lei dare anima e corpo a pensieri e immaginazioni di altri?

Menomale che esistono i personaggi da interpretare, perché a volte stare con me stesso mi annoia (ride). La recitazione mi permette di far emergere la mia parte fanciullesca, di entrare nel gioco del “se io fossi…”. Spesso uso il termine “corruzione” parlando del mio mestiere: l’attore è colui che si lascia corrompere per vivere altre vite. Fabrizio Ferracane sparisce per lasciare spazio a un nuovo volto, a un altro modo di sentire ed esistere. È successo con il personaggio di Aringo in “La terra dei figli” di Claudio Cupellini – uno dei provini più belli della mia vita – con “Polifemo” di Emma Dante, dove interpretavo un uomo violento, e con “Anime nere” di Francesco Munzi, in una scena in cui ho improvvisato il dolore per la morte di un fratello. Ho attinto a emozioni personali legate alla perdita di un caro amico: erano lì, pronte a riemergere.

A maggio esce al cinema “La guerra di Cesare”, per il quale ha ricevuto il premio come Miglior Attore Protagonista al Bif&st. Che storia è?

Cesare è forse il personaggio che più si avvicina a me. È un uomo “comune”, autentico, che crede nell’amicizia ma non ama rischiare. È buono, timido, ma come spesso accade, però, arriva un evento che cambia tutto: un amico compie un gesto sconsiderato, e Cesare, con un atto di coraggio, sceglie di camminare da solo. Aveva una vita stabile, con un lavoro sicuro e una moglie. Ma la morte dell’amico, avvenuta in una miniera in Sardegna, lo stravolge. È un film genuino ma potente, con una scrittura bellissima, avvolgente, parla di amore, di lavoro e anche di inclusione. Dopo quella perdita, Cesare compie un gesto di amore incondizionato, accogliendo nella sua vita il fratello dell’amico, che tutti nel paese considerano “lo scemo”. Con lui intraprende un viaggio umano profondo, meraviglioso. Quando incontro storie così, non importa il compenso: mi ci immergo completamente. Non ricordo chi lo dicesse, ma se una sceneggiatura racconta una buona storia, con buoni interpreti, puoi anche girarla con un telefonino. L’importante è che l’audio sia buono, che la storia arrivi. E quando questo succede, quella storia va raccontata. E sarà seguita

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#ESC2025

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La musica che unisce

L’Eurovision Song Contest in diretta dalla St. Jakobshalle Arena di Basilea: le semifinali in onda martedì 13 e giovedì 15 maggio dalle 21.00 su Rai 2, la finale sabato 17 maggio dalle 20.40 su Rai 1. A commentare lo show Gabriele Corsi e Big Mama, a rappresentare l’Italia Lucio Corsi con «Volevo essere un duro»

Ritorna l’Eurovision Song Contest, l’evento televisivo non sportivo più visto al mondo. Appuntamento alla St. Jakobshalle Arena di Basilea per tre serate di grande musica. Martedì 13 e giovedì 15 maggio le due semifinali saranno trasmesse da Rai 2 dalle ore 21.00, precedute da due anteprime in onda alle 20.15.  I rappresentanti dei Big 5 (Italia, Francia, Germania, Spagna e Regno Unito), insieme al paese ospitante, la Svizzera, si esibiranno dal vivo durante le semifinali. Lucio Corsi si esibirà nella prima semifinale, martedì 13 maggio. Sabato 17 maggio, alle ore 20.40 su Rai 1, la serata Finale del contest. A condurre l’evento ci saranno Gabriele Corsi, ormai un veterano al suo quinto anno di conduzione, e la new entry Big Mama, la prima cantante a commentare per l’Italia la gara eurovisiva. Una coppia inedita e travolgente che combina l’energia e l’esperienza di Gabriele alla grinta e all’ironia di Big Mama. Novità sorprendente dell’edizione 2025 sarà il portavoce che annuncerà il risultato del voto della giuria italiana nel corso della serata finale, lo spokesperson per il nostro Paese sarà Topo Gigio. Importante anche l’impegno di Rai Radio2, radio ufficiale Rai dell’Eurovision Song Contest 2025. In diretta radio e video, sul canale 202 del digitale terrestre e tivùsat, seguirà in simulcast le due semifinali e la finale del concorso dando spazio alla grande musica internazionale, a curiosità, retroscena e al racconto degli artisti provenienti da 37 Paesi. Alla radiocronaca, tornano Diletta Parlangeli e Matteo Osso.

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DAVID 70

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Il cinema è donna

“Vermiglio” di Maura Delpero, già Leone d’argento alla 81esima Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia, trionfa ai David di Donatello 2025, aggiudicandosi ben sette premi, tra cui Miglior film e, per la prima volta in settant’anni a una regista donna, il David alla Miglior regia: «Dobbiamo molto al cinema documentaristico, perché ha aperto alle donne e questa cinquina ci dice tantissimo.» Nella grande notte del cinema italiano, condotta da Elena Sofia Ricci e Mika, brillano le stelle di Elio Germano (Miglior attore protagonista per “Berlinguer – La grande ambizione”) e la giovanissima Tecla Insolia (Miglior attrice protagonista per “L’arte della gioia” diretto da Valeria Golino). David come Miglior attore/attrice non protagonista a Francesco Di Leva e Valeria Bruni Tedeschi.

Tutti i vincitori dei #David70:

 

“Vermiglio” di Maura Delpero
Miglior film – Miglior regia – Miglior sceneggiatura originale – Migliore autore della fotografia – Miglior suono – Miglior casting (assegnato per la prima volta) – Miglior produttore

«Questo è un premio che per qualsiasi regista è una grande emozione dobbiamo al cinema del reale il fatto che negli ultimi anni ci sia una maggiore pluralità di sguardi»

In quattro stagioni la natura compie il suo ciclo. Una ragazza può farsi donna. Un ventre gonfiarsi e divenire creatura. Si può smarrire il cammino che portava sicuri a casa, si possono solcare mari verso terre sconosciute. In quattro stagioni si può morire e rinascere. Vermiglio racconta dell’ultimo anno della Seconda guerra mondiale in una grande famiglia e di come, con l’arrivo di un soldato rifugiato, per un paradosso del destino essa perda la pace, nel momento stesso in cui il mondo ritrova la propria.


“Gloria!” di Margherita Vicario

  • Miglior esordio alla regia – Miglior canzone originale: ‘Aria!’ interpretazione di Margherita Vicario – Miglior compositore

“L’arte della gioia” di Valeria Golino

  • Miglior attrice protagonista: Tecla Insolia
    «Voglio dedicare questo premio ai libri dimenticati, alle personalità scomode come Goliarda Sapienza. Dedico questo premio ai corpi liberi e non cancellati delle loro identità e alle terre libere, sempre e per sempre»
    Miglior attrice non protagonista: Valeria Bruni Tedeschi
    Miglior sceneggiatura non originale

“Berlinguer – La grande ambizione” di Andrea Segre

  • Miglior attore protagonista: Elio Germano
    «Voglio dedicare questo premio a tutte le persone che lottano e che lotteranno ancora per il raggiungimento di quella parità di dignità, che è scritta nella nostra Costituzione. Tutte le persone devono essere degne allo stesso modo.»
  • Miglior montaggio

“Familia” di Francesco Costabile

  • Miglior attore non protagonista: Francesco Di Leva

“Le déluge – Gli ultimi giorni di Maria Antonietta

  • Miglior scenografia – Migliori costumi – Miglior trucco – Miglior acconciatura

“Lirica Ucraina” di Francesca Mannocchi

  • Miglior documentario – Premio Cecilia Mangini: “Grazie a mio figlio Pietro che ha sopportato le mie lunghe assenze e soprattutto alle persone che mi hanno consegnato il proprio dolore, perché dobbiamo rimanere vivi di fronte al dolore degli altri”

“Domenica Sera” di Matteo Tortone

  • Miglior cortometraggio

“Napoli – New York” di Gabriele Salvatores

  • Migliori effetti visi – David giovani

“Diamanti” di Ferzan Ozpetek

  • David dello spettatore

“Anora” di Sean Baker

  • David internazionale

David alla carriera a Pupi Avati
“L’idea di Cinema Revolution è carina ma noi abbiamo bisogno di qualcosa di più. Vedo questa festa e io ho partecipato a un’infinità di premi… ma questa festa non assomiglia al cinema italiano, qui c’è l’opulenza mentre voglio ricordare le società piccole che stanno facendo una fatica pazzesca e hanno bisogno. La cosa più bella sarebbe se Schlein telefona a Meloni e le dice ‘Giorgia ci vediamo mezz’ora con Giorgetti e parliamo di cinema italiano! Non pensate che sarebbe auspicabile?”

David speciale a Timothée Chalamet per celebrare la grandiosa carriera da attore, ma anche la sua profonda connessione con il nostro Paese: “Grazie per questo onore, mi sento umile di fronte al premio in un paese come l’Italia ricca di storia cinematografica”

David speciale a Ornella Muti

Premio Speciale Cinecittà David 70 a Giuseppe Tornatore

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Sapiens

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Torna il programma di Rai 3 con incursioni nel passato, nel presente e nel futuro della vita dei Sapiens. Da sabato 10 maggio in prima serata appuntamento con Mario Tozzi

“Sapiens – Un solo pianeta” torna con l’ottava stagione ad appassionare un pubblico sempre più curioso e desideroso di capire fenomeni complessi raccontati con un linguaggio semplice. L’alluvione di Valencia, l’invenzione della scrittura, Lisbona rinata da un terremoto del pensiero, il catastrofico e prepotente rapporto con gli altri animali non umani, la possibile catastrofe dei vulcani campani e la crisi climatica sono fra i temi delle sei puntate in onda da sabato 10 maggio.

 

LA PRIMA PUNTATA

Perché a Valencia gli argini e le opere non hanno fermato l’alluvione? Pulire il greto dei fiumi, tagliare gli alberi in riva, costruire dighe e barriere consente di resistere meglio alle inondazioni? Oggi accadono più eventi meteorologici a carattere violento rispetto al passato? E dipendono dalla crisi climatica attuale o ci sono altre concause? Riportare i fiumi in condizioni naturali mitigherebbe il rischio idrogeologico o è solo questione di cemento? Perché rimaniamo sempre sorpresi di fronte a una alluvione? Sono solo alcuni degli interrogativi sui quali si concentrerà la prima puntata del programma intitolata “Sottacqua”. È il 29 ottobre del 2024. Nella provincia di Valencia, in Spagna, spira vento di burrasca, piove ininterrottamente per ore, quattro fiumi esondano e il territorio viene sommerso sotto metri di acqua e fango. In un giorno cadono 772 millimetri di pioggia, l’equivalente di un anno. Il bilancio è terribile: oltre 200 le vittime, decine di migliaia gli sfollati, i sopravvissuti restano isolati per giorni e per chi sopravvive il disastro viene dopo. Nel pomeriggio di quel giorno la portata delle piogge diminuisce e il governo regionale rassicura la popolazione. Poi cala un silenzio assordante e l’allerta della Protezione Civile sui telefoni dei residenti arriva solo alle 20 quando ormai il danno è fatto. Soltanto un problema di comunicazione? Anche ma non solo. La realtà e molto più complessa. Per ricucire l’anatomia di un disastro, per capire perché accadono eventi come questo e cosa possiamo fare per evitare che si ripetano, a pochi mesi dall’alluvione Mario Tozzi è andato nei territori colpiti: a Chiva, dove il Rambla del Poyo è esondato, lasciando dietro di sé una scia di distruzione visibile ancora oggi; a Paiporta, epicentro dell’alluvione. Poi è arrivato a Valencia, una città costruita sul fiume, il Turia, il cui corso è stato deviato dopo la tragica alluvione del 1957. Abbiamo documentato la scia di distruzione che ha lasciato dietro di sé quell’evento e ascoltato le testimonianze di soccorritori e sopravvissuti che ci hanno raccontato storie dal fango e storie di solidarietà. Era accaduto anche in Emilia-Romagna nel 2023, quando un’alluvione aveva fatto 17 vittime e poi ancora nel 2024. L’Italia non è nuova a eventi estremi che sono anzi in crescita: nel 2015 sono stati 60, l’anno scorso 351. Per prevenire che disastri come quelli di Valencia o dell’Emilia-Romagna si verifichino ancora occorre trovare soluzioni che indaghino le cause che vedono i sapiens come responsabili. Innanzitutto, sfatando false idee sulla gestione dei corsi d’acqua. Dragare i fiumi, alzare gli argini, tagliare la vegetazione sulle sponde, costruire dighe non sempre aiuta anzi può essere controproducente. Abbiamo maltrattato fino all’inverosimile il territorio costruendo infrastrutture e abitazioni, lo abbiamo invaso con asfalto e cemento rendendo le superfici impermeabili mentre il fiume va lasciato il più possibile libero. Occorre rinaturalizzare i fiumi che sono stati tombati o deviati, evitare di costruire nelle vicinanze, tenersi a debita distanza. Occorre preferire opere elastiche, è indispensabile migliorare i sistemi di allerta e promuovere una cultura del rischio fra la popolazione. I fenomeni meteo possono essere naturali ma le cause profonde che li rendono così distruttivi non lo sono. Se in cielo e in terra l’acqua sta aumentando la sua capacità distruttrice la colpa non è degli ambientalisti ma del cambiamento climatico: il 2024 è stato l’anno più caldo di sempre e da quando si misurano le temperature l’aumento medio in superficie è stato di 1,5 gradi. Dobbiamo fermarci fino a che siamo in tempo. Non stiamo ipotizzando un futuro drammatico. Ci siamo già dentro. In apertura di puntata nello spazio dedicato ai “Dialoghi di Sapiens” lo scienziato Mario Tozzi converserà con l’umanista Pietrangelo Buttafuoco sui temi della serata.

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