SIGFRIDO RANUCCI

Sempre in profondità

 

Il racconto della complessità dei nostri tempi nelle inchieste di “Report”. «Mi attrae la possibilità di raccontare un contesto veramente complicato, forse il più complicato dal dopoguerra. Sempre con gli occhi aperti e con il massimo rigore» dice al RadiocorriereTv. Da domenica 26 ottobre in prima serata

 

 

Pochi giorni ancora e tornano le inchieste di “Report”, da dove si riparte?

Ripartiamo con il solito sguardo di “Report”, partiamo però con una nuova sigla, che alla soglia dei trent’anni abbiamo rinnovato cercando di parlare anche con i più giovani. Ci occuperemo di dove sono finiti i fondi per la cultura, del concetto di merito e di come è stato interpretato in questi anni. Il merito viene riconosciuto in maniera discrezionale e non oggettiva, si rischia in qualche modo di cadere nell’eccesso di potere. Torneremo a parlare di alimentazione, di come viene lavorata e trattata la carne che finisce sulle nostre tavole. Parleremo di sanità, in maniera sempre puntuale e approfondita, vedremo a che punto si è dopo gli investimenti del PNRR, e poi grande sguardo e profondità sui temi internazionali. Torneremo sugli interessi che ci sono sulla ricostruzione in Palestina, andando a vedere anche quali potessero esserci dietro ai bombardamenti e alla distruzione di Gaza. Ci occuperemo di come si sta comportando l’Europa sul conflitto Ucraina-Russia, della corsa agli armamenti. Vedremo anche come viene finanziato il progetto politico che fa capo a Trump, la destra americana, come viene finanziato in Europa. Daremo spazio a inchieste propositive, come quella sulle potenzialità della nostra industria spaziale, che se avesse un vero supporto anche a livello internazionale, in Europa non sarebbe seconda a nessuno. Parleremo anche del Garante della privacy, vedremo di chi è garante.

Cosa ti attrae e cosa ti spaventa dei nostri tempi?

Mi attrae la possibilità di raccontare un contesto veramente complicato, forse il più complicato dal secondo dopoguerra a oggi, quello di un giornalista è un punto di vista privilegiato. Ciò che mi spaventa di più è il senso di smarrimento che vive la gente per bene. Ho l’impressione che ci si sia anestetizzati all’orrore della guerra, incapaci di reagire emotivamente. Un senso di smarrimento alimentato dal fatto che non si hanno uomini di pace, che possono lavorare per la pace. Purtroppo, penso che sia destinata al fallimento, proprio per questo motivo, la pace a Gaza. Devi poterci lavorare attorno alla pace, non è un accordo tra affaristi.

Come si pone un programma di approfondimento come “Report” di fronte al tentativo, sempre più diffuso nell’era social, di semplificare il racconto della realtà?

Andando sempre a cercare la profondità, questo è il problema sostanziale. Il 70 per cento delle persone ormai si informa sul web, sui social, che però non sono lo strumento più adatto, perché la notizia che viene privilegiata non è quella vera, ma quella che raccoglie più click, che ha la capacità di raccogliere maggiore consenso, più visibilità. Faccio sempre un esempio paradigmatico: il 20 marzo 2020, in piena pandemia, apparve sui nostri profili social un video tratto dal Tg Leonardo di cinque anni prima, che parlava di un esperimento fatto in laboratorio in Cina, a Wuhan, su un coronavirus, e che sul web veniva messo in relazione alla pandemia. Quel video fu diffuso alle 11 del mattino, nel giro di poche ore fece 470 mila visualizzazioni, rimbalzò sui siti ortodossi russi, su quelli americani di estrema destra, e fu rilanciato in Italia dai siti sovranisti. In poco tempo aveva raggiunto 680 milioni di visualizzazioni, si aveva la percezione che il virus fosse scappato da un laboratorio. Non era così.

“Report” ha indagato sulla diffusione di quella notizia…

Siamo andati a vedere chi per primo l’avesse lanciata, ed era una signora di Riccione di 74 anni, che non potendo uscire di casa causa divieto, stava rassettando la propria abitazione. Mettendo mano ai cassetti trova un appunto che lei stessa aveva scritto cinque anni prima. Legge di questo Tg Leonardo, fa l’associazione con ciò che il mondo sta vivendo, e deduce che ciò che quel servizio racconta sia all’origine del virus della pandemia. Lo manda alle sue amiche che lo girano a loro volta ad altri amici e in poche ore fa il giro del mondo. Questo vuol dire che la signora era una depistatrice? Certamente no. Che i social media siano depistatori? No, fanno semplicemente il loro mestiere, quello di cercare di incamerare più follower possibili, di farci passare più tempo sulle loro pagine. Il fatto è che noi ci formiamo su questo tipo di strumenti, che riteniamo più credibili di un certo tipo di giornalismo.

 

Una carriera importante alle spalle, cosa ti insegna ancora questo mestiere?

Intanto che devi stare sempre con gli occhi aperti, che devi avere il massimo rigore perché uno scivolone può essere fatale per la tua credibilità, per quella del programma, dei compagni di lavoro e della Rai. E poi, soprattutto, che puntare sulla qualità, sulle idee, è ancora una scelta vincente.

A un giovane consiglieresti di fare il giornalista oggi?

Assolutamente sì. Abbiamo bisogno di giovani preparati, indipendenti.

Che consiglio gli daresti?

Di non confondere mai lo strumento tecnologico con i contenuti, di mantenere un giudizio critico e viva la propria memoria. Immaginiamo che la memoria digitale sia qualcosa di eterno, ma non è così. Se i motori di ricerca, le piattaforme di condivisione, gli strumenti del web dovessero staccare la spina, noi perderemmo un patrimonio immenso.

Sarebbe il caos…

Esempio ne è quanto accaduto a un avvocato di Latina qualche settimana fa. Aveva preparato una memoria difensiva per un proprio cliente citando alcune sentenze cercate attraverso l’intelligenza artificiale. Il giudice si accorge che quelle sentenze non c’erano mai state e rimprovera l’avvocato che a sua volta chiede all’IA per quale motivo gli avesse dato delle risposte sbagliate. L’intelligenza artificiale risponde di essere programmata per non deludere. Ecco, questo è un grande rischio.