Ciao Ornella

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Una storia artistica legata da sempre alla Rai quella di Ornella Vanoni. La cantante milanese, protagonista di una carriera straordinaria lunga oltre sessant’anni, è stata interprete di brani divenuti pilastri della canzone italiana e internazionale: da “Senza fine” a “La musica è finita”, da “Una ragione di più” a “L’appuntamento” e ancora “Eternità” e decine di altri successi. La musica, il teatro con Giorgio Strehler, la prosa e la radio. L’esordio televisivo è del 1961 con “Giardino d’inverno” di Antonello Falqui, programma che decreta l’apprezzamento del pubblico per le doti canore di Ornella. Arrivano “Studio Uno”, le partecipazioni a “Senza Rete”, “Scala reale” e “Canzonissima” e a tanti altri fortunati show di prima serata che vedono impegnata Vanoni anche nel ruolo di conduttrice: da “L’appuntamento” con Walter Chiari a “Fatti fattacci” con Gigi Proietti e “Due come noi” con Pino Caruso. Otto le partecipazioni al festival di Sanremo, oltre 55 milioni i dischi venduti. Una popolarità mai venuta meno.

Ornella Vanoni in un’intervista al RadiocorriereTv del 2019

Quella con il suo pubblico è una lunga storia d’amore che dura da una vita. Come ha costruito questo idillio?

Questo rapporto nasce da tanti anni, dalla conoscenza di tanti pezzi ai quali il pubblico è affezionato. In concerto mi chiedono tutti “L’appuntamento”, “Domani è un altro giorno”, e parlo anche dei giovani, un cantante dura quando riesce a creare dei classici. Poi si rinnova facendo pezzi nuovi, ma i classici nel repertorio non devono mai mancare. Il pubblico viene ad ascoltarti perché è legato a te soprattutto per quelle canzoni.

All’origine del suo successo ci sono anche grandi autori, a chi si sente più legata?

Sicuramente a Gino Paoli, visto che oltre a essere un grande autore ne ero anche innamorata, poi i genovesi, i francesi. Allora c’erano dei bei testi, eravamo in pochi e quei pochi avevano brani di autori importanti ed erano loro stessi importanti. Oggi cantiamo in troppi.

Il suo è un repertorio ricco di hit, quali sono i brani che più la raccontano?

Se li ho cantati mi rappresentano tutti, in vari momenti della mia vita, della mia carriera. La cosa bella del fare musica dal vivo è che volendo è possibile cambiare anche la scaletta. Se i tuoi musicisti conoscono il tuo repertorio puoi dire: stasera non me la sento di cantare quel brano perché sono triste.

Ornella, cosa le piace cantare quando non è sul palco?

“Vecchio Scarpone” e le canzoni degli alpini, un repertorio veramente orrendo.

Cosa la emoziona nella vita di tutti i giorni?

Incontrare un paio d’occhi che brillano intelligenti.

Le capita spesso?

Raro, ma quando capita è molto bello.

Che cosa la diverte della sua professione?

Mi piace molto stare sul palco, anche perché non ho più paura. Un tempo, visto anche il mio fisico, non potevano capire che fossi timida, invece lo ero tanto, avevo una paura tremenda. Ora che me la posso godere e mi diverto mi dispiace lasciarlo. Mi accorgerò da sola quando non sarò più in grado. Siamo un Paese strano per le donne, di tanto in tanto leggo: ma perché la Vanoni sta sul palco alla sua età? Imbecille, ci sto perché canto bene, non sono un baule, ho ancora un fisico, perché non ci devo stare? Invece gli uomini non li criticano. L’Italia è molto maschilista.

 

 

25 NOVEMBRE

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Non sei sola

 

Numerose le iniziative editoriali televisive, radiofoniche e digital della Rai in occasione della Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne

 

Da lunedì 24 a sabato 29 novembre sono tante le iniziative messe in campo dalla Rai per celebrare la Giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, a partire dalla campagna istituzionale della Direzione Comunicazione, con lo spot realizzato in Piazza del Popolo a Roma per tenere viva l’attenzione sul drammatico fenomeno dei femminicidi nel nostro Paese. Protagonisti i canali tv e radiofonici, la piattaforma RaiPlay e i social del Servizio Pubblico. Un’offerta trasversale alle diverse direzioni e reti, per la tv si parte lunedì 24 alle 23.30 con “Storie di sera”, si prosegue martedì 25 con “Agorà”, “Restart”, “Elisir”, “È sempre mezzogiorno”, “Ore 14”, “Amore criminale”, “Sopravvissute”, “Porta a Porta”, il film “C’è ancora domani” di e con Paola Cortellesi. Giovedì 27 appuntamento con “Geo”, sabato 29 con il film “Mia” con Edoardo Leo. Ampia copertura della giornata da parte di tutte le testate giornalistiche, Tg e Gr, dal 25 novembre disponibile su RaiPlay Sound il podcast di Rai Radio “Chi ha ucciso Candi Candi?”. Tra i tanti programmi radiofonici in campo “Radio anch’io”, “Radio 2 staiSerena”, “Tutta la città ne parla”, “Sabina Style”. Numerosi i contenuti disponibili su RaiPlay, dal grande cinema d’autore (“La vita possibile”, “Nome di donna”, “L’amore rubato”, “La ciociara”, “L’amore che vorrei”, “Corpo unico”), ai documentari, dal teatro alle serie tv.

 

ROCCO HUNT

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La musica per rimanere giovani

 

Al suo debutto nel ruolo di coach a “The Voice Senior”, il cantautore e rapper campano ha già conquistato l’affetto del pubblico del programma di Antonella Clerici. Parola d’ordine dell’artista? Spontaneità, nelle sue canzoni e sul palco. Il venerdì in prima serata su Rai 1

 

 

Come sta vivendo il debutto a “The Voice Senior”?

È una grande emozione e, al tempo stesso, una bella soddisfazione, anche perché è il mio esordio da coach. Certo, da quello che si è potuto vedere nelle prime puntate, sia io che il mio socio di poltrona questo ruolo non è che ce lo sentiamo tanto addosso (sorride): cerchiamo di non prenderci mai troppo sul serio. È comunque la prima volta nella mia carriera che ricopro un ruolo non solo musicale, diverso dall’esibirmi sul palcoscenico in Italia o nel mondo: è una nuova esperienza.

In tandem con Clementino, quali regole vi siete dati per la scelta dei componenti della vostra squadra?

Con le blind stiamo cercando di costruire una squadra di artisti che abbia le nostre stesse affinità musicali, anche per poter lavorare bene insieme e per dare una marcia in più al loro talento, che già c’è. Io e Clementino veniamo dal rap, dalla cultura hip hop; io un po’ di più dal mondo pop, e tutto questo si respira nel team che stiamo formando. La nostra intenzione è rendere giustizia agli artisti che partecipano a “The Voice Senior”, molti dei quali sono grandi musicisti, e alle loro storie. Al primo posto c’è il rispetto per le persone che partecipano: ogni storia che ci troviamo di fronte va trattata con i guanti. Come dice anche Antonella Clerici, prima della gara vengono le vicende umane, l’empatia, le emozioni che la gente prova ascoltando e vedendo queste seconde chances.

La parola che più lega tra loro le storie dei partecipanti è forse “passione”…

La passione è il motore che mette in moto un uomo, ed è ciò che ci stimola giorno per giorno, che non ci fa sentire mai arrivati, che ci porta a non mollare mai. La seconda opportunità per questi senior è dettata in primis proprio da una forte passione, dal desiderio di rimettersi in gioco, di crederci ancora, di non sentirsi arrivati, nonostante molti di loro siano anche professionisti eccellenti nei loro settori. La passione e la musica ci rendono giovani per sempre.

Giovane e già con una carriera importante alle spalle. È cambiato nel tempo il suo essere musicista?

Negli anni ho spaziato tra i generi ed è stato molto stimolante, sempre con tanta voglia di imparare. Ed è così anche questa volta a “The Voice Senior”, dove porto la mia esperienza ma osservo chi ne ha più di me: gli altri coach, i maestri dell’orchestra.

Quanto incide la contemporaneità nel suo modo di comporre?

È fondamentale per la scrittura, per tutto ciò che rappresenta il processo creativo. Vengo dal rap, che è un genere di denuncia, che parla delle cose che ci circondano. Dico sempre che noi siamo come spugne che assorbono e poi buttano sul foglio tutto quello che hanno dentro: per me la quotidianità, le storie personali, rimangono centrali.

Il pubblico le vuole bene: come convivono la vena più intima del compositore con quella più pop del palcoscenico?

Attraverso la spontaneità che c’è nella mia musica, nel mio modo di essere. L’importante è metterci sempre se stessi, ed è questo l’anello di congiunzione tra i mondi che ci rappresentano. Porto a chi mi ascolta una musica molto autobiografica e questo mi consente di mostrarmi per quello che sono.

Per salutarci le chiedo di dedicare una canzone ai suoi compagni di viaggio… Cominciamo con Clementino…

A Clementino dedico “Amici mai” di Antonello Venditti, ad Arisa “Avrai” di Claudio Baglioni, a Nek “Walking on the Moon” dei Police, a Loredana “Jammin’” di Bob Marley.

E ad Antonella Clerici?

Sicuramente “Sei bellissima” di Loredana Bertè.

AL CINEMA

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Breve storia d’amore

 

Nelle sale dal 27 novembre il film di Ludovica Rampoldi. Con Pilar Fogliati, Adriano Giannini, Andrea Carpenzano e con Valeria Golino

 

 

Quattro personaggi i cui destini collidono la sera in cui Lea (Pilar Fogliati) conosce Rocco (Adriano Giannini) in un bar e inizia con lui una relazione clandestina, consumata in una stanza d’albergo. Un tradimento come tanti, in apparenza, che prende una piega imprevista quando Lea comincia a infilarsi nella vita di Rocco, fino a coinvolgere i rispettivi compagni in una resa dei conti finale. Nelle sale arriva il 27 novembre “Breve storia d’amore” scritto e diretto da Ludovica Rampoldi, coproduzione Rai Cinema. Ho scritto la prima bozza di questa storia molto tempo fa. Avevo venticinque anni, e idee intransigenti e assolute sulle relazioni – racconta la regista – quella perentorietà che si può avere solo davanti a cose di cui non si sa niente. Quando ho ripescato quel vecchio soggetto, anni dopo, mi sono trovata davanti le stesse domande da cui ero partita. Cos’è una coppia? Come funziona, quali sono i suoi confini, cosa la tiene insieme e cosa la fa naufragare, cosa è lecito e cosa inaccettabile nell’unione tra due individui? Solo che di risposte non ne avevo più, non così perentorie almeno. Da qui l’idea di fare di questa storia il mio primo film da regista, cercando una strada personale al tema più logoro del mondo: lei, lui, l’altro – e l’altra”. Nel cast, insieme a Fogliati e Giannini, Andrea Carpenzano nel ruolo di Andrea e Valeria Golino in quello di Cecilia. “Avevo in mente un tono e un ritmo preciso – prosegue Rampoldi – il languore dei pomeriggi in un albergo in disarmo, i dialoghi dopo il sesso, le bugie guardandosi negli occhi, le risate di chi ride insieme per la prima volta, l’inquietudine di chi vede la propria vita partire alla deriva. Volevo che fosse un film serio ma non drammatico, essendo l’ironia lo strumento più affilato per andare in profondità. E volevo che avesse un passo di racconto capace di coinvolgere lo spettatore, depistandolo e interrogandolo come in un mistery o in un thriller psicologico. Far convivere questi tre elementi – il romance, l’ironia, il thriller – è stata la sfida maggiore”. Una commedia sull’amore e sulla vita di coppia, raccontata come una partita a scacchi. “Ho cercato di osservare questi quattro personaggi alla giusta distanza, come il protagonista guarda le sue formiche nella teca: creature che si affannano, ignare che il mondo non si esaurisce in quella scatola di plexiglass – conclude Ludovica Rampoldi – Li ho raccontati senza giudizio, rispecchiandomi in ognuno di loro, perchè tutti abbiamo tradito, siamo stati traditi, o siamo stati l’altra donna, l’altro uomo. E in questo storto triangolo ho voluto creare un legame tra le due donne in cui una salva l’altra, donandole un’altra prospettiva e gli strumenti per uscire dalla teca in cui ha ristretto il suo orizzonte. Alla fine, ho capito che l’unico atteggiamento possibile di fronte al mistero è accettarlo. L’esistenza dell’altro, la sua vita intima, desiderante e segreta, così come la propria. E che la vita di coppia è, come nella scena iniziale, una partita a scacchi in cui nessuna strategia può salvarti dal prendere un pugno in faccia, e sanguinare”.

 

 

 

FILM TV

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Carosello in Love

 

È il 1957. La televisione entra nelle case degli italiani, nei cortili gremiti, nei bar affollati e con il nuovo medium arriva “Carosello”, un programma di grande successo, che cambia per sempre l’immaginario del Paese. Nel mezzo la ricerca dell’amore di Laura e Maria, tra sogni e ambizioni. Ludovica Martino e Giacomo Giorgio, protagonisti del film tv, in prima visione domenica 30 novembre su Rai 1, raccontano i loro personaggi

 

 

Da quando la televisione è entrata nelle case degli italiani, molte cose sono cambiate: il modo di parlare, di scrivere, di guardare, di desiderare e anche di sognare. Laura è una ragazza affascinata (come tante nel 1957) dal potere della tv, che vince il concorso per segretarie in Rai contro la volontà del padre. Tutto pur di entrare in quel mondo straordinario. Carosello è il suo primo e unico amore. Laura ama tutto ciò che rappresenta quel programma: i prodotti che promuove e i modelli di felicità che propone. Determinata e affidabile, sogna una vita come quelle che si vedono sullo schermo, tra colori accesi e patinati. Per Mario, invece, il televisore è un apparecchio come un altro, un elettrodomestico. Creativo e sciupafemmine, lavora come regista per Carosello fin dal primo giorno di riprese ma il suo sogno è il cinema, lì è solo di passaggio. Laura considera Mario un intellettuale snob e farfallone e lui, a sua volta, pensa che Laura sia una tipa ingenua, una delle tante che si fa abbindolare da falsi miti e fantasie. All’inizio tra i due sono scintille – lei è sognatrice ma determinata, lui ironico e guascone – ma col passare degli anni, quelli iconici della storia di Carosello, le cose cambiano e l’ostilità si tramuta in stima, la stima in affetto, l’affetto in attrazione e l’attrazione, be’, dopo vent’anni e tanti sbagli da parte di entrambi, potrebbe finalmente diventare amore.


Un sogno chiamato tv

LAURA CECCARELLI (Ludovica Martino)

Laura, complessa e affascinante, muove i suoi passi in un’epoca in cui in molte donne è forte il desiderio di emancipazione. Sedotta dal fascino della tv, conquista tutti grazie al suo grande talento immaginativo che la renderà fondamentale nell’ideazione e realizzazione di un programma che diventerà storico: Carosello. Laura è creativa e pragmatica, non si accontenta di essere una segretaria in Rai, si muove con fiducia in un mondo che non regala solo illusioni, ma anche opportunità incredibili. Una donna in continua evoluzione; solo il tempo e l’esperienza l’aiuteranno a superare le delusioni e a comprendere il vero senso dell’esistenza.

 

MARIO DE ANGELIS (Giacomo Giorgio)

Mario è un promettente e disincantato regista che nasconde la sua complessità dietro un’apparente superficialità. Non si lascia sedurre dai miraggi offerti dalla televisione; il lavoro nella pubblicità non ha nulla a che vedere con il cinema vero. “Carosello” è per lui un compromesso che accetta come soluzione temporanea. Con il tempo si scoprirà vulnerabile, metterà la sua creatività al servizio della pubblicità e scoprirà, anche in amore, di non essere il cinico scettico che credeva di essere.

 

INTERVISTA

Come sognano Laura e Mario al tempo di Carosello?

MARTINO: A livello professionale il loro sogno è costruirsi una carriera, ognuno spinto dalle proprie motivazioni. E poi sognano l’amore: una storia intensa, coinvolgente, non priva di ostacoli.

GIORGIO: Dal punto di vista professionale, Mario desidera lavorare nel cinema, ma si ritrova a fare i conti con le odiatissime pubblicità. Laura, invece, sogna con tutte le sue forze di ottenere un ruolo importante in televisione, uno scrigno magico che all’epoca rappresenta una novità assoluta. Vuole emanciparsi dall’idea della donna confinata alla cura della casa, senza altre aspirazioni. Le loro sono due strade destinate inevitabilmente a incrociarsi.

Qual è, secondo voi, il giusto equilibrio tra talento e ambizione?

MARTINO: A volte l’ambizione può superare il talento: è la perseveranza a guidarti verso strade che non avresti mai pensato di poter percorrere. Il talento è importante, certo, ma ha bisogno di essere sostenuto da un bagaglio di conoscenze e tecniche a cui attingere nei momenti difficili.

GIORGIO: Aggiungerei un altro elemento: una generosissima dose di fortuna. Nella serie, ad esempio, alcuni incontri “sbagliati” rovinano la più grande ambizione del protagonista, quella di fare il grande cinema.

Nel nostro contemporaneo è sempre più difficile “distinguersi”. Come si fa a diventare “pezzi unici”?

MARTINO: Oggi è sempre più complicato. I social, che lavorano spesso troppo sull’apparenza e meno sulla sostanza, hanno generato molta confusione e una concorrenza incessante, non sempre accompagnata da risultati di qualità.

GIORGIO: Io, invece, preferisco vedere la questione da un’altra prospettiva. Credo che per raggiungere una vera unicità si debba essere il più autentici possibile. È già stato fatto quasi tutto, ma in un momento in cui tutto appare fake e costruito, come diceva Ludovica, tirare fuori la propria verità e autenticità — anche senza essere sempre super performanti — è un modo concreto per essere unici.

Cosa portereste nel vostro mondo artistico dell’universo “Carosello”?

MARTINO: Le idee, la creatività… c’era qualcosa di davvero affascinante. Alcune pubblicità erano sorprendentemente bizzarre (ride). Era incredibile, direi quasi avanguardistico, riuscire a creare qualcosa di unico e cinematografico all’interno di uno spot.

GIORGIO: Ripeto spesso questo concetto, perché mi sta molto a cuore: ai tempi di “Carosello”, quando la televisione compariva per la prima volta nelle case degli italiani, non esisteva il “classismo” che riscontriamo oggi. Fare televisione, pubblicità o una serie non era considerato un lavoro di serie B rispetto al cinema o al teatro. Ciò che conta, per me, non è il contenitore ma il contenuto, il modo in cui le cose vengono realizzate. Basti pensare che nei Caroselli recitavano Vittorio Gassman, Guttuso, Mina e molti altri grandissimi. Oggi sembra che un attore di serialità valga meno di uno del cinema: spero che presto si riesca a superare questo pregiudizio.

IL REGISTA, Jacopo Bonvicini, RACCONTA

«“Carosello” racconta una storia d’amore che, come tante volte accade nella vita, fatica a riconoscersi, a trovare la propria strada. Mario e Laura si conoscono da sempre, vivono a pochi metri di distanza l’uno dall’altra e condividono lo stesso ambiente di lavoro, ma nonostante tutto questo impiegano una vita intera nel tentativo di “trovarsi”. Seguendo le loro vite attraversiamo un pezzo di storia della televisione italiana e nello specifico di Carosello, un programma che più̀ di ogni altro ha incarnato l’evoluzione del costume e della società̀ del nostro paese tra gli anni 50ʼ e 70ʼ del ‘900. Ho cercato di approcciare questa storia rispettando la delicatezza e la grazia che attraversavano il copione. Nella costruzione dei personaggi e nella messa in scena abbiamo cercato un equilibrio tra il realismo che richiedeva il fatto di raccontare una storia calata nella realtà̀ di Carosello, specchio dinamico dei cambiamenti del paese, e il tono “fiabesco” della storia di amore tra i nostri due protagonisti. Il lavoro di costume, trucco e acconciatura è stato così impostato cercando di seguire filologicamente i passaggi di epoca e lo stile di ogni specifico decennio raccontato e allo stesso tempo tenendo sempre in mente la necessità di caratterizzare i nostri personaggi donandogli un carattere che potesse distinguerli e renderli “unici” nel panorama estetico delle varie epoche. Anche la scenografia e la fotografia sono state impostate cercando prima i toni caldi degli anni ʼ50 e ʼ60 per poi virare dolcemente verso le atmosfere più̀ fredde e vicine alla modernità̀ degli anni ʼ70, senza dimenticare mai di dare agli ambienti e ai personaggi un carattere peculiare e sospeso tra la realtà̀ e la favola. L’Italia è così diventata una Roma sognata che assomiglia ad un piccolo paese senza tempo e la televisione un contenitore in cui si muovono le speranze e i dolori di un popolo incarnato dai personaggi della storia, le cui vite sono allo stesso tempo così lontane e così simili alle nostre. Ho dunque provato a posare lo sguardo su Mario e Laura con dolcezza ed empatia, cercando di rimanergli vicino nei loro errori, gioie, entusiasmi e patimenti del cuore, così comuni e universali da avere la forza di attraversare le epoche e parlare a tutti.»

ALICE & ELLEN KESSLER

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Irraggiungibili

 

In Italia dal 1961, le gemelle più amate della tv hanno danzato e cantato in alcuni dei programmi di maggior successo della Rai, da “Giardino d’inverno” a “Studio Uno”, da “Canzonissima” a “La prova del nove” e “Al Paradise”, ottenendo una popolarità mai venuta meno. Il RadiocorriereTv le ricorda nell’intervista a Umberto Broccoli

 

 

Raccontare Alice ed Ellen Kessler, Professore, da dove si parte?

Si parte dalla parola professionalità, la cosa più giusta da fare in questa nostra storia. Queste due ragazze, con un’infanzia difficilissima, a un certo punto si sono inventate la loro professione e lo hanno fatto, è il caso di dirlo, con un rigore teutonico. Prima sono scappate dalla Germania Est, poi sono andate al Lido di Parigi, dove si sono messe nelle mani di Margaret Kelly per entrare nelle “Bluebell”. Per farcela non bisognava essere brave, ma fuori norma, e loro entrarono nelle “Bluebell”. Poi, nel 1961, arrivarono Guido Sacerdote e Antonello Falqui, perché a quei tempi la Rai, che mi onoro di servire, mandava i registi in giro per cercare nuovi talenti. Falqui le vede e loro, senza sapere una sola parola di italiano, debuttano in “Giardino d’inverno”. Questo dimostra la caparbietà, la professionalità, il rigore, l’attenzione al dettaglio e soprattutto la loro comune sorte di fare tutto insieme e bene. Il loro ritratto è vederle ballare: quando vedi in scena le Kessler, vedi una sola persona, come fosse una allo specchio. Indissolubilmente legate fin dall’inizio.

Cosa hanno rappresentato le Kessler, in quei lontani anni Sessanta, per il pubblico italiano?

Lo sdoganamento del sogno proibito, ma anche qualcosa di più, come la pacificazione con la Germania, l’età del benessere, la voglia spensierata di divertirsi, caratteristica degli anni del nostro boom economico, quando l’Italia correva con una lira che era la capofila delle monete europee. Hanno rappresentato esattamente quello che succedeva quando Giulio Cesare, duemila anni prima, conquista la Germania e arrivano in Italia le donne bionde, per cui le romane volevano essere bionde come le germaniche. Non potendolo essere, si diffonde la moda delle parrucche, fatte con i capelli e con i crini di cavallo, che si compravano al Foro Romano. C’è un cambio di gusto. Le Kessler hanno rappresentato realmente la realizzazione di un sogno sia per gli adolescenti di quegli anni, vedi me, sia per tutto quello che il pubblico italiano ha imparato a vedere: la bellezza, la bravura. Il varietà educava al bello, alla non improvvisazione, al sapere che queste signore passavano ore e ore in sala prove con Don Lurio e con il suo assistente, che si chiamava Gino Landi.

Che cosa le ha rese così iconiche agli occhi del pubblico?

Gli spettatori erano pietrificati di fronte alla loro bravura. Quando tu subisci, e dico subisci con la “S” maiuscola, il fascino di un movimento così armonico ripetuto su due piani solo apparentemente differenti ma che sono lo stesso piano, sei irrimediabilmente attratto. Di ballerini e ballerine ne abbiamo avuti a centinaia; con le Kessler percepivi la differenza dell’irraggiungibile.

Cosa ci insegna la grande televisione degli anni Sessanta-Settanta?

Di tendere sempre al punto più alto. Devi sapere talmente tanto fare bene le cose da fare apparire semplice una cosa difficilissima. Parlo anche della naturalezza con la quale Alice ed Ellen Kessler ballavano.

Chiuda un istante gli occhi, dove ama rivedere le gemelle Kessler?

Questa è una domanda tranello perché, essendo io figlio di uno degli autori di “Studio Uno” (Bruno Broccoli), nonché il nipote di certe idee di Broccoli e Verde, non posso non vederle in “Giardino d’inverno”, agghindate con quei turbanti fuori dal tempo, che cantano “Pardon messieurs… se noi parliamo male il vostro italien…”.

Dario Aita

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Ricerco l’essenziale

 

“Ogni storia ti costringe a porti domande diverse, alle quali non sempre si ha una risposta” racconta l’attore siciliano, new entry nell’affiatata famiglia di “Un Professore”, il giovedì in prima serata Rai 1. Accolto con calore nel cast della serie, racconta il mestiere dell’attore come un continuo incontro – con gli altri e con se stessi – e condivide il senso profondo che guida il suo percorso artistico

 

 

Un ritorno a scuola per lei, nell’anno della maturità. Più emozione o più incubo?
Direi più emozione. Non ho vissuto la mia maturità come un incubo, pur non essendo stato un alunno “modello”. Ho sempre avuto però il coraggio di approfondire ciò che mi interessava. Anche all’esame ho portato davanti alla commissione le mie passioni, e questo è stato possibile grazie a figure di riferimento importanti: insegnanti molto validi che hanno capito subito chi fossi e quali potenzialità avessi. Invece di ostacolarmi, le hanno sostenute, alimentate. Non tutti hanno questa fortuna.

Come si è sentito dall’altra parte della barricata?

Molto bene (ride). Ho sempre pensato che, se non avessi fatto l’attore, sarei diventato un insegnante, soprattutto nei primi anni dopo il liceo. Ripensandoci, credo che le tante “fasi” di desiderio verso altre professioni fossero tutte, in un certo senso, sublimazioni del lavoro artistico.

In che senso?

Ho sempre visto l’insegnante come un intrattenitore, un divulgatore che parla a un gruppo di persone cercando di affascinarle con il proprio carisma, di contagiare i ragazzi con la sua passione. Il confine tra chi fa spettacolo raccontando storie e chi insegna è molto labile: anche l’insegnante deve raccontare, deve avvincere.

Parliamo di Leone Rocci e del legame con il professor Balestra…

Fin dalla prima puntata sappiamo che Leone è un ex allievo di Dante e che da lui ha ereditato un metodo d’insegnamento non convenzionale. E, come spesso accade alle nuove generazioni, avrebbe voluto fare un passo avanti rispetto al suo maestro, magari evitando i suoi errori. La verità, però, è che tutti sbagliamo, anche nelle valutazioni. Leone non fa eccezione, è fallibile. Ma è anche un insegnante appassionato, capace di guardare i suoi studenti come individui e non come una massa indistinta, uno strano animale a tante teste. Ogni ragazzo è un mondo a sé, con potenzialità e personalità uniche. E Leone questo lo ha compreso bene…

E poi insegna fisica…

Una materia che non ho amato molto a scuola. Forse avevo delle lacune, o forse non ho avuto la fortuna di trovare qualcuno che me la facesse amare. Grazie a questo ruolo, però, ho imparato a vedere la fisica non solo come il regno della razionalità, ma anche come quello dell’immaginazione. Le grandi scoperte sono nate da persone che hanno immaginato l’esistenza di qualcosa anche in assenza di prove, ipotizzando l’impossibile e cercando di dimostrarlo. La fisica è davvero il luogo in cui il mistero incontra la realtà.

Questo professore porta un cognome che gli studenti dei licei classici non possono dimenticare… Rocci come il Vocabolario di greco…

Avevo entrambi i vocabolari: il GI di Montanari e il Rocci ereditato da mio padre. A volte li portavo entrambi a scuola, sperando di essere “salvato” (ride), ma niente: neanche così riuscivo a tradurre le versioni come si doveva.

New entry nella terza stagione di una serie di successo. Come è stato accolto in questa famiglia?

Questa domanda mi emoziona, perché ho ricevuto dal cast e dalla troupe un’accoglienza splendida, e non è affatto scontato, soprattutto in gruppi così consolidati, che spesso tendono a essere un po’ esclusivi. Ho sentito un grande calore dai ragazzi, ma in modo particolare da Alessandro Gassmann e Claudia Pandolfi: li ho adorati, come colleghi e come persone. Un po’ di paura c’era, perché il pubblico delle serie è molto affezionato agli equilibri delle prime stagioni, e l’arrivo di un nuovo personaggio può non essere visto di buon occhio. Per ora, però, sta andando bene, l’entusiasmo per Leone si percepisce.

L’importante è che non porti scompiglio tra Dante e Anita… quello potrebbe essere rischioso…

Chissà (ride).

Cosa si aspetta da una nuova sfida professionale?

Mi auguro sempre di cambiare grazie all’incontro con le persone con cui lavoro, personaggi o interpreti che siano. E poi c’è sempre un incontro speciale: quello con me stesso. È sempre diverso, si rinnova ogni volta, perché ogni storia ti costringe a porti nuove domande, alle quali non sempre esiste una risposta.

Parliamo di Franco Battiato… un gigante

Sto girando proprio in questo periodo. Non posso dire molto, se non che sto imparando una quantità enorme di cose, una montagna. E allo stesso tempo una montagna piccolissima nell’universo, ma difficilissima da scalare. Credo che abbia a che fare con l’indicibile. Per questo è difficile spiegare cosa ho scoperto o imparato, perché, al di là dei dettagli quotidiani, appartiene al mondo delle sensazioni, dell’invisibile.

Cantava Battiato in “La stagione dell’amore”:
“Ancora un altro entusiasmo ti farà pulsare il cuore,
Nuove possibilità per conoscersi,
E gli orizzonti perduti non si scordano mai…”

Cosa fa pulsare il tuo cuore nella vita? Cosa ti fa sentire vivo?

Due cose, soprattutto: la capacità di creare e la capacità di fare. Quando vedo qualcuno che crea qualcosa con le proprie forze, con la propria energia, con la propria immaginazione, l’atto creativo mi fa pulsare il cuore. E poi l’idea che, nella nostra solitudine e piccolezza, pur essendo minuscole particelle dell’infinito, siamo parte di un grande organismo che ci comprende e che ci fa appartenere, in qualche modo, al divino. Questo mi piace.

Sul suo profilo Instagram c’è molta eleganza, molto stile. E la vita, spesso, è una questione di stile. Ha trovato il suo?

Anche questo tema riguarda la ricerca. La “questione di stile”, per dirla alla Battiato, per me è sempre stata una lotta tra pensieri convenzionali e non convenzionali. Forse a un certo punto si supera tutto questo e si arriva all’essenziale. Io, però, sono ancora nella fase in cui voglio colpire, trovare la mia originalità, stupirmi. Posso dire che l’essenziale, per ora, è ancora lontano.

Qualcuno diceva: “l’essenziale è invisibile agli occhi”.

 

68° ZECCHINO D’ORO

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La musica può…

 

Sta per tornare l’appuntamento, imperdibile, dedicato alla musica per bambini, condotto, in diretta su Rai 1 dal 28 al 30 novembre, dalla coppia Carolina Benvenga e Lorenzo Baglioni, per la finale, come di consueto, il direttore artistico Carlo Conti

 

 

Torna l’appuntamento tradizionale e imperdibile con lo Zecchino d’Oro, giunto alla sua 68ª edizione. Il programma sarà trasmesso in diretta su Rai 1 con le prime due puntate venerdì 28 novembre, dalle 17.05 alle 18.40, e sabato 29 novembre, dalle 17.10 alle 18.40. La finale, che decreterà la canzone vincitrice tra le 14 in gara, andrà in onda domenica 30 novembre, dalle 17.40 alle 20.00, e sarà condotta, come da tradizione, dal Direttore Artistico Carlo Conti. Le semifinali del 28 e 29 novembre vedranno invece il ritorno della coppia formata da Carolina Benvenga e Lorenzo Baglioni, due amatissimi presentatori, attori, cantanti e volti del web, già protagonisti dello scorso anno. In ciascuna delle prime due puntate si ascolteranno sette brani, votati da una giuria di grandi – composta da ospiti e amici dell’Antoniano – e da una giuria di bambini, con l’aggiunta del voto del Piccolo Coro dell’Antoniano. Nelle semifinali verrà assegnato lo Zecchino d’Argento alla canzone più votata, mentre in finale il voto ripartirà da zero per l’assegnazione dello Zecchino d’Oro. Le 14 nuove canzoni sono firmate da 28 autori: non solo esperti di musica per l’infanzia, ma anche attori, insegnanti, scrittori, produttori e grandi artisti, tra cui Giuliano Sangiorgi (Negramaro), Stefano Accorsi, Andrea Agresti ed Enrico Nigiotti. A interpretarle, 20 piccoli cantanti provenienti da 10 regioni italiane (Calabria, Campania, Emilia-Romagna, Lombardia, Marche, Puglia, Sardegna, Sicilia, Toscana e Veneto), accompagnati dal Piccolo Coro dell’Antoniano, diretto da Margherita Gamberini. Anche quest’anno lo Zecchino d’Oro sostiene Operazione Pane, la campagna solidale dell’Antoniano, supportata da Rai per la Sostenibilità, per raccogliere fondi a favore delle 20 mense francescane in Italia e delle 5 attive nel mondo (1 in Siria, 3 in Ucraina e 1 in Romania). Dal 24 al 30 novembre sarà attivo il numero solidale 45588: con un semplice sms o una chiamata da rete fissa sarà possibile donare un pasto a chi è in difficoltà. L’edizione 2025 dello Zecchino d’Oro, intitolata “La musica può”, celebra ancora una volta il potere della musica: quella che diverte, che educa e che, grazie all’Antoniano, offre sostegno alle persone più fragili. Un patrimonio culturale che continua a unire generazioni e a diffondere valori di solidarietà e speranza.

 

I TITOLI DELLE 14 CANZONI IN GARA:

 

  1. “Boomer boom boom” (Testo di Maria Francesca Polli; Musica di Marco Iardella) cantata da Ana Estela, 9 anni, Nerviano (MI) con Gioele, 5 anni, Bascapè (PV)
  2. “Il bacio nel taschino” (Testo di Irene Menna, Carmine Spera; Musica di Carmine Spera) cantata da Zoe, 5 anni, Lonate Pozzolo (VA)
  3. “Tu puoi essere” (testo di Mario Gardini; Musica di Andrea Casamento) cantata da Lara, 10 anni, Piano di Sorrento (NA)
  4. “Uffa le tabelline” (Testo e musica di Alessandro Di Battista) cantata da Alyssa, 8 anni, Lucca
  5. “Ci pensa il vento” (testo di Francesco Marruncheddu, Lodovico Saccol; Musica di Lodovico Saccol) cantata da Emma, 9 anni, Monza
  6. “Il lupo Duccio” (Testo di Enrico Nigiotti; Musica di Enrico Nigiotti, Enrico Brun) cantata da Mario, 5 anni, Praia a Mare (CS)
  7. “Viva le api” (Testo di Rondine, Stefano Accorsi, Filippo Gentili; Musica di Rondine, Matteo Milita, Filippo Gentili) cantata da Mattia, 9 anni, Bologna
  8. “Portafortuna” (Testo di Flavio Careddu; Musica di Alessandro Visintainer) cantata da Gioele, 10 anni, San Giorgio di Piano (BO)
  9. “Disco” (Testo e musica di Andrea Agresti) cantata da Ambra, 5 anni, Capoterra (CA)
  10. “Raffa la giraffa” (Testo e musica di Giuliano Sangiorgi) cantata da Gaia, 7 anni, Zeccone (PV)
  11. “Perché perché perché” (Testo di Maurizio Festuccia; Musica di Francesco Stillitano) cantata da Victoria, 5 anni, Verona con Nicolò, 6 anni, Montecassiano (MC), e con Gionsi, 5 anni, Bologna
  12. “Toc toc” (Testo e musica di Alessio Zini, Sara Casali) cantata da Beppe, 10 anni, Malta con Sofia, 5 anni, Castellaneta (TA)
  13. “Le galline fanno surf” (Testo e musica di Alessio Savocchio) cantata da Joy, 7 anni, Battaglia Terme (PD) con Diletta, 8 anni, Villafranca Padovana (PD)
  14. “Canta la conta” (Testo di Gianfranco Grottoli, Andrea Vaschetti; Musica di Gianfranco Grottoli, Andrea Vaschetti, Andrea Di Gregorio, Giuliano Capello) cantata da Anna, 10 anni, Ribera (AG) con Atena, 5 anni, Soliera (MO)

 

MARIA LATELLA

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Una risata ci salverà

 

Venerdì 21 novembre alle 15.15 su Rai 3 torna “La Biblioteca dei sentimenti” un programma pensato per chi ama i libri, per chi li scrive e per chi li legge, per chi vuole ascoltare le storie che custodiscono. Il RadiocorriereTv incontra la conduttrice, pronta a salpare per un viaggio alla scoperta delle nostre emozioni più intime

 

Cosa hai pensato quando ti è stato proposto di condurre “La Biblioteca dei sentimenti”?

La prima cosa che ho pensato è che posso finalmente leggere per lavoro. Sono un’avida lettrice sin da quando ero bambina, i miei genitori mi regalarono il primo libro a tre anni e mezzo, era con le figure e poche righe scritte. Poi mi ricordo che i miei scelsero il primo libro vero, che mi hanno regalato dopo una specie di conciliabolo tra loro. Si chiedevano: “Sarà troppo presto per regalarle Pinocchio?”. Lo fecero, era un’edizione molto bella, la ricordo ancora perché l’ho tenuta per anni e anni. La copertina era in marocchino rosso con le lettere in oro, ero molto compiaciuta della meraviglia della carta.

Fu da subito un amore travolgente…

Leggo da sempre e leggo tutto, non vado a dormire senza leggere. In questo momento ho per le mani il saggio di Marc Lazar, politologo francese, “Pour l’amour du peuple (Per l’amore del popolo)“, sui populismi in Francia. Mi piace anche poter esplorare un territorio nuovo in tv: parlare di libri e di sentimenti è una cosa molto bella. Il tema è quello della lettura, capace di una fascinazione unica, che prende a tutte le età. Speriamo che “La Biblioteca dei sentimenti” porti qualcuno che non ha mai preso in mano un libro a farlo.

Parlare di libri e di emozioni in tv, da dove si parte?

Da un sentimento esplicitato dal racconto di un ospite, dall’intervista a uno scrittore, a uno scienziato, a un uomo d’affari. Ogni sentimento è legato alla storia raccontata e ogni storia è frutto di un lungo lavoro di scrittura che dura anche mesi. Siamo contenti di raccontare un libro e un’emozione attraverso l’esperienza dell’autore.

Maria giornalista e Maria scrittrice, come cambia, se cambia, il tuo vivere la parola?

Io, soprattutto adesso, la parola ce l’ho realmente perché sto facendo radio e televisione. Mi riesce complicato ritagliarmi il tempo per scrivere, lo faccio appena posso per Il Sole 24 Ore. L’ultimo mio libro è stato “Fatti privati e pubbliche tribù”, un po’ il racconto dell’Italia nei diversi anni della mia vita: da bambina a Sabaudia, da giornalista prima a Genova poi a Milano, poi a Roma, poi di nuovo a Milano. Una bellissima occasione per andare a ritrovare con la memoria tante cose che mi erano successe. Ora, con Rai Libri, stiamo lavorando a una raccolta di interviste tratta dal programma “Il potere delle idee” che mesi fa ho realizzato per Rai Cultura.

C’è un libro che in qualche modo ha cambiato la tua vita?

Più di uno. Avevo dodici anni quando la mia professoressa di lettere a Sabaudia, Gloria Paoletti, che ho amato tantissimo, mi regalò “Un albero cresce a Brooklyn” di Betty Smith, un libro bellissimo, ed è proprio da quel momento che è nato il mio amore per gli Stati Uniti, un amore che regge tuttora. Gli USA sono il luogo dove dai vent’anni in poi sono sempre andata. Continuo ad andarci anche ora che ho una figlia che vive e lavora lì da tanti anni. L’altro libro che consiglio tutte le volte che vado a parlare agli studenti, soprattutto a quelli che vogliono fare i giornalisti, è “Bel – Ami” di Guy de Maupassant, racconto del potere del giornalista che si fa strada con tutti i mezzi: cinico, spietato, geloso. Trovo che “Bel – Ami” sia un perfetto ritratto della narrazione del potere che non è poi cambiato dall’Ottocento di Parigi a oggi.

C’è invece un libro che ti racconta per quella che sei oggi?

Sono una che tende sempre a smitizzare, che ha piacere di farsi una risata anche di se stessa. Per fortuna nella mia famiglia hanno tutti il senso dell’ironia, mio marito ha più che altro il “sense of humour” essendo per metà britannico: tendiamo spesso a non prenderci sul serio. Di questi tempi credo che la cosa più salvifica sia farsi una risata, possibilmente con un minimo di pensiero dietro. Se mi chiedi un libro che in questo momento citerei in relazione a quello che è un po’ il mio stato d’animo, dico la raccolta delle narrazioni di Nora Ephron, la commediografa americana che ha creato dei film meravigliosi, ne cito solo uno “Harry ti presento Sally”. Ha scritto cose che ti tirano su il morale in una giornata di pioggia (sorride). Nel ‘68 si diceva “una risata vi seppellirà”, oggi si dovrebbe dire “una risata ci salverà”. Ed è anche questa la chiave con la quale vorrei raccontare i sentimenti. Ci sono dei sentimenti passionali che ti fanno perdere anche il lume della ragione, come l’amore e l’invidia. Sono sentimenti forti. Ma l’essere umano si salva se anche nei momenti più tremendi c’è qualcuno che riesce a farlo sorridere, o almeno a fargli vedere qualcosa in un orizzonte di ironia. Il prendersi in giro è l’unica cosa che differenzia gli umani dagli altri esseri. I cani e i gatti non si prendono in giro, l’essere umano ha questa facoltà.

Che cosa ti aspetti dai tuoi ospiti?

Quando facevo le interviste politiche le mie domande erano costruite per fare notizia, per trovare un titolo, qui parliamo di sentimenti e di libri, per questo amerei moltissimo che al termine di un incontro l’intervistato si fosse lasciato andare a dire qualcosa di non preparato di sé, e a casa fosse arrivata questa sensazione.

 

Alessandro Gassman

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Un caos meraviglioso

 

Da giovedì 20 novembre, dopo essere stata presentata con successo alla Festa del Cinema di Roma, torna su Rai 1 la terza stagione di “Un Professore”. Il RadiocorriereTv ha incontrato l’attore romano: «La filosofia non è una materia polverosa, ma uno strumento vivo per orientarsi nella complessità dell’esistenza»

 

 

Riapre la scuola de “Il Professore”: come suonerà stavolta la campanella per Dante?

Quest’anno la campanella suona in una casa più affollata del solito. Sono costretto a trasferirmi da mia madre, Virginia, insieme a mio figlio Simone. Questo riavvicinamento forzato, unito al delicato equilibrio ormai incrinato con Anita, rende il mio ritorno a scuola più complesso. Mi troverò a gestire non solo le sfide dei miei studenti, ma anche questioni personali irrisolte, come l’arrivo di Leone Rocci (interpretato da Dario Aita), un mio ex allievo ora collega, che riporta con sé il mistero legato ad Alba, una studentessa dal passato difficile. La mia vita, come sempre, resta un caos meraviglioso.

È l’anno della maturità per la classe: come affronterà questo tema il terzo capitolo della serie?

Per la 5ªB la Maturità non è soltanto un esame, ma un vero e proprio rito di passaggio. Il mio compito, come sempre, è usare la filosofia per aiutarli a dare un senso a questo cambiamento. Come ha anticipato Nicolas Maupas (Simone nella serie), per la prima volta i ragazzi cominciano a interrogarsi davvero sul proprio futuro. Io sarò accanto a loro mentre provano a capire chi vogliono diventare.

Cosa significa per il Professor Dante – e per l’uomo Alessandro – “accompagnare” qualcuno nella vita?

Per me accompagnare non significa indicare una strada già definita. Vuol dire esserci, ascoltare, offrire strumenti e non risposte, confidando che ognuno possa trovare il proprio percorso. Da attore, considero questo il valore più grande della serie.

Qual è il prezzo da pagare per essere autenticamente sé stessi?

Essere sé stessi significa esporsi, mostrare le proprie fragilità e, talvolta, andare controcorrente. Dante, stagione dopo stagione, è maturato e ha imparato a riconoscere i propri limiti. È diventato più fragile e, forse proprio per questo, più umano. Il prezzo più alto che rischiamo di pagare è rinunciare alla nostra identità per compiacere gli altri. Viviamo in un’epoca che semplifica tutto in “giusto o sbagliato”, “buono o cattivo”, ma l’essere umano è molto più complesso. Accettare questa complessità è il primo passo verso l’autenticità.

Quale massima filosofica può rappresentare al meglio questa nuova stagione?

Per questa stagione mi affiderei a Socrate: “So di non sapere”. È l’umiltà di chi, come me e come Dante, riconosce di non avere tutte le risposte, nonostante l’età o il ruolo. È lo stesso smarrimento che vivono i ragazzi davanti al futuro. È una dichiarazione di apertura al dubbio e alla ricerca continua: l’essenza stessa della filosofia e della vita.

Ogni fine puntata apre uno spazio di riflessione tra gli spettatori. Su quali temi speri si possa dialogare di più nella società?

Come ho detto alla Festa del Cinema di Roma, “la serie apre la discussione e il ragionamento su noi stessi”. Il fatto che, dopo ogni puntata, molte famiglie si ritrovino a parlarne insieme è la mia più grande soddisfazione. In una società dominata dal “muro contro muro”, riportare il dialogo tra generazioni è un atto quasi rivoluzionario. Spero si possa discutere soprattutto del rapporto tra generazioni, perché oggi il dialogo tra genitori e figli è più necessario che mai.

E poi…

Vorrei si affrontassero anche grandi questioni sociali: dai cambiamenti climatici ai temi internazionali, come la Palestina, con la profondità che meritano. Viviamo immersi nei conflitti, e la filosofia può aiutarci ad aprirci, ad accogliere la complessità del mondo. Vorrei inoltre che si parlasse dell’impossibilità di ridurre una persona a un’etichetta. La vita è fatta di sfumature: riconoscerle ci rende più comprensivi. La filosofia non è una materia polverosa, ma uno strumento vivo per orientarsi nella complessità dell’esistenza.