La farfalla impazzita

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L’urgenza di non dimenticare

«Era come cristallizzata, congelata in quel dolore profondo, in quel passato dal quale non riusciva a liberarsi» racconta Elena Sofia Ricci, protagonista de “La farfalla impazzita”, la vera storia di Giulia Spizzichino, ebrea romana, segnata dalle deportazioni e dalla strage delle Fosse Ardeatine, in cui vennero uccisi ben ventisei dei suoi familiari. Per tutta la sua vita, Giulia ha sbattuto incessantemente le sue ali, senza riuscire a trovare pace e un luogo dove posarsi. Liberamente tratto dall’omonimo libro di Giulia Spizzichino e Roberto Riccardi (Casa Editrice Giuntina), il Film Tv di Kiko Rosati sarà trasmesso in prima serata Rai 1 il 29 gennaio. La sua distribuzione internazionale è affidata a Rai Com

La “farfalla impazzita”: così i familiari e gli amici più intimi chiamavano Giulia Spizzichino, ebrea romana, segnata dalle deportazioni e dalla strage delle Fosse Ardeatine, in cui vennero uccisi ben ventisei dei suoi familiari. In tutta la sua vita, che si è conclusa il 13 dicembre del 2016 a 90 anni, Giulia è stata proprio come quella farfalla che sbatte incessantemente le ali, senza riuscire a trovare pace e un luogo dove posarsi. All’epoca della retata al Ghetto di Roma, il 16 ottobre 1943, Giulia che aveva solo diciassette anni, fu testimone degli arresti del nonno, degli zii e dei cugini. A quel tragico giorno, ne seguirono altri terribili, segnati delle persecuzioni e delle fughe con la sua famiglia, fino alla prima metà del ’44. Quando finalmente la guerra finì, fu impossibile per lei dimenticare e vivere una giovinezza spensierata fatta di balli, amiche, primi amori. Fu impossibile anche, più avanti negli anni, amare davvero un uomo fino in fondo, costruire con lui una famiglia. Mezzo secolo più tardi, i fantasmi di un passato mai dimenticato, torneranno a chiederle giustizia. È il 1994: Giulia Spizzichino, vede scorrere la foto della mamma, morta da poco, in un filmato in onda nel corso del programma Rai “Combat Film”. La madre, in quelle immagini di repertorio, stava riconoscendo le salme dei suoi parenti uccisi nell’eccidio delle Fosse Ardeatine del marzo ’44 attraverso i pezzetti di stoffa dei loro vestiti, tanto erano aggrovigliati e irriconoscibili i corpi di tutte le vittime. Giulia pochi giorni dopo si convince con difficoltà a presentarsi nello stesso studio televisivo, riaprendo una voragine del suo passato e ricordare tutto. Piange e dice che non può esserci perdono, ma che deve esserci giustizia. La contatta allora l’avvocato Restelli, rappresentante della Comunità ebraica romana: le autorità italiane stanno chiedendo l’estradizione dall’Argentina di Erich Priebke, il criminale nazista che aveva eseguito l’ordine di fucilazione alle Fosse Ardeatine. Restelli, nonostante l’iniziale reticenza di Giulia, la convince a partire con lui per Bariloche, la cittadina andina dove Priebke si è ricostruito una vita, nell’intento di mobilitare l’opinione pubblica in favore dell’estradizione. A Bariloche Giulia trova inaspettatamente, una donna con cui percepisce molte affinità e che le dà la forza che non pensava di avere: è Elena, una delle Madri di Plaza de Mayo, l’associazione che riunisce le madri dei desaparecidos. Grazie all’amicizia speciale che si instaura tra loro, Giulia trova il coraggio di reagire e si fa portavoce dell’istanza di giustizia, in un discorso pubblico a Buenos Aires che smuove gli animi: “Perché le vittime sono tutte uguali, come lo sono i carnefici”. È il maggio 1994: la missione riesce, ma è solo la prima tappa di un’altra lunga storia, quella del processo a Priebke che si svolgerà poi a Roma. Nonostante il dolore sopito per tanti anni, Giulia troverà qui la forza di testimoniare, riaprendo una ferita dolorosissima. E lo farà per una necessità: alimentare la Memoria, perché non si ripeta mai più l’orrore della Shoah, che le aveva portato via in un colpo solo, tre generazioni di uomini e donne della sua famiglia.

 

ELENA SOFIA RICCI

GIULIA SPIZZICHINO

Ebrea romana, era solo una ragazzina quando nel 1944 perse ventisei dei suoi parenti, rastrellati dai nazisti e portati a morire ad Auschwitz e alle Fosse Ardeatine. Cinquant’anni dopo, quando l’esecutore materiale di quella strage, Erich Priebke, viene ritrovato in Argentina e potrebbe essere processato, Giulia è una donna aspra e dura, resa pietra e ghiaccio dalla tragedia che non riesce a dimenticare. Vive con i morti – le rimprovera il figlio – e non si accorge dei vivi, di quei vivi che, come lui, le vogliono bene. Quel distacco traumatico e crudele dalle tante persone della sua famiglia – il nonno, gli zii e le zie, ma soprattutto il suo cuginetto Marco di soli cinque anni – l’hanno resa una donna fredda e distaccata, incapace di lasciarsi andare a un sentimento d’amore, anche con il figlio, il marito e la nipotina. La decisione di partecipare al risveglio dell’opinione pubblica per chiedere l’estradizione di Priebke dall’Argentina e quella poi di testimoniare al processo proprio di fronte a lui, riaprono in lei quelle ferite che, con l’armatura che si era costruita negli anni, teneva nascoste, ma che sono ancora aperte e dolorose. Ma solo così Giulia per non potendo dimenticare, riuscirà almeno a sentirsi più libera.

 

Come ha vissuto questa esperienza?

Questi sono film importanti, e quando mi è stato proposto ho tremato. Non è la prima volta che interpreto una donna realmente vissuta, e non è mai facile, ma nel caso di Giulia Spizzichino la responsabilità che ho avvertito era immensa. Ho studiato molto: ho letto il libro, recuperato tantissime sue interviste per comprendere non solo il suo modo di parlare, le pause, ma soprattutto l’enormità del suo dolore. Quello che più mi ha colpito di Giulia è stato il suo sguardo: non guardava mai in basso, raramente fissava l’interlocutore. Era come cristallizzata, congelata in quel dolore profondo, in quel passato dal quale non riusciva a liberarsi.

 

Cosa direbbe oggi Giulia Spizzichino a questa nostra umanità?

Credo che sarebbe molto arrabbiata. Stiamo assistendo al ritorno di dinamiche che somigliano spaventosamente a quelle di ottant’anni fa. Giulia cercava giustizia, non voleva che Priebke fosse condannato a pene esemplari o morisse in carcere, ma desiderava che fosse ritenuto colpevole, e questo è ciò che dovremmo volere tutti: giustizia. La strage delle Fosse Ardeatine ci ricorda che non furono uccisi solo ebrei, ma anche partigiani e persone comuni. L’esperienza di Giulia ci insegna è che il rispetto per l’altro – sia esso un popolo, una religione, o qualunque altra realtà – deve essere il fondamento della convivenza. Non si può sopraffare, invadere o calpestare nessuno. Se oggi ci dimentichiamo tutto questo, allora a cosa sono serviti tutti quei morti? È un orrore.

 

Qual è secondo lei il messaggio più potente di questa storia?

Nel film mi sono concessa una piccola licenza, ispirandomi a un pensiero del maestro Camilleri, che ho usato durante la scena della conferenza in Argentina. Questo potrebbe essere il sottotitolo del film: “Tutti i carnefici sono carnefici, tutte le vittime sono vittime, in ogni tempo e in ogni luogo.” Questa frase dovrebbe risuonare forte e chiara dentro ciascuno di noi, ogni giorno. Come ricorda anche Giulia nel film, gli uomini capaci di tali orrori non sono come le bestie: sono peggiori. Le bestie uccidono per paura, per fame. Gli uomini, invece, uccidono per gelosia, rivalità, potere, denaro. Ed è proprio questo che li rende colpevoli. E noi oggi siamo colpevoli: continuiamo a ripetere gli errori del passato.

 

Come ha vissuto Giulia da “farfalla impazzita”?

Raccontare quel congelamento emotivo che Giulia si era imposta per sopravvivere al dolore è stato estremamente difficile. La perdita di ventisei familiari, tra Auschwitz e le Fosse Ardeatine, l’aveva segnata profondamente. Era come bloccata, incapace di vivere pienamente il presente, di amare il marito, il figlio e le persone a lei vicine come avrebbe voluto. Anche godersi la vita, quella che le era stata risparmiata, le risultava impossibile. Giulia era una sopravvissuta, ma viveva con il senso di colpa per essere rimasta viva, e questo senso di colpa le ha impedito di vivere appieno.

 

Dopo il Giorno della Memoria…

Non basta un solo Giorno della Memoria, dovremmo arrivare a 335 Giorni della Memoria, così come dovremmo avere 365 giorni dedicati alla lotta contro la violenza sulle donne e tutte le discriminazioni. Non dobbiamo mai dimenticare il nostro passato, il nostro orribile passato. Non dobbiamo mai dimenticare che le donne devono essere rispettate e che, insieme, possono fare moltissimo. Nel film “La farfalla impazzita”, Giulia ci fa un grande regalo raccontando la sua esperienza in Argentina, dove si è unita alle madri dei desaparecidos. Le tragedie e le perdite si intrecciano: le storie di persecuzioni diverse viaggiano sullo stesso binario. Questo è un film importante, capace di parlare a tutti noi, soprattutto alle nostre coscienze.

 

MASSIMO WERTMÜLLER
UMBERTO

Marito e compagno di vita di Giulia. Ha un carattere molto diverso da lei, più bonario, aperto e solare. Pur non essendo ebreo ha vissuto la stessa tragedia di Giulia, ha sempre saputo starle vicino, rispettando il suo dolore e anche sopportando la sua corazza emotiva. Nel corso della storia, diventa una spalla importante per lei: la spinge ad affrontare questa nuova dolorosa avventura del processo e fa da contraltare all’atteggiamento del figlio, con il quale finisce anche per scontrarsi.

 

Una storia che viene dal passato, che svela però tutta la sua contemporaneità…

La pagina della Shoah rappresenta, a mio avviso, una delle più commoventi della storia umana, proprio perché è anche una delle più orribili. Certo, ci sono state altre tragedie immense, come quella di Francisco Pizarro, quella della schiavitù e, purtroppo, molte altre che testimoniano come l’essere umano sia, spesso, l’animale più pericoloso sulla Terra. E oggi questi orrori non solo ritornano, ma qualcuno arriva persino a provarne nostalgia. Stiamo vivendo un momento storico mondiale in cui la parola “memoria” sembra scritta sulle nostre coscienze con la lettera minuscola: la nostra memoria collettiva appare breve, insufficiente, fragile. Per questo, credo che sia necessario introdurre obbligatoriamente nelle scuole una nuova materia: la memoria. Tre ore alla settimana dedicate a ricordare, a riflettere, a capire.

 

Interessante…

Se penso, per esempio, a un personaggio storico come Gengis Khan, possiamo definirlo universalmente un uomo crudele, ma lo facciamo “sulla fiducia”, perché non esistevano cineprese che potessero documentare le sue atrocità. Nel caso della Seconda guerra mondiale e della Shoah, invece, abbiamo una mole di testimonianze dirette: dai filmati di John Ford a quelli dell’Istituto Luce. Non abbiamo alibi per non ricordare l’orrore di cui stiamo parlando. Per questo motivo ritengo che lo studio della memoria debba diventare obbligatorio. Altrimenti continueremo a vedere persone che scherzano con parole come guerra, che le banalizzano, magari giocando a fare gli eroi dietro una tastiera. E invece dobbiamo sapere bene cos’è una guerra. Un film come questo è, senza dubbio, urgente, necessario, importante, utile, prezioso.

 

Nel film interpreta il marito di Giulia Spizzichino. Quanto è stato complesso stare accanto alla sofferenza di questa donna?

Mi sono concentrato molto su questo aspetto, su come raccontare la figura di un marito che, pur non essendo ebreo, si è caricato del dolore della moglie per amore. Un uomo che ha saputo restare accanto a lei con discrezione, dolcezza e grazia, sostenendola nel silenzio mentre affrontava i fantasmi del passato. Umberto ha aiutato Giulia a combattere le sue battaglie, come quella per denunciare Priebke e affrontare il processo in tribunale. A differenza del figlio, che le chiedeva di fermarsi per non soffrire oltre, abbiamo immaginato un uomo capace di farsi motore della sua ricerca di giustizia. È un personaggio che vive nell’ombra, ma la sua forza e il suo amore sono stati essenziali per darle il coraggio di andare avanti.

 

Il regista Kiko Rosati racconta

«Approcciare un film come “La Farfalla Impazzita” non è cosa facile: si porta sullo schermo una storia importante, che parla della nostra Storia e si va quindi, oltre l’intrattenimento. Giulia Spizzichino racconta come l’orrore della guerra travolga spesso vittime innocenti, bambini, anziani, e questo racconto lo fa attraverso i suoi occhi, quelli di una ragazza di diciassette anni che vede rastrellare tutta la sua famiglia, tutte le persone a cui vuole bene, che non rivedrà più: un’immagine indelebile che vive nella memoria di Giulia ormai grande, madre e nonna. Questa storia trae poi la sua potenza anche dall’accostamento della storia di Giulia a quella di tante altre vittime, di ogni tempo e ogni luogo, non solo quelle ebree della Seconda Guerra Mondiale. Questo accade attraverso il confronto con il personaggio di Elena, una delle Abuelas di Plaza de Mayo, l’associazione delle donne che in Argentina lotta ancora oggi per scoprire la verità sui loro figli e nipoti desaparesidos, scomparsi, e chiedere giustizia. Giulia Spizzichino ascolta con gli occhi lucidi la storia di questa donna, che in fondo non è diversa dalla sua, e da lei prende la forza di continuare la sua battaglia. Le vittime sono vittime e i carnefici sono carnefici, ovunque e sempre. Questo è ciò che la storia di Giulia Spizzichino ha l’urgenza di portare sullo schermo. Raccontare questo dramma non è cosa facile, è una storia che ha avuto bisogno di tutto l’impegno possibile, impegno che ho visto anche e soprattutto, negli occhi di Elena Sofia Ricci quando entrava in scena e portava davanti la macchina da presa il personaggio di Giulia, con la sua sofferenza. Non nascondo che lavorare con Elena Sofia Ricci è stato per me un grande piacere e mi ha facilitato il compito di raccontare questa storia: Elena Sofia ha preso per mano il personaggio, l’ha fatto suo e l’ha accompagnato per tutto l’arco narrativo del film. Non da meno sono stati tutti gli altri attori che abbiamo scelto: tutti hanno dato il massimo, consapevoli che la storia che stavamo raccontando andava trattata con il massimo rispetto e la più grande dedizione. Un altro aspetto del lavoro fatto su questo film che mi piace sottolineare, è la cura e l’attenzione con cui sono stati ricostruiti gli anni Quaranta e gli anni Novanta. Grazie al lavoro della costumista Sara Fanelli e dello scenografo Massimiliano Sturiale, lo spettatore viene trasportato in un’ambientazione autentica e realistica, che contribuisce a immergerlo nella narrazione e ad agganciarlo emotivamente. In conclusione, “La Farfalla Impazzita” rappresenta un importante contributo alla memoria storica e alla riflessione sulla violenza e sul dolore causati dalla guerra. Grazie al contributo di tutti i miei collaboratori e alla bravura degli attori che ho diretto, il film riesce a trasmettere con forza l’urgenza di non dimenticare le atrocità del passato e di lottare anche oggi per la giustizia e la verità.»

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Itaca. Il ritorno

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Nelle sale da giovedì 30 gennaio il film diretto da Uberto Pasolini con Juliette Binoche, Ralph Fiennes, Charlie Plummer, Marwan Kenzari, Claudio Santamaria e Angela Molina

Un’Odissea dello spirito, senza viaggi, senza mostri, senza dei. Solo un uomo sfinito che torna a casa dopo anni di lontananza, una moglie tenace che lotta per mantenere la fede in un suo inatteso ritorno e il viaggio di un figlio verso l’età adulta, diviso tra l’amore per sua madre e il peso del mito di suo padre. Una famiglia separata dal tempo e dalla guerra, riunita dall’amore, dal senso di colpa e dalla violenza. Arriva nelle sale giovedì 30 gennaio “Itaca Il ritorno” di Uberto Pasolini, coprodotto da Rai Cinema e distribuito da 01.“The Return nasce dalla mia passione per l’epica di Omero e dallo straordinario fatto che, nonostante l’ubiquità dell’Odissea nella cultura occidentale e dei suoi temi universali e senza tempo, il cinema non ha mai reso giustizia alla storia del ritorno di questo soldato alla sua terra, a sua moglie e a suo figlio – dice afferma il regista – oggi l’opera di Omero ci costringe a confrontarci con la tragedia della guerra, di chi la combatte e di chi rimane indietro, in una maniera che appare incredibilmente e tristemente attuale. Trattandosi di una storia di ritorno e di redenzione dalla guerra, il mio interesse è sempre stato non tanto per l’elemento del fantastico delle peregrinazioni di Odisseo, quanto più per il ricongiungimento dei personaggi alla fine del viaggio. Quindi, pur conservando alcuni dei momenti più iconici dell’epopea di Omero, la nostra è un’Odissea della mente, senza viaggi, senza mostri, senza dei, il percorso di una famiglia che trova il modo di riunirsi contro gli ostacoli esterni ma, soprattutto, contro quelli del proprio cuore”. Il film si concentra sulla dimensione umana della storia: Odisseo, Penelope e Telemaco intraprendono un drammatico viaggio dell’anima mentre affrontano le conseguenze del conflitto. Nonostante l’ambientazione d’epoca, si tratta di una storia del nostro tempo, raccontata come un thriller teso, viscerale e commovente. La combinazione di questa rivisitazione di un soggetto classico, con la potenza di interpreti del calibro di Ralph Fiennes e Juliette Binoche (per la prima volta riuniti sullo schermo dopo Il paziente inglese) e l’elevata intelligenza emotiva e sensibilità del regista, conferiscono al film un respiro internazionale. “I miti sopravvivono perché sono storie avvincenti, credibili e incredibili allo stesso tempo – conclude il regista – i loro personaggi sono più grandi della vita ma anche, in sostanza, umani. In questo film, prendiamo un antico mito conosciuto in tutto il mondo, con cui molte persone hanno un legame affettivo (lo conoscono, lo amano, lo riconoscono), e guidiamo il pubblico alla scoperta della verità umana che si cela dietro quell’antica storia ereditata, trovando nelle figure mitiche esseri umani come noi”. Del cast fanno parte Fiennes Charlie Plummer, Marwan Kenzari, Claudio Santamaria e Angela Molina

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STEFANO DE MARTINO

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Sempre con i piedi per terra

Mentre nel preserale di Rai 1 fa ascolti record con “Affari tuoi”, da martedì 28 gennaio il conduttore partenopeo sarà per la settima volta alla guida di “Stasera tutto è possibile”, il popolare comedy show di prima serata di Rai 2. Protagonista di una stagione straordinaria, al RadiocorriereTv dichiara: «Vivo questo momento con tanta soddisfazione, ma anche con la consapevolezza che il vero successo è costruire ogni giorno un rapporto di fiducia e affetto con chi ci segue da casa»

Con “Affari tuoi” l’obiettivo dei 7 milioni di telespettatori è raggiunto. Come vive questo momento professionale e cosa prova di fronte a una risposta così affettuosa da parte del pubblico?

Sono grato e felice per questo risultato. “Affari tuoi” è un programma storico, e avere l’opportunità di condurlo è stato già di per sé un onore. Vivo questo momento con tanta soddisfazione, ma anche con la consapevolezza che il vero successo è costruire ogni giorno un rapporto di fiducia e affetto con chi ci segue da casa e che ogni sera sceglie di vedere “Affari Tuoi”. È il pubblico che dà senso al nostro lavoro, e ogni sorriso o messaggio positivo che arriva è per me il successo più grande.

 

Ritorna “Stasera tutto è possibile”, programma che le è molto familiare. Che stagione sarà e cosa la diverte di più di questo programma?

Mi sento carico ed entusiasta per questo ritorno di S.T.E.P. Ogni edizione porta con sé qualche novità, anche se il format rimane fedele a sé stesso. È un programma che amo perché è corale: ci si diverte insieme ad un cast di amici e agli ospiti che si mettono in gioco. Siamo un gruppo, e l’energia che si crea in studio è unica. Mi diverte molto la Stanza Inclinata, ormai un’icona del programma, perché ogni volta riesce a strappare risate sia a chi è sul palco sia a chi ci guarda da casa. È bello vedere come il pubblico continui a seguirci con affetto ed entusiasmo stagione dopo stagione.

 

Cosa le sta insegnando la palestra della Tv?

Che non ci si deve mai fermare o pensare di aver raggiunto il traguardo, perché il percorso è lungo e c’è sempre da imparare. La televisione è una palestra continua, soprattutto se fai un programma quotidiano: ogni puntata puoi aggiustare il tiro, affinare un dettaglio, ed è molto bello vedere come cresce la relazione con il pubblico.

 

Parola chiave della sua conduzione è empatia, con il pubblico e con gli ospiti… quanta Napoli e quanta “strada” ci sono nella sua Tv?

Empatia è una parola fondamentale per me, sia nei confronti del pubblico che degli ospiti o concorrenti.  Napoli in questo senso è stata la mia prima palestra dove imparare a stare tra le persone, a leggere gli sguardi, le emozioni, e a trovare sempre il canale giusto per connetterti con gli altri.

 

Che cosa significa per lei avere successo nella vita e nella professione?

Significa continuare a lavorare facendo un lavoro che ho sempre sognato, grato delle opportunità, e restare con i piedi per terra, concentrato su quello che sto facendo ora, provando a godermelo un po’.

 

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MARCO ROSSETTI

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Sempre con un grande sorriso

La gavetta, il sacrificio e il successo, l’amore per il mestiere dell’attore, per la montagna e la fedele cagnolina Nata. L’attore romano, protagonista di “Un passo dal cielo” e “Blackout” su Rai 1 si racconta al RadiocorriereTv: «Non sguazzo nell’essere al centro dell’attenzione, mi fa piacere che la popolarità vada di pari passo con la riuscita professionale. Sono nel periodo più fortunato della mia carriera e lo accolgo con gioia»

In Tv con due serie di grande successo… come vive questo momento?

Sono contento della risposta del pubblico per entrambe le serie. La fatica viene ricompensata alla grande, grazie sempre a tutti coloro che ci seguono (sorride).

Come è cambiato, nel tempo, il suo rapporto con il lavoro dell’attore?

È cambiato nella misura in cui negli ultimi anni ho avuto un po’ più di sì fortunati, ma mi approccio sempre con grande rispetto e disciplina. In questo lavoro, precario in generale, è un saliscendi continuo, sapere trarre lezione dalla sconfitta fa parte di una crescita anche umana.

… e con la popolarità?

Facendo serie tanto apprezzate dal pubblico è aumentata di conseguenza anche la popolarità. Non sguazzo nell’essere al centro dell’attenzione, mi fa piacere che la popolarità vada di pari passo con la riuscita professionale. Sono nel periodo più fortunato della mia carriera e lo accolgo con un grande sorriso (sorride).

Nathan in “Un passo dal cielo” e Marco Raimondi in “Blackout”, vero è che un personaggio non si giudica, ma che rapporto ha costruito con loro?

Li ho indossati con grande rispetto, senza mai giudicarli. Marco ha un carattere focoso, agitato, istintivo, è sempre su di giri in una serie che ha grande ritmo, Nathan è alla ricerca delle proprie origini, di verità nascoste, contro il padre che ha rincorso tutta la vita. Li amo moltissimo e in entrambi i casi ci si è rilassati poco. Sono entrambi personaggi in ascolto, leali, rispettosi nei confronti del prossimo. Se Marco è quello che se viene ferito ferisce, Nathan si ritrae nel guscio. È stato bello entrare, non senza fatica, nella loro tridimensionalità. In questi due anni per fortuna mi sono riposato poco.

Quello della montagna è un mondo che ritorna nelle due serie… come vive il rapporto con i monti e la natura?

Amo la montagna da sempre, da quando i miei genitori portavano me e i miei fratelli in Val di Fiemme, a una cinquantina di minuti dai luoghi in cui abbiamo girato “Blackout”, Fiera di Primiero, dall’altra parte delle Pale di San Martino. Ogni volta che vado in montagna mi resetto dalla vita caotica di Roma. Il lavoro è ugualmente frenetico, ma la montagna ti costringe a respirare più lentamente, per me è una manna dal cielo.

Che rapporto ha con le sue radici?

Sapere da dove vieni, chi è la tua famiglia, che infanzia e adolescenza hanno vissuto i tuoi nonni, i tuoi genitori, fa parte del nostro percorso, sono grato ai miei genitori per avermelo raccontato.

Cosa deve avere una storia perché scelga di farne parte?

Mi deve dare la possibilità di stupirmi, di non accomodarmi mai. Un personaggio deve smuovere qualcosa in me, portarmi a un’evoluzione anche attraverso sentimenti che già conosco: la rabbia, l’amore, l’amicizia. Nella reiterazione c’è la credibilità.

Che rapporto ha con il mistero, con la scoperta?

L’ignoto, ciò che non conosci, mi incute sempre un po’ di timore, mi spaventa. Quando mi si chiede quale personaggio del passato farei tornare in vita dico sempre Margherita Hack, che ho ammirato tantissimo per il suo rigore, per la sua capacità di affrontare temi complessi, di studiare fenomeni altri. Una grande studiosa dall’umanità straordinaria.

Chi è Marco Rossetti oggi?

Non più un ragazzo ma un uomo di 39 anni che ha avuto la possibilità di poter crescere, di imparare, di poter abbracciare il ragazzo e l’attore giovane che è stato. Sono una persona consapevole e che ha ancora molto da imparare.

Cosa la rende felice?

La felicità delle persone a cui voglio bene, l’energia dei bambini, l’istinto del mio cane, la mia Nata, nome che deriva da Fortunata.

Nulla a che vedere con il suo Nathan dunque…

Nata è arrivata prima di Nathan (sorride). Abbiamo un rapporto simbiotico, è sempre con me anche sul lavoro, per fortuna sino a ora mi è sempre stato consentito di portarla sul set. È una cagnolina che pur essendo molto obbediente ha bisogno di correre tanto, la montagna piace molto anche a lei, è anche il suo mondo.

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SkillZ, competenze per il futuro

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Le scelte migliori per affrontare le sfide della vita. Su RaiPlay la seconda stagione del programma condotto da Martina Socrate

Quali sono le competenze necessarie per le professioni del futuro? E quali sono le attività più innovative e in crescita e le migliori strategie per potersi distinguere? In esclusiva su RaiPlay, da venerdì 17 gennaio, la seconda stagione di “SkillZ”, produzione Rai Contenuti Digitali e Transmediali realizzata in collaborazione con il Fondo per la Repubblica Digitale. Martina Socrate, content creator da oltre un milione e seicentomila followers e conduttrice del programma, si rivolge a un pubblico giovane per raccontare il futuro del lavoro e le nuove competenze richieste nei settori che utilizzano anche l’Intelligenza Artificiale. Nelle dieci puntate va alla scoperta dei luoghi d’eccellenza dove l’AI (Artificial Intelligence) sta cambiando il modo di lavorare, aprendo nuovi orizzonti in diversi ambiti. Nel suo viaggio attraverso l’Italia da nord a sud, Martina Socrate incontra giovani professionisti che parlano di nuove competenze e di professioni più innovative e in crescita tra cui: Data Scientists, Robot Trainer, Prompt Engineer, GenAI Designer e GenAI Artist; ingegneri dell’automazione e manutentori di robotica, ingegneri “creativi”, esperti di machine learning e intelligenza artificiale, agronomi tech, medici specializzati in AI e professionisti dello spettacolo e della cultura pronti ad affrontare le sfide dell’innovazione. “Il mondo del lavoro e delle professioni sta vivendo una trasformazione senza precedenti con lo sviluppo dell’Intelligenza Artificiale – commenta Maurizio Imbriale, direttore Direzione Rai Contenuti Digitali e Transmediali – Diventa sempre più importante per i giovani comprendere le potenzialità di queste nuove tecnologie e cavalcare questa rivoluzione, che crea tante nuove opportunità e nuove sfide. Ed è per questo che la seconda edizione di “SkillZ – Competenze per il Futuro”, realizzato sempre in collaborazione con il Fondo per la Repubblica Digitale, l’abbiamo voluta dedicare proprio all’impatto presente e futuro dell’IA in tanti settori più o meno tradizionali.  Siamo sempre più convinti che conoscenza e competenze siano le chiavi per garantire una transizione inclusiva e sostenibile – conclude Imbriale – in cui l’Intelligenza Artificiale sia un alleato per migliorare produttività e creatività e non invece una minaccia. “Il futuro delle nuove generazioni dipende dalla capacità di comprendere in modo responsabile e approfondito la transizione digitale, nonché le opportunità e le sfide poste dall’Intelligenza Artificiale. È essenziale fornire loro strumenti e contenuti di qualità, pensati per coinvolgerli e accompagnarli nel cambiamento in atto. Per questo motivo il Fondo per la Repubblica Digitale conferma con entusiasmo, anche quest’anno, la collaborazione con Rai dando vita alla seconda edizione del programma originale “SkillZ”. Nel corso delle 10 puntate esploreremo l’impatto dell’AI sui lavori del futuro e le competenze indispensabili per affrontare un mondo in continua evoluzione. L’obiettivo è creare un dialogo costruttivo che coinvolga non solo i giovani, ma anche le loro famiglie, affinché l’AI sia davvero una risorsa favorevole per il futuro della nostra società”, afferma Giovanni Fosti, Presidente del Fondo per la Repubblica Digitale Impresa sociale. “SkillZ” è una produzione Rai Contenuti Digitali e Transmediali realizzata in collaborazione con il Fondo per la Repubblica Digitale.

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LINO GUANCIALE E MICHELE RIONDINO

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Nella tela del Conte

Un fuorilegge che evolve moralmente e un brigante che smaschera l’ipocrisia aristocratica con ironia. I due attori raccontano la loro esperienza ne “Il Conte di Montecristo”, il lunedì in prima serata su Rai 1

 

Ci può raccontare quale clima si è creato sul set diretto da Bille August?

MICHELE RIONDINO: Direi un clima particolarmente magico, e per questo è necessario ringraziare chi ha immaginato questo progetto: Rai, Palomar e il regista Bille August, che è riuscito nel suo intento di creare un ambiente in cui potesse nascere questa magia. Lavorare in costume permette all’attore di nascondersi dietro una maschera, e farlo con un abito storico crea la giusta distanza dal personaggio che si interpreta. Bille ha avuto la capacità di mantenere intatto l’ambiente in cui dovevamo agire, e lo ha fatto in modo innovativo. Questa esperienza mi ha insegnato un nuovo modo di lavorare, confrontandomi con colleghi di altre scuole. Abbiamo colto l’opportunità di osservarci e imparare l’uno dall’altro, e non c’è mai stato un momento di noia sul set.

Come si è divertito a costruire il suo personaggio?

LINO GUANCIALE: La parola chiave per il mio personaggio è maschera, travestimento. Vampa è un brigante, un criminale che appartiene alla marginalità malevola della società. Tuttavia, è proprio a lui che Edmond Dantès si rivolge per trovare lealtà. In un mondo in cui tutto va al contrario, i criminali finiscono per essere i veri custodi del codice morale. Anche Vampa, in un certo senso, fa ciò che fa il Conte di Montecristo: si traveste, si cala nei panni di un altro, ma in una versione più parodistica e ironica. Per me, è stata l’occasione di esplorare corde brillanti che non toccavo da tempo. Sono grato di averlo fatto sotto la guida di un regista come Bille August, che mi ha sorpreso per il suo amore autentico verso il lavoro degli attori, mai espresso in modo utilitaristico, ma con sobrietà ed eleganza. È stato un onore, un regalo enorme essere guidato da lui per costruire un personaggio che gioca a smascherare il mondo aristocratico che di solito deruba.

Amori, tradimento, vendetta… “Il Conte di Montecristo” è praticamente una storia di oggi. Cosa ne pensate?

MICHELE RIONDINO: È un romanzo incredibilmente contemporaneo, che affronta temi senza tempo. La contrapposizione tra vendetta e giustizia – dove comincia l’una e dove finisce l’altra – è un argomento universale. Nel romanzo, questo conflitto diventa un contenitore per sviluppare e ampliare riflessioni su tanti altri temi. Un elemento fondamentale del libro è il tempo narrativo: la vendetta evolve, trasformando la storia e i personaggi. Ci sono figure che, pur essendo negative, non meritano forse di essere colpite con tanta violenza. Questo rende il romanzo ancora più attuale, poiché riflette come certe vendette, nel corso della storia o nel presente, possano trasformarsi in ingiustizie per le generazioni future.

LINO GUANCIALE: Come diceva Michele, la mole del romanzo, che abbraccia un arco temporale di storia molto ampio, è costruita in modo da essere inevitabilmente – forse non intenzionalmente – scoraggiante. Vendicarsi in questo modo, dedicarsi così radicalmente a farla pagare a chi ti ha distrutto l’esistenza, finisce per diventare un progetto di vita, la vita stessa. E questo porta al rischio di creare attorno a sé, e dentro di sé, un deserto. In questo universo narrativo, come nella realtà, nessuno è pulito fino in fondo: il rischio di sporcarsi, anche per chi non era sporco, è enorme.

All’interno della rete di vendetta di Edmond Dantès quale funzione hanno i vostri personaggi?

MICHELE RIONDINO: Jacopo è senz’altro il braccio armato del Conte, colui attraverso il quale Edmond può commettere crimini. È un fuorilegge, abituato al reato, e per questo essenziale al piano di vendetta di Montecristo, che così può portare avanti la parte più cruda della sua macchinazione. Tuttavia, nel corso della storia, Jacopo subisce un’evoluzione: cerca un’emancipazione dal suo mondo, trovando una sorta di moralità. Questo cambiamento servirà a lui quando si separerà dal Conte, ma sarà utile anche a Edmond quando la vendetta rischierà di macchiargli definitivamente l’anima.

 

LINO GUANCIALE: Vampa ha soprattutto la funzione di smascherare l’ipocrisia del contesto aristocratico, fatto di lusso e potere, che è il bersaglio della vendetta del Conte. Attraverso il travestimento, che lui vive con grande ironia e piacere, questo brigante rivela le contraddizioni morali di quella realtà. Una scena emblematica è quando Vampa scopre la relazione tra due ragazze di casa Danglars, la figlia di Danglars e la pianista. Invece di creare scandalo, accetta questa scoperta, perché la considera un ulteriore elemento di vivacità nel grande finale catartico, quando tutti i nodi verranno al pettine. Inoltre, dal suo punto di vista, ognuno dovrebbe essere libero di amare chi vuole, a differenza dei personaggi bigotti, ipocriti e crudeli che popolano le alte sfere sociali.

Alla fine, tutti i nodi vengono al pettine. Qual è il “dubbio morale” che rimane?

MICHELE RIONDINO: Questo romanzo, almeno per me, lascia l’idea di un ritorno al punto di partenza. È una storia così aperta e complessa che invita a rientrarci più volte. Una cosa è certa: niente potrà mai essere più come prima.

LINO GUANCIALE: La storia del Conte mostra l’insensatezza di confondere la vendetta con la giustizia. E lascia un marchio profondo sulla disperazione che nasce in un mondo in cui non c’è giustizia possibile se non la vendetta. Quella di Edmond Dantès è una realtà istituzionalmente debole, figlia di una restaurazione che ha deluso le speranze rivoluzionarie. Essere orfani di una credibilità politica vera e profonda porta inevitabilmente alla vendetta come unica forma di giustizia. Il grande rammarico, uscendo da questo testo, è proprio questo: una verità che, purtroppo, resta sempre attuale.

I personaggi

Lino Guanciale | Vampa

Vampa è un eccentrico brigante romano che, tentando di derubare Edmond, finisce per essergli debitore. E, anche per questo, quando riceverà un messaggio del conte di Montecristo, lascerà Roma per raggiungerlo a Parigi e trasformarsi nel ricchissimo conte Spada. Scaltro ed esuberante, Vampa si diverte a interpretare il ruolo del ricco nobiluomo alla ricerca di una moglie perfetta, partecipando con gioia alla rovina dei Danglars.

Michele Riondino | Jacopo

Jacopo è un contrabbandiere italiano che, scampato dalle grinfie della polizia grazie a Edmond, lo aiuta a lasciare Marsiglia e ad approdare a Montecristo. In cambio, Edmond fa di lui il suo braccio destro, coinvolgendolo sempre più nella sua rete di vendetta. La sua incrollabile lealtà sarà più forte di ogni dubbio morale e Jacopo sarà la pericolosa e affascinante mano armata del conte di Montecristo.

 

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ORA O MAI PIÙ

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I brividi del palco

Otto protagonisti della musica italiana tornano dopo tanto tempo davanti al grande pubblico per esibirsi in una gara avvincente, sabato in prima serata Rai 1 con Marco Liorni. Vi presentiamo quattro concorrenti: Pierdavide Carone, Antonella Bucci, Loredana Errore, Matteo Amantia

 

PIERDAVIDE CARONE

Ha partecipato all’edizione 2009 di “Amici”, componendo, tra l’altro, la canzone “Per tutte le volte” che, vincitrice del Festival di Sanremo grazie all’esibizione di Valerio Scanu. Nel 2012 è tornato sul palco dell’Ariston con il brano “Nanì”, diretto dal maestro Lucio Dalla, in quella che è stata la sua ultima apparizione al Festival dopo quarant’anni. Solo dodici giorni dopo, Dalla è scomparso, lasciando un vuoto immenso nella musica italiana. Pierdavide ricorda quel periodo con queste parole: “Da quel momento ho perso di vista ciò che dovevo fare e ciò che poteva essere. Tra la morte di Lucio e il 2018 ho fatto per lo più scelte sbagliate, sia discografiche che artistiche, ma anche personali. Se potessi tornare indietro cercherei di non perdere così tanto tempo.”

Cosa significa per lei “Ora o mai più”?

È una splendida opportunità per tornare a esibirmi davanti a un pubblico più ampio e generalista, come quello televisivo. Negli ultimi anni mi sono dedicato molto al teatro, ai concerti con grandi orchestre, e ho frequentato le piazze, pubblicando anche dischi. Per questi spettacoli il pubblico deve già conoscerti, scegliere di venire ad ascoltarti, documentarsi. La televisione, invece, permette di incuriosire più persone. Sono felice di rimettermi in gioco e di affrontare nuove sfide con uno spirito diverso rispetto al passato. Ho iniziato con programmi come Amici e il Festival di Sanremo, che pur essendo musicali erano anche altamente competitivi, e li ho vissuti in modo molto diverso da oggi. Ora, a 36 anni, voglio capire come mi approccio a queste situazioni, condividendo la scena con artisti che considero anche amici. Cercherò di vivere tutto con maggiore leggerezza.

Musica è…

…tutta la mia vita. Sin da quando, a sei o sette anni, ho scoperto i Beatles e Renato Zero, ho capito che volevo fare il musicista. Vivere di musica è il mio sogno realizzato.

ANTONELLA BUCCI

Ha iniziato a cantare fin da piccola. A soli quattordici anni ha interpretato Jesus Christ Superstar e, dopo la partecipazione al Festival di Castrocaro, ha firmato un importante contratto discografico che l’ha portata a essere la voce guida del celebre brano Amarti è l’immenso per me di Eros Ramazzotti. “È stato uno dei momenti più emozionanti della mia vita: mi sono ritrovata in un turbinio psicologico, disorientata. Tutto sembra magico quando sei sotto i riflettori, ma poi il buio ti lascia spiazzata.”

È arrivato il momento di mettersi in gioco…

Questo è un momento di grande felicità per me, perché mediaticamente sono stata un po’ assente. È come tornare a casa, rivedendo persone che non vedevo da tempo. Ho accettato di partecipare perché al centro di tutto c’è la musica, il motore fondamentale della mia vita, che non ho mai abbandonato, anche se ho intrapreso percorsi diversi. Mi emoziona l’idea di un confronto più diretto con il pubblico italiano, anche se all’estero, in Ecuador e Bielorussia, ad esempio, ho sempre sentito un affetto straordinario.

Cosa chiede a se stessa?

Di affrontare questo viaggio con entusiasmo, leggerezza e l’energia che solo la musica sa dare.

 

LOREDANA ERRORE

“Non ho mai cancellato l’esperienza di Amici: è stato un periodo di montagne russe in cui tutto è arrivato troppo in fretta. Non avevo ancora la maturità necessaria per gestire quella situazione. Non l’ho vissuta benissimo, perché non riuscivo a metterla davvero a fuoco.” Il 4 settembre 2013, dopo un concerto in provincia di Agrigento, un grave incidente stradale ha cambiato la sua vita. Il 95% del suo corpo è rimasto paralizzato, ma grazie alla sua forza di volontà Loredana è riuscita a riprendere in mano la propria vita. Oggi, nonostante le difficoltà, ha deciso di rimettersi in gioco partecipando a Ora o mai più.

Bentornata, Loredana…

Per me questa è un’opportunità di enorme valore. Vuol dire tutto: aver creduto, sperato e continuato a lottare. È un vero miracolo poter tornare sul palco dopo un periodo così buio. Ringrazio di cuore chi mi ha dato questa possibilità: non vedo l’ora di cantare, divertirmi, incontrare il pubblico ed entrare nei cuori delle persone.

Come è riuscita a superare le difficoltà?

La musica ha illuminato la mia vita. È come un filo sottile tra cielo e terra, che lascia i pesi giù e ti porta in alto. Per me è sempre stata un mantello celeste, una forza che mi ha dato l’energia umana che oggi posso raccontare.

MATTEO AMANTIA

La storia degli Sugarfree è emblematica: in pochissimo tempo sono passati dai concerti nei locali al successo travolgente di Cleptomania. Matteo racconta: “Nessuno di noi si aspettava un successo così grande. Nel giro di pochi mesi non potevamo più camminare per strada senza essere fermati. Ogni radio suonava Cleptomania. Era un periodo magico, ma ho sentito il bisogno di staccare, perché mi sentivo svuotato artisticamente.”

E poi…

Ho imparato a non prendermi troppo sul serio. Un tempo ero eccessivamente concentrato su tutto, e questo mi faceva stare male. Con il tempo ho capito che bisogna vivere le cose come un gioco, e ho colto al volo questa meravigliosa opportunità di tornare davanti a un grande pubblico. Nonostante con gli Sugarfree non ci siamo mai fermati – abbiamo continuato a fare concerti – abbiamo prodotto meno perché scriviamo solo quando sentiamo l’ispirazione. Ora, con Giuseppe, il mio compagno di band, stiamo componendo molti nuovi brani che usciranno presto.

Pronto per la sfida televisiva?

Assolutamente sì. Non vedo l’ora di raccogliere di nuovo l’abbraccio del pubblico. È una sensazione unica, che mi era mancata. Sono grato ai nostri fan, che sono sempre stati calorosi e attivi, ma questa è un’esperienza completamente diversa, entusiasmante.

 

 

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Marisa Laurito e Ludovica Nasti

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Legami profondi

Sotto lo sguardo attento della regista milanese Tiziana Aristarco, la terza stagione di “Mina Settembre” ha tutte le carte in regola, ancora una volta, per conquistare il cuore del pubblico. Il Radiocorrieretv ha raccolto le voci di due protagoniste, che danno anima e volto a zia Rosa e la giovane Viola. La serie va in onda la domenica su Rai 1

 

MARISA LAURITO

Zia Rosa è l’anima della casa, la figura materna che sa come strappare un sorriso e risolvere un problema con una parola di conforto (o un piatto fumante). Ha costruito un legame speciale con Viola, ma l’equilibrio cambia quando Domenico torna da Barcellona. All’improvviso, Zia Rosa inizia a sentirsi di troppo, soprattutto perché un sogno ricorrente la tormenta: un misterioso ciuccio sembra volerle comunicare qualcosa. Convinta che quel ciuccio rappresenti Olga e che le stia chiedendo di farsi da parte per lasciare spazio ai neo-sposini, Zia Rosa si prepara a cedere il passo. Ma, con il tempo, si rende conto che il sogno le suggerisce tutt’altro: deve organizzare un matrimonio memorabile per Mina e Domenico, completo di tutti i crismi!

La sfida più importante della stagione…

…è quella di riuscire a mantenere la serie viva, interessante e, potremmo dire, sempre più attraente. Tutto parte, naturalmente, dalla sceneggiatura e dalla regia, che anche questa volta si sono rivelate straordinarie, capaci di dare risalto a storie intense e significative. Serena Rossi è stata bravissima, come tutto il cast e la troupe, che hanno lavorato con impegno e contribuito a creare un’atmosfera serena e collaborativa sul set.

Un racconto “napoletano” …

Ho davvero apprezzato lo sguardo registico di Tiziana Aristarco, una regista milanese chiamata a confrontarsi con una città così unica e complessa come Napoli. È stata capace di rappresentarla in modo autentico e straordinario, mettendone in luce sia la bellezza geografica e paesaggistica, sia la generosità e la vivacità della sua gente. Tiziana ha raccontato una Napoli positiva, vera, fatta di panorami mozzafiato, ma anche di calore umano e solidarietà. Capisco perché tanti registi scelgano questa città come location, ma posso dire con convinzione che pochi riescono a mostrarla bene come lei.

E a proposito di zia Rosa…

In questa stagione vedremo zia Rosa sempre alle prese con il suo irresistibile vizio di impicciarsi negli affari degli altri (ride), perché ama entrare nelle vite altrui e dispensare consigli – anche quando non richiesti! Ma ci sarà spazio anche per il suo lato più personale: la vedremo preoccuparsi un po’ di più della sua vita privata. Diciamo che è la zia che tutti vorrebbero avere, sempre pronta a regalare un sorriso, una parola di conforto e, ovviamente, qualche immancabile battuta.

 

LUDOVICA NASTI

Viola è una ragazza dal cuore tenero, nascosto dietro un carattere forte e impulsivo. Il suo passato non è stato facile: ha trascorso anni rimbalzando tra case-famiglia, affrontando la vita con rabbia e dolore. Ora, però, ha trovato quella serenità che sembrava impossibile. Grazie a Mina, che l’ha accolta in affido, ha finalmente la famiglia che ha sempre sognato: un padre amorevole, una madre premurosa e la travolgente Zia Rosa. Ma proprio quando tutto sembra perfetto, il passato torna a bussare. Dubbi e insicurezze legati all’abbandono alla nascita iniziano a riemergere, spingendola verso una decisione che potrebbe cambiare tutto: cercare la sua madre biologica.

Continua il viaggio in una serie di successo…

Il mio percorso in “Mina Settembre” è iniziato sul finire della seconda stagione, con l’arrivo di Viola, una giovane ragazza che, nonostante una corazza dura e una natura apparentemente impenetrabile, è riuscita subito a trovare un posto nel cuore di Mina. Viola è un personaggio forte, segnato da esperienze difficili che le hanno reso complicato costruire relazioni autentiche. Tuttavia, grazie all’incontro con questa straordinaria assistente sociale, comincia a cambiare. Pian piano si libera di qualche peso e inizia a mostrare la sua vera essenza. In questo terzo capitolo della serie il pubblico la vedrà trasformata, quasi rinata. Ora va bene a scuola, ha migliorato il suo comportamento e persino il suo look, segno di un’evoluzione profonda e consapevole.

 

E a proposito di nuovi legami…

Sono profondamente grata di aver preso parte a questo progetto, che è stato per me un’esperienza emozionante. Viola è cresciuta molto: sente sempre di più Mina come una madre, ma sviluppa anche un legame speciale con zia Rosa e con Domenico, il compagno fedele a cui riesce a confidare i suoi segreti più intimi. Viola comincia finalmente a sentire di aver trovato una casa e di far parte di una vera famiglia, compresa quella nuova che si sta formando. Per la prima volta riceve tutto l’amore che le è sempre mancato. Ovviamente non sarà sempre tutto rose e fiori: ci saranno alti e bassi, momenti di conflitto e dubbi. A un certo punto, Viola prenderà la difficile decisione di mettersi alla ricerca della sua madre biologica… vedremo come si svilupperà questa parte della storia.

Che emozioni le sta regalando questa avventura televisiva?

Questa esperienza mi sta donando tantissimo, sia a livello personale che professionale. Mi offre nuove opportunità di crescita in questo mestiere e mi permette di imparare sempre qualcosa di nuovo. Sul set di Mina Settembre ho osservato con entusiasmo il modo di lavorare di Serena Rossi e degli altri attori straordinari. Mi ispiro a loro, così come faccio ogni volta che ho l’occasione di confrontarmi con colleghi più esperti. Cerco di far tesoro di ogni momento, senza mai dimenticare di divertirmi.

Che effetto le ha fatto essere protagonista nella sua città?

Amo Napoli, sono follemente innamorata della mia città. Ne adoro i colori, l’energia della gente e tutto ciò che la rende unica. Quando vado a Posillipo e guardo la città dall’alto, resto incantata davanti a tanta bellezza: potrei rimanere lì per ore, completamente estasiata. Napoli è di tutti, non appartiene solo ai napoletani. È di chiunque riesca a sentirla dentro, ad amarla profondamente e a portarla sempre nel cuore, elevandola al posto che merita.

 

 

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Il Futuro e la Memoria

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Shoah, antisemitismo e Generazione Z. Di Ariela Piattelli, dal 22 gennaio in libreria e negli store digitali

Rai Libri presenta “Il futuro e la memoria. Shoah, antisemitismo e Generazione Z” di Ariela Piattelli. La forza dei figli della Generazione Z per custodire e proiettare nel futuro il ricordo della Shoah anche senza le voci dei sopravvissuti ai campi di sterminio. Tra i depositari delle testimonianze che giungono da una delle pagine più buie della storia ci sono Michela e Gabriel, nipoti di Shlomo Venezia, uno dei pochissimi sopravvissuti al Sonderkommando, c’è Tommaso, il cui nonno, il medico Adriano Ossicini, inventò il contagiosissimo “Morbo di K” per tenere lontano i nazifascisti dagli ebrei nascosti all’ospedale Fatebenefratelli di Roma, ci sono Dov, che con le sue pagine social ha dato voce alla bisnonna Llily Ebert sopravvissuta ad Auschwitz raggiungendo milioni di persone, e il quattordicenne Cristian, che ascoltate le parole della scrittrice Edith Bruck ha raccolto in un video in rete le testimonianze di alcuni reduci da lui incontrati personalmente. Giovani custodi creativi della memoria che hanno condiviso con l’autrice le proprie esperienze e le proprie emozioni, certi che l’impegno contro l’antisemitismo, ancor di più dopo i fatti drammatici del 7 ottobre 2023, sia un imperativo morale. Un libro reportage che attraverso interviste ad esperti indaga i possibili scenari del futuro della memoria, strettamente legati al rapido mutamento dei linguaggi e degli strumenti di conoscenza. La rete, i social e le nuove tecnologie sono i mezzi di una narrazione che riflette la contemporaneità. Il viaggio di Ariela Piattelli termina con le voci dei testimoni, che in una riflessione speculare con le parole dei giovani, disegnano il possibile futuro della memoria, spiegando la loro visione sul mondo della Generazione Z. Ariela Piattelli è una giornalista. È direttore responsabile di Shalom, quotidiano online e magazine edito dalla Comunità Ebraica di Roma. Ha collaborato con il Giornale, Corriere della Sera e La Stampa. Ha vissuto alcuni anni in Israele, e da oltre un decennio dirige Ebraica – Festival Internazionale di Cultura e il Pitigliani Kolno’a Festival – Ebraismo e Israele nel Cinema. Ha collaborato inoltre con istituzioni come promotrice e curatrice di iniziative dedicate alla cultura ebraica e israeliana.

 

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GIUSY BUSCEMI

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Un dono inatteso

Tra le interpreti più amate del piccolo schermo, l’attrice siciliana, protagonista di “Un Passo dal Cielo” il giovedì su Rai 1, si racconta al RadiocorriereTv: «L’affetto e l’attenzione del pubblico sono una coccola che mi fa capire come la direzione sia quella giusta». La grande popolarità di una donna innamorata della propria famiglia e del proprio lavoro, che mantiene i piedi saldamente a terra: «A diciannove anni non avrei mai pensato a questa carriera, è stata una grande sorpresa che si rinnova ogni giorno»

 

Un inizio d’anno importante. Il successo di “Leopardi”, l’ottimo avvio di stagione di “Un Passo dal Cielo”… come sta vivendo questo momento?

Un inizio d’anno pieno di emozioni, un gennaio molto intenso cominciato alla grande (sorride). Sono felice di questi progetti che mi hanno impegnata tanto. Questo momento, l’affetto e l’attenzione del pubblico, sono una coccola che mi fa capire come la direzione sia quella giusta.

Il pubblico sta conoscendo una Giusy matura, che interpreta ruoli anche molto diversi tra loro. Come sta cambiando il suo essere attrice e l’avvicinarsi a un personaggio?

Tutto va di pari passo con la conoscenza più profonda di me stessa come donna che cresce, fa esperienze, si lascia anche modificare dal tempo che passa. È come se a poco a poco uno scoprisse una sorta di passaggio facilitato per portare nei personaggi il proprio vissuto. A differenza di quanto accadeva nei primi anni di carriera, dopo dodici anni che faccio questo mestiere, tutto riesce a diventare un gioco, senza le paure di dover fare il compitino giusto. Si va oltre lo studio della parte. Gli ultimi personaggi che ho interpretato mi hanno dato ancora di più l’occasione di poterlo fare. Tutto questo mi ha aperto a mondi prima inesplorati.

Cosa le ha lasciato l’esperienza in “Leopardi”?

Una grandissima tridimensionalità del femminile. Il personaggio di Fanny mi ha lasciato la bellezza di come un progetto ben fatto possa essere al servizio della cultura, della conoscenza, delle scuole. Come l’arte, se ben usata, possa dare chiavi alternative di lettura ai consueti percorsi di studio. Questo attraverso la passione di Sergio Rubini che da 25 anni desiderava immergersi nel progetto di raccontare un poeta che si fa le stesse domande che ci facciamo tutti.

“Un Passo dal Cielo” e il personaggio di Manuela sembrano essere sempre più nelle sue corde, come sta vivendo questo viaggio?

Quello di Manuela è un viaggio edificante. Lei è una donna che ha certamente delle piccole lotte quotidiane, ma che è molto in sintonia con il luogo in cui vive, la montagna. È nel posto giusto, è cresciuta e in questa stagione è pronta a tendere la mano. Lo fa con il fratello, nei confronti di Nathan, che ha bisogno di riconciliarsi con la propria storia prima di potersi fidare di nuovo del prossimo. Mi piace il suo coraggio di tendere la mano anche laddove non sempre le persone sono pronte a fare la stessa cosa. Manuela sa esattamente quello che vuole.

In Giusy la stessa determinazione di Manuela?

Ogni giorno mi metto in discussione, mi pongo domande che mi mettono in crisi rispetto alle scelte lavorative, all’organizzazione familiare. Sono decisamente più insicura rispetto a quello che possa sembrare dall’esterno (sorride).

Cosa cerca di dare a un personaggio che interpreta?

Mi chiedo quale sia il suo bisogno. Ogni personaggio, in rapporto al momento in cui si trova, ha un motore che lo spinge, alimentato talvolta da un dolore altre da un desiderio. Nel prepararlo cerco di capire questo. Punto a lasciargli empatia, anche quando non ne approvo le scelte. Il ruolo dell’attore è proprio quello di mettersi nei panni del personaggio ascoltandolo.

Cosa porta con sé, della sua Sicilia e cosa le danno le montagne del Veneto?

Della Sicilia conservo il rapporto materico con la terra, tanto importante da spingermi ad aprire anche una azienda agricola nella mia Menfi. Porto questo insieme ai legami, alla famiglia e alle amicizie di sempre, che mi hanno formato. Le montagne venete mi trasmettono il mistero del creato, qualcosa di grande e al tempo stesso fragile. I cambiamenti climatici ce lo insegnano.

Chi è Giusy nella vita di tutti i giorni?

Come dicono i miei tre figli sono “scordona e sempre in ritardo”. Una che si dimentica le cose anche se le sono state dette poco prima e che va in affanno. Forse perché, come dice invece mio marito, penso ancora di vivere a Menfi, dove tutto è raggiungibile con cinque minuti di macchina. Vivendo a Roma non è così semplice e mi capita di mettermi a correre.

Cos’è per lei la popolarità e come la vive?

Sono una persona molto timida, me ne accorgo anche quando mi trovo tra la gente e qualcuno riconoscendomi mi osserva. Questo un po’ mi dispiace, può essere anche un limite. Mi lascio andare più facilmente quando conosco le persone. La mia vita quotidiana oltre il set è quella di tante altre donne, forse anche grazie all’educazione datami dai miei genitori. Pensando ai momenti belli del mio lavoro li vivo come un dono: ne gioisco sapendo che un giorno potrebbe anche andare via.

Da ragazza immaginava tutto questo?

A diciannove anni non avrei mai pensato a questa carriera, è stata una grande sorpresa e lo è ogni giorno. Sono sempre stata, e continuo a essere, una persona molto pragmatica. A volte temo di sognare cose che poi non siano realizzabili, cerco di non illudermi.

Cosa le strappa un sorriso?

Il tempo trascorso in famiglia, i bagni in vasca di tutti quanti, i bimbi che poi si mettono a girare per casa prima di finire sul lettone per asciugare i capelli. Li vedo lì e quasi non ci credo che quei mattacchioni siano i miei figli. E poi mia nonna, che la sera va a letto sempre molto presto, ma quando sono in Tv fa uno strappo alla regola e mi manda un messaggio a mezzanotte.

 

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