Sull’attenti! Si torna in Caserma

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SECONDA EDIZIONE

Da domenica 12 novembre, in prima serata su Rai 2, il docu-reality che accompagna i ragazzi della generazione Z verso la vita adulta. Tra le novità una nuova location e la selezione delle reclute che inizierà da subito

Dopo il successo della prima edizione, andata in onda nel 2021, torna “La Caserma, il docu-reality che accompagna la “Generazione Z”, ragazzi tra i 18 e i 23 anni, verso la vita adulta. In onda in prima serata su Rai 2 a partire da domenica 12 novembre, il programma si articola in 6 episodi. Alcuni di questi prevedono l’eliminazionedi uno o più partecipanti, fino ad arrivare all’agognata finale con la premiazione della squadra vincitrice e della recluta migliore.

I PROTAGONISTI

Rispetto alla scorsa edizione, il docu-reality si presenta ancora più competitivo perché il posto in caserma non è garantito e ancora più mirato alla vita di gruppo in un’epoca in cui i ragazzi sono sempre più isolati e con difficoltà relazionali. Lo scopo del programma sarà, infatti, la formazione di un gruppo solidale e unito. Ciascuno dei protagonisti dovrà sviluppare il “senso del fare” – sfruttando le capacità e superando le divergenze – per un unico obiettivo: fare squadra. Il “target” non cambia: i 24 ragazzi selezionati (14 ragazzi e 10 ragazze) sono persone “comuni”, ma con storie ben diverse. Messi insieme, rappresentano al meglio la loro generazione.

Tra questi ci saranno un’operaia, una studentessa e bagnina, un pizzaiolo, una commessa, un operatore sanitario. Quindi studenti universitari, un acrobata, una modella, un personal trainer e via dicendo. Si ritroveranno tutti senza cellulari, senza internet e lontani dal proprio nido familiare per affrontare un training ispirato alla disciplina militare.

IL FORTE DI VINADIO

Se la prima edizione si era svolta in Trentino, a Levico Terme, in una struttura ambientata ad hoc, la nuova stagione de “La Caserma” cambia location e si sposta nel Forte Albertino di Vinadio (CN), fortezza eretta per volere di Carlo Alberto di Savoia nel 1834. Un capolavoro militare, che è da considerarsi tra le opere più imponenti di tutto l’arco alpino: la fortificazione ha infatti una lunghezza di circa 1.200 metri, che si sviluppa dalla roccia del fortino fino al fiume Stura.

LA “MISSION” DEL DOCU-REALITY

La “mission” del docu-reality è quella di formare un gruppo solidale e coeso che sappia rispettare l’altro e le regole imposte attraverso valori di solidarietà e fratellanza, sfruttando sia le proprie capacità che quelle di una squadra. Il tutto attraverso gli insegnamenti degli istruttori, grandi professionisti del settore.

Il racconto de “La Caserma” segue parallelamente tale iter addestrativo e la storia personale dei ragazzi. Quindi ‘focus’ sul rapporto tra di loro e con gli istruttori, sulle loro fragilità ma anche sulla loro capacità di reazione. Molti i momenti toccanti, altri di tensione ma anche tanti divertenti.

GLI ISTRUTTORI

Il responsabile del corso è il Capo istruttore Renato Daretti, che sarà affiancato dall’altro capo istruttore Giovanni Rizzo. Entrambi hanno grande esperienza e professionalità, avendo partecipato a quasi tutte le missioni internazionali italiane degli ultimi 30 anni. A completare il team ci saranno anche l’istruttore Germano Capriotti e gli aiuto istruttori Debora Colucci, Silvio Davì e Leonardo Micera.

SUBITO UNA “SELEZIONE”

La grande novità di quest’anno è che la “selezione” inizierà sin da subito. Nella prima delle 6 puntate in programma, infatti, i 24 ragazzi convocati saranno sottoposti ad una serie di test. Solo in 18 tra questi saranno scelti per partecipare al corso d’addestramento vero e proprio e gli altri 6 dovranno tornare subito a casa. I ragazzi si trasferiranno quindi in ‘caserma’.

IL CORSO DI ADDESTRAMENTO

Da qui, le 18 reclute saranno divise in due gruppi: i Falchi e i Puma. Il corso di addestramento avrà la durata di 5 settimane e solo i più meritevoli arriveranno alla cerimonia finale, durante la quale gli istruttori premieranno la squadra migliore e la recluta migliore.

Falchi e Puma si sfideranno ogni settimana in 2 o 3 esercitazioni militari. Gli istruttori valuteranno le reclute anche singolarmente, sia dal punto di vista disciplinare che dal punto di vista fisico e dell’attitudine militare, ovvero su elementi come la capacità di lavorare in squadra e di resistenza allo stress. I ragazzi meno motivati, più indisciplinati o con il rendimento più deludente verranno ‘attenzionati’ e posti a rischio eliminazione.

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Rosa

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Veronica Pivetti

Una vita a ostacoli quella della grintosa protagonista del nuovo romanzo di Veronica Pivetti. Donna di cuore e di cervello, è giunta in Italia dal Perù ed è operatrice sociosanitaria in una RSA milanese. Cura gli anziani ospiti con dedizione, ma lo stipendio non basta per arrivare a fine mese e così, insieme alle colleghe Lupe, Teodora, Polina, Denisa e Maka, apre una cooperativa di assistenza per malati all’insaputa della coordinatrice, la temibile dottoressa Spinelli. Giornate e nottate di duro lavoro, il desiderio di affrancarsi dalle difficoltà economiche che l’accompagnano da sempre, la volontà di costruire un futuro sereno. La forza della protagonista è nella sua grande umanità, nell’ironia e nell’empatia che la contraddistinguono. Un racconto in commedia con un finale inatteso, che è al tempo stesso una storia di emancipazione e una favola dei giorni nostri

Tra fantasia e realtà, chi è Rosa?

Rosa è una donna che viene da lontano e che lavora in una RSA. È una OSS, cioè un’operatrice sociosanitaria, una figura che potremmo avere già incontrato nella nostra vita, o che, magari, chissà, prima o poi, incontreremo. È colei che si prende cura di nostra madre o di nostro padre, dei nostri nonni. Ho voluto dedicarle questo romanzo, che è anche un po’ una favola, e che racconta il nostro difficile rapporto con la vecchiaia.

Perché ha scelto di raccontare questa storia?

Perché quando la vita mi ha messo di fronte a una realtà difficile – bruscamente, come spesso capita – ho sentito il desiderio di raccontare come Rosa, e tante altre ‘Rosa’ che entrano con garbo e sensibilità nelle nostre esistenze, siano fondamentali per accompagnarci nel lungo viaggio della nostra vita, non sempre facile, non sempre vincente.

Nonostante la serietà dei temi affrontati il suo romanzo è intriso di ironia. Si può parlare di forza dell’ironia?

Certamente! L’ironia è il veicolo che mi permette di raccontare qualsiasi realtà, anche la più complessa e delicata. L’ironia è il mezzo che mi consente di affrontare col sorriso i peggiori tabù, che smaschera le paure, che toglie pesantezza a temi ritenuti intoccabili e che, invece, dicono di noi e della nostra vita familiare.

Un romanzo che vive soprattutto attorno a personaggi femminili, perché questa scelta?

Perché le donne sono in prima linea nella cura degli altri, sempre. Che siano madri, che siano mogli, o come in questo caso, operatrici sociosanitarie, sono quelle che sanno come dedicarsi al prossimo. Non che non ci siano anche uomini in questo settore, per carità, ma le donne sono la stragrande maggioranza.

Cosa significa “emanciparsi” in questo terzo millennio?

Per noi donne, purtroppo, significa ancora lottare per ottenere qualcosa che ci spetta di diritto. Ma i diritti sono troppo spesso una parola e poco un fatto. In questo romanzo, per Rosa e le sue amiche, ‘emancipazione’ è la parola chiave. E penso che anche noi, quando le accogliamo nelle nostre case, dovremmo emanciparci nel rapporto con loro. Sono persone che ci aiutano, che arrivano dove noi non siamo in grado di arrivare. La nostra casa è anche la loro.

A chi dedica questo libro?

A chi vuole conoscere meglio una realtà evidente, diffusissima, socialmente determinante, ma ancora guardata di sfuggita. A chi vuole ridere o sorridere su temi ‘scomodi’, a chi ha in casa una situazione difficile e vuole sentirsi meno solo.

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“Una storia d’amore” per Tenco e Dalida

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Grazia Di Michele e Giovanni Nuti hanno deciso di ridare voce ai due grandi artisti raccontando, attraverso le loro canzoni, lo speciale legame che li ha uniti

GRAZIA DI MICHELE

Come nasce questo omaggio a Luigi Tenco e Dalida?

Ho incontrato Giovanni Nuti per un suo disco che stava preparando. Eravamo molto in sintonia e ho colto questo progetto con grande entusiasmo. Abbiamo deciso, con molto rispetto, di raccontare questa storia d’amore attraverso le canzoni di due grandissimi artisti. Abbiamo realizzato un disco dove io interpreto le canzoni di Tenco e Giovanni di Dalida, che poi è diventato anche uno spettacolo teatrale dove i due artisti comunicano attraverso una sorta di lettera.

I grandi classici di Tenco e Dalida ripercorrono le loro vicende umane e artistiche, ma anche tanto mistero. Ne ha percepito l’essenza interpretando i loro successi?

Amo Tenco da sempre e credo che sia uno dei cantautori più particolari, proprio per questo modo molto semplice di scrivere le canzoni. Non cerca frasi ad effetto, non fa voli pindarici e non usa metafore. “Mi sono innamorato di te perché non avevo niente da fare”. Io trovo questa semplicità, di una profondità incredibile che appartiene a pochi artisti. Di Luigi è stato detto e scritto tanto e ancora aleggia un mistero. Si ha a che fare con un artista introverso, che ha raccontato la sua sensibilità attraverso le canzoni. Non abbiamo il diritto né la possibilità di entrare nel cuore e nella mente di una persona e quindi lasciamo che parlino le sue canzoni.

Oggi la musica è ancora un veicolo di evasione e di riflessione?

Credo di sì, per chi lo vuole. Purtroppo, oggi però manca molta poesia, quella che ha accompagnato tutta la nascita del cantautorato italiano e non solo. Poesia, ma anche impegno sociale che parte da Italo Calvino, dalle cronache, dal movimento del ’68 e anche prima con le canzoni per la pace. Da lì la musica è diventata uno strumento per far pensare, riflettere, per raccontare le esigenze delle persone. Oggi tutto questo non esiste più. Io non riesco a vedere un erede di Tenco, di Fabrizio De André o di Lucio Dalla e Pino Daniele. La nuova generazione è cambiata. Il mio modo di lavorare con i giovani è diverso: ho trascorso quattordici anni nel reality in cui lavoravo tanto per la tecnica, l’interpretazione, la personalità artistica ma anche per la cultura musicale. Oggi ho classi di allievi a cui non interessa sapere chi era Fabrizio De André e che non vogliono studiare la tecnica tanto c’è l’auto-tune, e per quanto riguarda la poesia, meglio una scrittura che è uguale a quella con la quale si comunica normalmente. Ma non è questa la cultura musicale che dovremmo trasferire alle nuove generazioni.

La sua carriera è lunga oltre quarantacinque anni e mostra una voglia continua di mettersi in gioco nei vari ambiti della musica. Cosa non ha ancora fatto e quali sono i suoi progetti futuri?

Con la musica sono riuscita a fare veramente tutto e ha permeato la mia vita e quella di mio figlio. Vivo da tanto tempo di musica e, se posso dire quello che mi manca oggi, è viaggiare, confrontarmi con altre realtà. Ma è diventato molto difficile farlo. Il periodo storico che viviamo è terribile, si ha paura persino di uscire dai propri confini e questo non lo avrei mai immaginato. Ho rinviato sempre tanti viaggi pensando che con il tempo sarei partita, ma non l’ho fatto e oggi vivo quello che accade nel mondo con grande malessere. Per il momento i viaggi restano nel cassetto.

GIOVANNI NUTI

Quali successi saranno contenuti nell’album?

Canto le canzoni di Dalida e Grazia quelle di Tenco. Io ho scelto i successi di Dalida che chiaramente sono successi che non sono stati scritti per lei e che ha cantato in tutto il mondo. “Come non andare via”, “Col tempo”, “Diciott’anni” e altri grandi successi.

La voce di Dalida è capace di attraversare un pentagramma. Lei come la definirebbe?

Mi è venuta la voglia di cantare perché sono sempre stato innamorato della sua voce da contralto, scura, molto maschile, indubbiamente e ovviamente riconoscibilissima e molto particolare.

Tra le sue collaborazioni ci sono quelle con Enrico Ruggeri, Roberto Vecchioni, Lucio Dalla, Mango, Enzo Avitabile, Milva, Dario Gay, Marco Ferradini e Simone Cristicchi. Come ha lavorato con Grazia Di Michele?

Ci siamo conosciuti perché io ho inciso duetti nel canzoniere dedicato ad Alda Merini e Grazia Di Michele ha duettato con me in un brano. In quella occasione, mentre andavo a conoscerla, mi è venuta l’idea di proporle un disco e uno spettacolo su Tenco e Dalida. Da lì abbiamo trovato tante affinità dal punto di vista musicale e umano.

Una parte significativa della sua carriera è stata dedicata alla collaborazione con la poetessa Alda Merini. Cosa conserva di questo rapporto?

Conservo tutto perché non mi ha mai lasciato. Sono quattordici anni che ha lasciato il corpo ma, a livello spirituale, la nostra collaborazione che lei definiva “matrimonio artistico”, non si è mai interrotta. Alcune persone mi chiedevano di poter salutare Alda Merini, anche un minuto di telefonata con lei cambiava la vita alle persone. Immaginate sedici anni trascorsi quotidianamente con lei… Diceva che un poeta per essere musicato bisogna viverlo nella quotidianità, ed è quello che ho fatto io. Ovviamente i suoi insegnamenti sono continui, non c’è un momento che non mi venga in mente quello che aveva detto Alda. Per me è come un mantello spirituale che mi protegge ogni giorno.

Per Alda Merini cos’era la musica?

Era una pianista e la musica era basilare. Diceva che è ancora più importante della poesia e la cosa straordinaria è che lei ha scritto appositamente per me. Ha scritto poesie affinché venissero musicate. Diciamo che era una cosa essenziale per lei, come l’acqua, come l’aria. La musica e la poesia andavano per lei a braccetto.

C’è una colonna sonora per la sua vita?

L’Albatros, perché Alda Merini mi chiedeva sempre di cantarla. Rappresentava il manicomio e ogni vota che la suonavo e la cantavo lei piangeva. Io le chiedevo perché cantare una canzone che poi le portava sofferenza, ma lei rispondeva che quando soffriva diventava grande come una montagna. Una cosa che poi durante la vita ho sperimentato anch’io. La sofferenza porta ad alzare le vibrazioni in maniera tale che poi paradossalmente non la senti neanche più.

Che significato ha, tornando a Tenco e Dalida, il lascito di questo lavoro?

Rispolverare questi brani è qualcosa di culturale soprattutto per i giovani. La grande melodia è un lascito morale e musicale. Due artisti che hanno dimostrato il loro impegno anticonvenzionale, molto all’avanguardia.

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Sono una boomer in continuo movimento

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ALESSIA MARCUZZI

Il martedì in prima serata su Rai 2 tra ricordi, musica, risate ed emozioni. La conduttrice di “Boomerissima” racconta i suoi anni Ottanta al RadiocorriereTv: i poster di Luis Miguel e Nick Kamen in cameretta, il primo concerto, le feste a casa di amici. «I giovani di oggi sono poliedrici, reattivi, ma forse noi sognavamo di più»

Come sta vivendo il ritorno di “Boomerissima”?

Benissimo, sono contenta e presa. È un programma che richiede molto tempo ed è complicato da realizzare: è un varietà ed è anche un game, ci sono lo scontro generazionale, i momenti comici, le performance di Luca Tommassini. Al mattino sono in sala prove per il ballo, nel pomeriggio in redazione, di sera ancora prove. È impegnativo, una full immersion di qualche mese. “Boomerissima” intensissima…

“Boomerissima” è diventato in poco tempo un appuntamento atteso da boomer, millennial e non solo… cosa rende il format così attrattivo?

L’identificazione. Il fatto che chi guarda il programma si ritrova nella propria generazione. Dividiamo l’età in un modo un po’ nostro (sorride). Dai quarant’anni in su si è già boomer, anche perché nella realtà i ragazzi di vent’anni vedono un quarantenne già più grande di loro. È un programma che sblocca ricordi ed emozioni.

Come si spiega la grande nostalgia per gli anni Ottanta e Novanta?

Avevano leggerezza e voglia di puro divertimento, senza angosce o paranoie. I ragazzi di oggi sognano forse di meno di quanto facessimo noi, che eravamo alla scoperta di tutto. C’è il telefonino, e vedete che lo chiamo “telefonino”, proprio da boomer, e crea dipendenza. I ventenni di oggi hanno già tutto.

C’è qualcosa che “invidia” loro?

L’intelligenza spiccata, l’acutezza, la prontezza di riflessi. Sono poliedrici, molto reattivi. E poi il fatto che possano fare davvero tutto quello che vogliono nella misura in cui l’età lo consenta. Hanno accesso più facilmente a un numero maggiore di situazioni rispetto a quello che accadeva a noi, per loro questo è un grande plus.

Tra i suoi ospiti è più forte la competizione o la voglia di lasciarsi andare ed emozionarsi?

La competizione…

… se l’aspettava?

No, però ho capito che se anch’io avessi dovuto partecipare a un programma come “Boomerissima” forse sarebbe prevalsa questa. Scatta in maniera forte, succede anche tra noi, in redazione, quando proviamo i giochi (sorride).

In che cosa si sente boomer e in che cosa millennial?

Boomer sempre. Sul telefonino scrivo utilizzando un solo dito, sono amarcord, parlo sempre dei miei tempi… mi sento millennial nella voglia di fare sempre qualcosa di nuovo. La mia testa è sempre in movimento, a volte mi viene detto che lo è anche troppo.

Il pubblico della Rai l’ha accolta con affetto, cosa significa questo per lei?

È stato molto importante. Avevo deciso di prendermi un po’ di pausa, di non tornare subito in Tv, e così all’inizio ho avuto un po’ di timore. Sono arrivata con un progetto scritto da me, avevo paura che non piacesse. Il pubblico invece mi ha accolta a braccia aperte, è stato un po’ tornare in una grande famiglia, anche perché le mie prime esperienze sono state qui. Sono grata alla Rai anche per rispettare la mia creatività, accolta con grande amore.

Facciamo un passo indietro nel tempo, qual è il brano del cuore di Alessia teen-ager?

“Enjoy the silence” dei Depeche Mode, è un brano che mi riporta al mio primo concerto, al palazzetto dello sport di Roma. Di brani a cui tengo tanto ce ne sono anche altri.

Il film che più la fece emozionare da ragazza?

I primi amori sono legati a “Il tempo delle mele”. Il ballo tra Vic e Mathieu fece andare fuori di testa tutte le ragazze. Successivamente venni rapita da “Blade Runner”, mi piaceva perché era all’avanguardia, è un film che ha rappresentato la rottura.

Il telefilm di cui non perdeva una puntata?

Le “Charlie’s Angels”. Volevo diventare come loro, un po’ investigatrici private, un po’ poliziotte…

Negli Ottanta le camerette dei ragazzi erano invase da poster…

Nella mia c’erano quelli di Luis Miguel e di Nick Kamen, ma avevo anche una passione per Simon Le Bon, che potrei avere ancora…

Chi avrebbe voluto intervistare dei suoi beniamini di allora?

Molti li ho incontrati e intervistati al “Festivalbar”. Dei miei miti non sono riuscita a incontrare George Michael, Whitney Houston, Michael Jackson. Penso che quella a George Micol sarebbe stata l’intervista della vita.

Preferiva la discoteca o le feste a casa da amici?

Sono sempre stata poco mondana, per di più i miei genitori erano abbastanza severi e non potevo fare tutto ciò che volevo. Le feste erano quelle a casa di amici, i vestiti di taffetà e tulle… ed erano anche le occasioni per conoscersi, per incontrarsi.

Abbiamo parlato del passato, come si approccia al futuro?

Con una priorità, i miei figli. Sono molto presente nelle loro vite, si devono divertire, ma avendo sempre un po’ di moderazione.

Loro cosa le insegnano?

Che ogni tanto devo un po’ mollare, mi dicono “come ce l’hai fatta tu, ce la facciamo anche noi” (sorride).

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Lubo

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Scritto e diretto da Giorgio Diritti, arriva nelle sale dal 9 novembre, con Franz Rogowski, Christophe Sermet, Valentina Bellè, Noémi Besedes, Cecilia Steiner e Joel Basman. Il film è liberamente tratto dal romanzo “Il seminatore” di Mario Cavatore (Einaudi)

“Gli zingari sono sempre stati un problema”, con queste parole ha inizio il romanzo “Il Seminatore” di Mario Cavatore, da cui prende liberamente riferimento il progetto di “Lubo”, scritto e diretto da Giorgio Diritti, al cinema dal 9 novembre. Lubo è un nomade, un artista di strada che nel 1939 viene chiamato nell’esercito elvetico a difendere i confini nazionali dal rischio di un’invasione tedesca. Poco tempo dopo scopre che sua moglie è morta nel tentativo di impedire ai gendarmi di prendere i loro tre figli piccoli, strappati alla famiglia in quanto Jenisch, come da programma di rieducazione nazionale per i bambini di strada (Hilfswerk für die Kinder der Landstrasse). Lubo sa che non avrà più pace fino a quando non avrà ritrovato i suoi figli e ottenuto giustizia per la sua storia e per quella di tutti i diversi come lui. «Lo scontro etnico, la paura del diverso, sono ancora oggi al centro di episodi della cronaca di tutti giorni ed è evidente quanto le differenze razziali o religiose costituiscano elemento di scontro e rappresentino la più forte minaccia alla stabilità delle relazioni tra le persone e i popoli – afferma il regista – La lettura del romanzo mi ha svelato una vicenda storica poco conosciuta di persecuzione nei confronti di una minoranza nomade, gli Jenisch, a cui vennero sottratti i figli al fine di “rieducarli” in un periodo storico compreso tra gli anni ‘30 e gli anni ‘70. Le stime sulle ricerche parlano di circa 2000 bambini. Ciò mi è apparso inquietante e particolarmente stridente per un Paese democratico e civile come la Confederazione Elvetica, sovente citata come ‘esempio virtuoso’ nel rapporto tra i cittadini e le istituzioni. Mi sono chiesto cosa avrei fatto, come avrei agito subendo una violenza così grande. Avrei reagito contro lo Stato con violenza. Lubo, a cui ‘rapiscono’ i bambini e uccidono la moglie è un uomo solo che improvvisamente si trova in guerra con il mondo, non accetta e lotta contro questa folle discriminazione, vuole ritrovare i suoi figli e cerca nel volto delle varie donne che incontra il volto di sua moglie. Vuole ricostruire un futuro possibile esprimendo anche il suo desiderio di amare, di ritrovare e credere comunque nell’amore». Nel cast del film Franz Rogowski (Lubo), Christophe Sermet (Motti), Valentina Bellè (Margherita), Noémi Besedes (Elsa), Cecilia Steiner (Klara) e Joel Basman (Bruno Reiter). «Il percorso del protagonista, tra i vari Cantoni della Svizzera e dell’Italia, si dipana in un tempo storico di venti anni in cui si evolvono episodi carichi di forte drammaticità, suspense, passione, coraggio – prosegue Diritti – Nello svolgersi degli eventi emerge quanto principi folli e leggi discriminatorie generino un male che si espande come una macchia d’olio nel tempo, penetrando nelle vite degli uomini, modificandone i percorsi, i valori, generando dolore, rabbia, violenza, ambiguità… ma anche un amore per la vita e per i propri figli che vuole sopravvivere a tutto e riportare giustizia».

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La musica, la mia necessità

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GAUDIANO

L’edizione 2023 di “Tale e Quale Show” ha il suo vincitore, il cantautore pugliese acclamato da giuria e pubblico. Il RadiocorriereTv lo ha intervistato a poche ore dalla proclamazione

Si sono spenti i riflettori sulla finale di “Tale e Quale Show 2023”, come sta e cosa prova?

Questa vittoria è arrivata in fondo a un lungo percorso, anche faticoso: le prove con i coach di recitazione e di canto, quelle con il trucco che durano tantissime ore. È stata una bella maratona, mi sento felice perché ho avuto la resistenza necessaria per arrivare lucido allo sprint finale. Credo di avere portato l’asticella della mia comfort zone molto più in alto rispetto al punto di partenza.

Che cosa ha rappresentato il programma nel suo percorso professionale?

Per la prima volta i miei due mondi, quello della canzone d’autore e quello del teatro, si sono incontrati nell’interpretazione dei vari personaggi. Mi sono dovuto calare non solo nella loro attorialità, nella loro estetica, ma anche nei mondi che hanno permesso loro di donare al pubblico grandi capolavori.

Cosa significa entrare in un altro artista?

È un esercizio difficile, perché parti da una tua identità, dalla tua realtà. È stato bello interpretare artisti che stimo tantissimo e trovarmi a mio agio nei loro mondi.

Uno sguardo ad alcuni dei suoi personaggi… partiamo da Giuliano Sangiorgi e da “Meraviglioso”…

Giuliano è da sempre il mio faro nella notte, punto di riferimento. Ho sempre ascoltato i Negramaro, consumando i loro dischi. Li stimo a livello musicale e per quello che rappresentano per la musica italiana. Portando in scena Sangiorgi ho avvertito una forte responsabilità. Tra l’altro, “Meraviglioso” è un successo di un altro pugliese DOC, Mimmo Modugno…

Altro suo conterraneo, altra ovazione dello studio: Al Bano con “Nel sole”…

Non mi aspettavo che la mia esibizione avesse tutto questo successo. È stato uno scoglio molto duro, il reparto del trucco ha lavorato benissimo e così ho potuto calarmi più facilmente nei suoi panni. Le nostre età sono distanti, non era scontato fare centro. Per me è stata una sorpresa.

Origini pugliesi sono anche quelle di Francesco Sarcina…

Le sue origini sono cerignolane, come quelle di mia mamma. Alla fine, la Puglia torna sempre. 

Ha convinto il pubblico già dalla sua prima esibizione con Tiziano Ferro e la sua “Non me lo so spiegare”…

Il punto di partenza con cui ho potuto capire quanto fosse difficile la gara e di quanto impegno richiedesse. È stata una serata emozionante e la vittoria mi ha dato l’incoraggiamento necessario per partire bene.

Si è cimentato anche con due artisti internazionali…

Lewis Capaldi è stato il personaggio che mi ha dato più filo da torcere per la sua vocalità. Interpretare “Someone you loved” per come è incisa nel disco è difficile anche per lo stesso Capaldi, che nei suoi concerti la canta due toni sotto. Ho voluto replicare la tonalità del disco: è stato molto difficile, ma sono riuscito a reggere il colpo.

Hozier…

È un artista che amo, è stato un onore portarlo in scena. Ha una vocalità difficile da ricercare, ma nella quale ritrovo cose che mi appartengono.

Finito il programma qual è stata la prima telefonata che ha ricevuto?

Ho sentito la mia famiglia. Mia mamma, mio fratello, mia sorella che mi seguono sempre con amore. Abbiamo gioito insieme, poi sono corso a struccarmi perché è un’operazione che richiede sempre molto tempo.

Ora c’è il torneo, chi porterà in scena?

Non mi è stato ancora comunicato. Spero che mi venga assegnato un cantautore italiano o qualcuno che abbia lasciato il segno nel panorama della musica internazionale.

Finito “Tale e Quale” in che direzione guarda Gaudiano?

L’ultima puntata coincide con l’uscita del mio nuovo singolo “Numeri”, una canzone che parla del mio rapporto travagliato con la discografia, con un sistema difficile per gli autori oggi, soprattutto per i giovani.

C’è qualcosa che la discografia non ha capito di lei?

Può non aver capito nulla, o aver capito tutto, il problema non sono io. Credo che la discografia debba smetterla di inseguire progetti già pronti, che hanno già un loro consenso, invece di costruire il consenso intorno all’artista che ha una proposta vincente e nuova da un punto di vista autorale. Non parlo di me, sto facendo un discorso in generale.

Cos’è per lei la musica?

Una necessità. Ho la fortuna di svegliarmi alla mattina e poter fare quello che mi piace, musica. Quando le due cose coincidono è come respirare. Non posso immaginarmi senza. Ognuno di noi custodisce dentro di sé una propria colonna sonora. Io cerco di fare venire fuori la mia e di condividerla con le persone che vogliono ascoltare le mie canzoni.

Cosa porterà con sé dell’esperienza a “Tale e Quale”?

Mi porterò dietro l’insegnamento delle persone che ho conosciuto in queste settimane, Carlo Conti in primis, gli autori. E poi l’artigianalità che consente di creare delle cose grandi, come il miglior programma di varietà che ci sia in circolazione. Oggi mi sento anche più sicuro nello stare sul palco. Ho imparato a non dire mai di no, con pregiudizio, a determinate cose, nelle quali potresti riscoprirti diverso, se non migliore, di quello che credi di essere.

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Rai e Airc insieme contro il cancro

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I GIORNI DELLA RICERCA

Servizio Pubblico mobilitato per informare e sostenere il lavoro di 6 mila ricercatori. Ad aprire e chiudere l’iniziativa, il 5 e il 12 novembre, Mara Venier e “Domenica In”

Da 29 anni la Fondazione AIRC accende i riflettori sull’importanza di sostenere la ricerca per la cura del cancro con un ricco programma di appuntamenti per informare il pubblico sui progressi della ricerca oncologica e raccogliere nuove risorse che diano impulso al lavoro di seimila ricercatori. Un percorso che coinvolge le reti Rai, radiofoniche e televisive, e che ha portato anno dopo anno a raccogliere 139 milioni di euro. «La Fondazione AIRC fa un lavoro importantissimo e coerente con i valori del servizio pubblico: fornire ai cittadini un’informazione scientifica basata sui fatti, che aiuti una cultura di prevenzione e di consapevolezza – afferma la presidente della Rai Marinella Soldi – Siamo felici di rendere la Rai parte attiva di un’iniziativa così importante per tutti noi». Rai e AIRC danno vita a una vera e propria maratona, frutto di una partnership consolidata. Punto di partenza e di arrivo della staffetta, che mobilita decine di programmi, è “Domenica In”. «Tutto partirà domenica 5 novembre con l’avvio del numeratore – dichiara Mara Venier, padrona di casa del programma di Rai 1 – la mia collaborazione con AIRC è iniziata nel 1996, dopo avere conosciuto il professor Umberto Veronesi, persona meravigliosa rimasta nel cuore di tutti. Mi auguro che la partecipazione e la generosità siano grandi, perché la prevenzione e la ricerca salvano la vita. Questo non lo dobbiamo mai dimenticare». A definire irrinunciabile la settimana della ricerca è il presidente dell’AIRC Andrea Sironi: «È l’occasione per fare il punto sulle sfide che abbiamo davanti. Questa maratona è veramente un esempio di Servizio Pubblico». AIRC finanzia più di seimila ricercatori in Italia ed è la spina dorsale della ricerca oncologica. «Bisogna scardinare un tabù – prosegue Sironi – il cancro è una malattia brutta che affrontiamo con successo. Oggi 3 milioni e 600 mila persona hanno superato la malattia e svolgono una vita normale, con un’aspettativa di vita analoga a chi non ha mai avuto problemi di salute». Per il presidente AIRC «l’unica vera arma che abbiamo, accanto alla prevenzione, è la ricerca che facciamo da quasi 60 anni in maniera rigorosa. Quest’anno eroghiamo 137 milioni in tutta Italia e, negli ultimi anni, abbiamo spinto di più sui giovani che hanno progetti più coraggiosi».

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Nel segno di un padre

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VINCENZO FERRERA

“Al contrario dei suoi familiari che hanno scelto la vita della lotta, Antonio ha smesso di combattere, perché è morto dentro. Il suo cuore si è spezzato. La sua vicenda aggiunge tristezza alla tragedia” commenta l’attore napoletano che, dopo il grande successo di “Mare Fuori”, interpreta il papà della ragazza scomparsa e uccisa nella serie “Per Elisa”

Una storia così privata, eppure così esemplare…

Girare a Potenza ha avuto un suo perché, è una città che porta assolutamente il peso di questa storia. Abbiamo girato d’inverno, con il freddo e con accanto sempre lo spettro della Chiesa della Santissima. Dal punto di vista dell’emotività è stato abbastanza pesante, ma ha agevolato il nostro mood per entrare nei personaggi. Siamo stati nelle vie nelle quali tutto è iniziato, abbiamo respirato quelle atmosfere…

Cosa l’ha colpita di questa vicenda?

Mi ha toccato nel profondo l’assoluta follia di questa storia, che ha devastato una povera famiglia umile che non meritava tutto questo. Com’è possibile che una famiglia si possa ritrovare nella condizione di perdere una figlia, una sorella, essere catapultata all’interno di una rete di depistaggi, per scoprire solo dopo diciassette anni che il suo corpo era stato “custodito” nel sottotetto di una Chiesa? Com’è possibile che la città non si sia messa a disposizione di questa famiglia, e che, al contrario, l’abbia tradita? Su questa vicenda sono calati il silenzio e il velo dell’omertà.

Il male non è sempre e solo nelle mani di un assassino. C’è qualcosa di più profondo nella storia di Elisa Claps?

Quello che colpisce non è tanto la figura del serial killer, Danilo Restivo era un ragazzo malato, con evidenti problemi psichici, ma ciò che si è creato attorno a lui per proteggerlo e tacere chissà quali segreti. È sconvolgente che la città abbia assunto un atteggiamento paramafioso… tutti conoscevano Danilo Restivo, quella stessa persona che sugli autobus tagliava i capelli alle ragazze e se li portava a casa. 

Eppure, nessuno ha voluto cercare la verità…

Se tutti avessero fatto la propria parte, probabilmente Heather Barnett, la donna inglese uccisa da Restivo, si sarebbe potuta salvare.

Il libro di Tobias Jones offre una base importante al racconto di “Per Elisa”…

Questo volume ha il merito innanzitutto di aver riacceso un faro su una vicenda che, come spesso accade nel nostro Paese, era stata dimenticata e offre un riconoscimento importante alle lotte della famiglia Claps. Spero che la serie faccia il resto e che venga apprezzata tanto quanto il libro.

Cosa ci può raccontare di Antonio Claps, il papà di Elisa?

Non ho avuto la possibilità di incontrarlo e parlare con quest’uomo, che purtroppo è scomparso tempo fa, ma ho visto l’intensità delle emozioni quando Filomena ha conosciuto l’attrice che ha interpretato Elisa, o quando Gildo ha incontrato Gianmarco Saurino… sarebbe stato difficile per me fare domande a un uomo al quale è stata strappata la figlia. Antonio è stato consumato dalla disperazione, da padre di un ragazzo di quindici anni posso solo comprendere. Al contrario dei suoi familiari che hanno scelto la vita della lotta, lui ha smesso di combattere perché è morto dentro. Il suo cuore si è spezzato, ha vissuto in preda alla depressione, la sua vicenda aggiunge tristezza alla tragedia.

Com’è entrato dentro questa vita?

In maniera molto semplice, immaginare la perdita del proprio figlio ti spinge inevitabilmente a provare empatia. Credo di aver interpretato questo ruolo con grande verità e con sincerità, mettendoci tutto quello che potevo. Ho pensato tanto a mio figlio.

 “Una fiction non è un tribunale” recitava un titolo di giornale. La tv può, però, smuovere le coscienze, indurre una riflessione. Qual è il potere di un racconto per immagini di questa portata?

Intanto è fondamentale continuare a parlarne, cercare di fare chiarezza su una vicenda piena di lati oscuri. È doveroso nei confronti della famiglia Claps.

Il titolo “Per Elisa” è una sorta di omaggio a questa vita spezzata che, in qualche modo, rimanda alla melodia di Beethoven che tutti conosciamo, facile da riprodurre, come semplice sarebbe stata la soluzione del caso Claps, ancora oggi un mistero…

Una melodia riconoscibile e molto infantile che tutti impariamo a suonare alle scuole medie, che però cozza con un evento così complicato, una storia assolutamente unica e così nebulosa. A pagarne le conseguenze è stata anche la città. Potenza sente tutto il peso di questo nero attorno a sé.

Cosa la deve colpire, da attore, di una storia?

Devo trovare una verità di fondo, non deve sottostare ai vari cliché della fiction. Devo dire che sono stato molto fortunato perché sia “Mare fuori”, sia “Per Elisa” sono storie che si distinguono per la verità totale, per la sincerità con cui gli attori recitano, per la scelta di non andare dietro a facili stereotipi. Sono racconti che non fanno sconti a nessuno.

Questa è una co-produzione internazionale. Arriverà il messaggio giusto anche all’estero?

Con “Mare Fuori” ci siamo assolutamente riusciti, riunire le famiglie e far passare un messaggio assolutamente educativo. Penso che sarà così anche con “Per Elisa”, una storia talmente tragica e molto commovente che colpirà le corde emotive di tutti, pubblico italiano e internazionale.

Cosa restituisce all’uomo il mestiere dell’attore?

Sarebbe facile rispondere “la possibilità di interpretare altri personaggi per non essere se stessi nella vita”, il che è anche vero, perché ciascuno di noi si porta dietro un proprio lato oscuro che noi attori possiamo esorcizzare con il mestiere. Il mio lavoro mi dà certamente la grande soddisfazione di pensare che avevo ragione io nell’intraprendere gli studi nel teatro, mi dà una gioia enorme, perché faccio il lavoro che amo e mi pagano per questo. Con gli ultimi lavori il mestiere è diventato per me quasi una responsabilità etica. Grazie e “Mare Fuori” ricevo moltissimi messaggi di persone che desiderano diventare “educatori” proprio come il mio personaggio Beppe, un ruolo talmente bello che fai fatica a lasciarlo.

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Vi aspetto a Macondo

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CAMILA RAZNOVICH

La conduttrice al RadiocorriereTv: «Parliamo del mondo che verrà e del mondo che vorremmo che arrivasse, raccontando storie virtuose di persone che hanno deciso almeno di provarci». Il sabato in prima serata su Rai 3

Camila Raznovich,2019

Camila, perché “Macondo”?

Parte tutto da Gabriel García Márquez e dal suo romanzo “Cent’anni di solitudine”, dal villaggio ideale, utopico, di Macondo, dove si può vivere senza guerre, senza povertà, senza carestie. Siamo partiti dalla domanda “ma è possibile vivere in un mondo migliore”? Macondo è stato anche il nome della prima comunità in cui ho vissuto quando ero bambina.

Che cosa significa la parola “armonia”?

Quando tutto è in una specie di bilanciamento, di equilibrio. Non è né bellezza né bruttezza, è equilibrio tra i vari elementi.

Che cosa possiamo fare per trovare consapevolezza dei danni che abbiamo fatto a questo Pianeta?

Leggere, informarsi, cercare le fonti importanti. Sicuramente capire quale sia il perimetro del problema per poi cercare di risolverlo, ognuno nel proprio. Poi ci sono scelte, quelle dei governi, che sono ben al di sopra delle nostre teste.

Nel nostro piccolo cosa rende complesso il cambio di passo?

Dovremmo rinunciare a degli agi, a dei comfort e a dei lussi a cui siamo abituati, cosa che non siamo, ancora, evidentemente, disposti a fare.

Lei nella sua vita a cosa ha rinunciato?

A una zona di comfort, ma da tanto tempo, in quanto non mi è mai stata concessa. Quando ero piccola per scelta dei miei genitori e poi, evidentemente, per una scelta e un’abitudine mia. Ho rinunciato alla comodità della vita borghese, routinaria e sicura.

Tutto parte dalle azioni di ogni giorno…

Mentirei se dicessi di essere l’eroina della sostenibilità. Ma ci sono tante piccole azioni che possono aiutare, come chiudere il rubinetto mentre si lavano i denti, oppure quando sotto la doccia si lavano i capelli. Per lavare i piatti e risparmiare acqua meglio utilizzare un moderno elettrodomestico piuttosto che non farlo a mano. E ancora non sprecare cibo, imparando a riciclare gli avanzi, utilizzare le borracce e non le bottiglie di plastica, spostarsi, quando è possibile, con la bicicletta. E molti altri accorgimenti ancora.

Che mondo vorrebbe lasciare alle sue figlie?

Un mondo nel quale si sentano libere di esprimere ciò che sono, quello che vogliono, e di non avere paura di essere ambiziose.

Che cosa significa essere ambiziosi?

Non intendo rispetto al prossimo o rispetto a un’ipotetica classifica di successo. Ma per realizzare la propria anima e ciò per cui siamo stati messi in questo mondo: cercare di raggiungere la migliore versione di noi stessi, morire migliori rispetto a quanto lo eravamo quando siamo nati.

A chi dedica “Macondo”?

A coloro che ci hanno seguito e mostrato affetto in tutti questi anni. Spero di non deluderli e di riuscire a fare un programma all’altezza delle aspettative.

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I supereroi di “Noi siamo leggenda” al Lucca Comics & Games

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In anteprima assoluta il primo episodio della nuova serie fantasy diretta da Carmine Elia. Appuntamento domenica 5 novembre alle 16.30 al Teatro del Giglio della città toscana, dove è prevista anche la partecipazione di alcuni dei protagonisti. Il teen drama sarà trasmesso da mercoledì 15 novembre in prima serata su Rai 2 e sarà disponibile su RaiPlay

Un gruppo di adolescenti scoprono improvvisamente di essere dotati di superpoteri. Sono i protagonisti di “Noi siamo leggenda”, il nuovo teen drama a tinte fantasy che, in prima assoluta, chiuderà il Lucca Comics & Games. Il primo dei sei episodi della serie sarà proiettato infatti domenica 5 novembre alle 16.30 al Teatro del Giglio di Lucca, alla presenza di alcuni attori del cast.

Nata da un’idea di Valerio D’Annunzio e Michelangelo La Neve, la nuova serie è diretta da Carmine Elia (“Mare Fuori”, “Sopravvissuti”) ed è una coproduzione Rai Fiction e Fabula Pictures, prodotta da Nicola e Marco De Angelis, in collaborazione con Prime Video, mentre Federation International si occupa della distribuzione internazionale. Tra gli interpreti, Emanuele Di Stefano, Nicolas Maupas, Giacomo Giorgio, Beatrice Vendramin, Giulio Pranno, Valentina Romani, Milo Roussel, Sofya Gershevich, Margherita Aresti, Giulia Lin, Claudia Pandolfi, Antonia Liskova e Lino Guanciale.

La storia della serie è quella di cinque ragazzi – e del loro mondo – con cinque poteri straordinari che affondano le radici nelle loro paure e nei loro desideri più profondi, capaci di stravolgere le loro vite. Un coming of age che unisce dramma, azione e ironia in una narrazione originale, capace di rinnovare e riscrivere i canoni del racconto young adult di supereroi. Niente missioni iperboliche, nessun universo da salvare o supercattivi da combattere. Un racconto di formazione in cui i superpoteri si fanno metafora delle difficoltà che gli adolescenti sono chiamati ad affrontare. Un affresco commovente, forte, divertente e spiazzante di una società – la nostra – e di una parentesi della vita – l’adolescenza – in cui tutti, almeno una volta, hanno sognato di avere i superpoteri. Per combattere le ingiustizie che li circondano. Vincere la propria insicurezza. Accettarsi. Fare la cosa giusta. Senza immaginare che qualcuno, nell’ombra, è consapevole della vera origine degli improvvisi poteri. La serie andrà in onda da mercoledì 15 novembre in prima serata su Rai 2 e sarà disponibile su RaiPlay.

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