VALERIO LUNDINI

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Inchieste surreali

Seconda stagione per “Faccende complicate”, dieci nuove puntate dal 10 aprile su RaiPlay. Il comico e conduttore romano intervistato dal RadiocorriereTv, presenta i nuovi episodi di interesse sociale, con il suo stile inconfondibile e mai scontato

Cosa succede in questa seconda stagione di “Faccende Complicate”?

È il seguito di un programma andato in onda lo scorso anno ma, a differenza dei sequel cinematografici, anche guardando soltanto la seconda serie, si comprende tutto. Io, ad esempio, non posso vedere un solo film della Marvel, perché ogni volta penso che non avendone visto uno del passato non capirei niente.  In questa stagione di “Faccende complicate” c’è una puntata a tema politico con tre persone che non sanno per chi votare e che cercano la loro identità politica. Ovviamente qui la politica viene trattata come farebbe un bambino di sette anni di fronte a un tema troppo grande per lui. Nonostante, purtroppo, io non faccia più parte del mondo dell’infanzia, mi diverte sempre trattare i temi con quella superficialità di quando ero in prima media.  In un’altra puntata ci sono i cortometraggi sul tema del bullismo, con un musical di bambini, una delle mie puntate preferite. In un’altra ancora scopro l’esistenza di uno sport indiano mai giocato qui in Italia e quindi organizzo la prima partita alla prima squadra italiana di questo sport. Una puntata davvero divertente.  Vado anche in Spagna a ripercorrere l’esperienza di un Erasmus, cosa che non ho mai fatto all’università e cerco di farla adesso a 38 anni.

Qual è stato il momento più memorabile durante la realizzazione del programma?

Ricordo, in Spagna, c’era una serata di stand up comedy in spagnolo. Mi esibisco sul palco spesso, ma non faccio mai la stand up comedy che è quella in cui prendi il microfono, parli al pubblico e fai battute. Il mio obiettivo era quello di cercare di parlare in spagnolo, lingua che non padroneggio, facendo battute volontariamente non funzionanti. Una missione da kamikaze. Sono andato lì per non essere apprezzato o capito, una figura orribile. Magari poi mi rivedranno in Tv e capiranno.

Cosa pensa del politicamente corretto nella comicità?

È un tema molto amato, se ne parla sempre. Secondo me molte persone lo usano per lamentarsi. Io non ho mai avuto esperienze di censura dal “politicamente corretto” né ho fatto autocensura.  Molti hanno delle idee ma poi pensano che vadano contro qualche canone di correttezza allora le censurano, quando in realtà il pubblico è intelligente da capirle. Oggi c’è molta più correttezza e tutto ciò che facciamo e diciamo, non sarebbe stato possibile tanti anni fa. Di “politicamente corretto” se ne parla tanto, ma in realtà ce n’è poco.

Costruendo il programma, ha fatto i conti con la sua pigrizia?

In questa stagione ho girato tanto, pensare che fosse un programma poco stressante è stata una ingenuità. Avevo anche pensato che, scrivendo minuziosamente tutti gli sketch, sarebbe stato più semplice. Non è vero che prendi la telecamera vai, giri quello che succede e lo monti. C’è bisogno di un team. Insomma, devo fare una cosa da pigro ma spero che i risultati si vedranno perché sono dieci puntate da venti minuti che volano via.

Qual è stato il finale di puntata inaspettato che, davvero, non si aspettava?

C’è una puntata in cui io avevo scoperto che esisteva un signore che ha collezionato, suo malgrado, ben 56 multe per lo stesso autovelox. Avevo visto delle interviste in cui lui si lamentava di questo autovelox che definiva “truffaldino”. Allora sono andato nel suo paese, anzi, proprio nel suo campo dove coltiva le rape. Mi ha fatto vedere tutto il suo campo e le 56 multe. Si diceva poco intenzionato a pagarle e così, per convincerlo a pagarle, le abbiamo fatte diventare delle opere d’arte contemporanee, con una mostra a Roma dove sono state messe in vendita. Il finale inaspettato sta nel fatto che oltre a venire gente, come pensavamo, sono arrivati anche dei critici che ancora non ho capito se hanno inteso l’intento surreale della cosa. Alcuni hanno anche commentato in maniera interessante la mostra. Tutto molto divertente.

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ULISSE, IL PIACERE DELLA SCOPERTA

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Dopo il grande successo dello speciale “La Sicilia di Montalbano”, Alberto Angela torna su Rai1 con la nuova serie di “Ulisse, il piacere della scoperta”. A partire da lunedì 7 aprile in prima serata Rai 1, Rai Cultura propone quattro nuovi episodi dedicati a grandi personaggi del passato e alla storia di luoghi unici ed affascinanti

Nel primo episodio Alberto Angela racconterà la vita di Vincent van Gogh, il pittore che ha incantato il mondo con la luce e i colori delle sue opere. Viaggeremo attraverso i luoghi che hanno ispirato i suoi quadri più celebri e hanno fatto da sfondo alla sua dolorosa vicenda umana. Ripercorrendo la vita del pittore, cercheremo di capire come sono nate le sue opere, il perché siano attraversate da pennellate energiche e ammantate da una luce così inconfondibile da farle sembrare sogni. Chi era veramente Van Gogh? Su di lui è stato detto tutto: artista maledetto e incompreso, persona bipolare, frequentatore di bordelli. Siamo sicuri di poter definire con valutazioni così assertive un uomo così complesso e capace di rivoluzionare la storia dell’arte? Si può esplorare una città attraverso una playlist di canzoni? Sì, se quella città è Londra. È qui che “Ulisse” volerà, lunedì 14 aprile, per raccontare i suoi luoghi più amati attraverso la musica. Dodici destinazioni nella capitale inglese per altrettante canzoni di artisti indimenticabili: dai Beatles a David Bowie, da Freddy Mercury ad Amy Winehouse. Successivamente si andrà a Istanbul per ripercorrere la vicenda di Lucrezia Borgia. Nell’appassionante storia di Istambul, divisa tra Europa ed Asia, si muovono imperatori e sultani, basilisse e concubine, eunuchi e visir, e ciascuno lascia un’impronta più o meno duratura del suo passaggio nell’inconfondibile skyline che si affaccia sul Corno d’Oro. Lucrezia Borgia, una delle donne più controverse del rinascimento: figlia di un papa, sorella di uno spregiudicato condottiero e lei stessa abile politica e diplomatica. Cosa c’è di vero nella sua leggenda nera? Da chi e perché è stata tanto infamata?

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ELEONORA DE LUCA

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Il grande dono della leggerezza

È tra i protagonisti di “Costanza”, la serie tratta dai romanzi di Alessia Gazzola che sta ottenendo grande successo nella domenica di Rai 1. Al RadiocorriereTv l’attrice siciliana parla della sua Toni e di una narrazione al femminile sempre più gradita al pubblico televisivo: «Quando una donna riempie uno spazio, un personaggio, una storia, crea immediatamente libertà»

Cosa ha pensato di Toni al vostro primo incontro?

È stato un incontro felicissimo e giocosissimo sin dalla prima lettura del copione. Antonietta Macallè, detta Toni, è un personaggio che pensavo fosse distante da me, ma non è stato così. Sul set si è creata una chimica bellissima con Miriam Dalmazio (Costanza) e con il regista Fabrizio Costa, attento a tutto e molto creativo, che ci ha lasciato grande libertà. Mi sono divertita molto, il ruolo è diventato da subito tridimensionale: la serie è ben scritta, piena di azione e di gioco.

Cosa ha regalato di sé al suo personaggio?

Buona parte della mia goffaggine, che si è rivelata utile nel portarla in scena (sorride). Lei è una psicologa, una donna intelligente, equilibrata, e quando è consigliera è un po’ come se fosse la guida di Costanza.  Quando invece è coinvolta direttamente nelle situazioni la vediamo un po’ più goffa. Amo Toni anche perché rappresenta l’accoglienza.

Il racconto della sorellanza e della solidarietà tra donne. Cosa significa dare respiro a una storia al femminile?

Significa liberare la narrazione, perché le donne sono un principio liquido. Non sono il contenitore di qualcosa, ma spesso ne sono il contenuto. Al di là della forma del contenitore quando una donna riempie uno spazio, un personaggio, una storia, crea immediatamente libertà. Sento che i tempi stanno cambiando, insieme alla concezione di donna, abbiamo un respiro più aperto verso la figura femminile.

Un femminile che vive nella contemporaneità…

Alessia Gazzola è una donna davvero in gamba e la storia che ci ha regalato è intrisa di temi che riguardano i nostri tempi. L’ho vista contenta della mia Toni, felice e sorpresa come una bambina di come è stato messo in scena il mondo di “Costanza”. Nei suoi romanzi ha creato qualcosa che non esisteva, una volta sul set ho osservato l’incanto nei suoi occhi.

Come sceglie i suoi ruoli?

Accade un po’ come quando ti innamori di qualcuno (sorride), in realtà non sai mai per davvero il perché, c’è qualcosa che ti chiama e che non comprendi bene. Quando vai troppo con la logica significa che il cuore non si è del tutto attivato. Se invece una storia o un personaggio non fanno per me lo sento subito.

Cosa ha provato nel rivedere Toni sullo schermo?

È stato sorprendente, anche se cerco di non giudicare né me né il mio personaggio e mi affido totalmente ai registi. Ma già da dentro, durante le riprese, sentivo che le cose stavano funzionando. Si è fatto tutto con grande cura, e questo mi ha aiutato a esprimermi liberamente.

Dove nasce il suo essere attrice?

Chissà (sorride). Tecnicamente ho cominciato a recitare per affrontare la mia timidezza, poi, come abbia fatto a farlo diventare un lavoro, non lo so spiegare. Quello di fare l’attrice è stato ed è il mio solo piano. Certo, so bene che le cose nella vita possono sempre cambiare, ma al momento posso dire che questa cosa mi appartiene.

Che cosa c’è nel suo cassetto dei sogni?

Recitare, fare il lavoro che amo. Sono felice di continuare a prendere parte a storie belle, con persone che stimolano la mia creatività. Spero anche di crescere e di migliorarmi.

Quali sentimenti spera possa suscitare Toni nei telespettatori?

Un dolce sorriso e anche un grande senso di accoglienza, spero che sia amata e adorabile anche per il pubblico. Le ho voluto bene come fosse una parte di me che si staccava da me mentre recitavo. Toni ha una profonda saggezza che utilizza anche nel lavoro che fa: è a conoscenza delle cose,  anche dolorose, ma sceglie la leggerezza. Se questa serie riuscirà a portare leggerezza sarà un grande dono per gli spettatori.

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AMBROSIA CALDARELLI

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Cristina? La porterei a ballare

In “Che Dio ci aiuti 8” interpreta la giovane ospite de “La casa del Sorriso” alle prese con una gravidanza adolescenziale. «Per lei provo grande tenerezza, l’adolescenza è sempre una cosa complicata» afferma l’attrice al RadiocorriereTv. Promessa nel cinema e nella serialità si dice pronta a nuove sfide: «Mi piace variare ed entrare in personaggi che abbiano grandi messaggi»

Come è stato il suo incontro con “Che Dio ci aiuti”?

Non avevo mai fatto provini per serie già avviate e così lunghe ed è stato bellissimo, anche grazie a un gruppo di lavoro che si conosce, che si aiuta. È stata un’esperienza molto rassicurante, mi sono sentita protetta.

E con Cristina?

Mi piace il modo in cui è scritta, ho pensato immediatamente che fosse molto simile a me e mi ci sono affezionata. È bello pensare che tra il pubblico siano molte le persone che si rispecchiano in lei. Puntata dopo puntata sta crescendo.

Dalla scrittura al set, cosa ha aggiunto, di Ambrosia, al suo personaggio?

La me di quando avevo 16-17 anni. Ho avuto problemi diversi da quelli di Cristina, ma l’adolescenza è sempre una cosa complicata, difficile. È una fase in cui vivi emozioni diverse: interpretandola mi sono ricordata di quel periodo in cui anche io ero tanto scontrosa e diffidente con le altre persone. Ripensandomi ho provato grande tenerezza.

Cosa le fa decidere se scegliere o meno d’interpretare un personaggio?

Non tendo a rifiutare ruoli, perché ogni nuovo personaggio è sempre una sfida. Ho fatto cose molto diverse e mi piace che il pubblico possa vedermi in ruoli sempre nuovi, da quelli impegnati a quelli più divertenti, rassicuranti. Mi piace variare ed entrare in personaggi che abbiano grandi messaggi.

Che ricordo ha del suo primo ciak sul set di “Che Dio ci aiuti”?

Sin dalle prove di lettura, che sono sempre un momento anche di “caciara”, mi sono subito trovata bene, insieme a bravi attori e belle persone. Il primo ciak è stato una grande emozione, io e Tommaso (Donadoni, interpreta Pietro) eravamo in cucina a preparare gli gnocchi. Rivedendo la scena in Tv ho percepito la tensione del momento. Poi è andato tutto più liscio.

Pensi a una serata da trascorrere con la sua Cristina, dove la porterebbe, cosa le proporrebbe di fare?

Per una serata un po’ malinconica la porterei nei luoghi in cui è cresciuta, per una più divertente credo le proporrei di andare a ballare… non in discoteca ma a un festival con tanta gente.

Cosa l’ha spinta verso la carriera dell’attrice?

Qualcosa che avevo dentro, una sorta di disagio interiore. Ero titubante e mi capitava di non sentirmi all’altezza. Al liceo cominciai a fare teatro, poi arrivarono i primi provini e i primi set. Da allora ho sempre lavorato. Stando sul set mi sentivo giusta in quel contesto e ho continuato, ho avuto le conferme sul campo.

Preferisce il dramma o la commedia?

Al di là del genere mi appassionano le storie. Mi piacerebbe tornare a un dramma, ma anche la commedia mi sta dando tanto. Vive di un linguaggio completamente diverso.

Che cos’è per lei l’ironia?

Non è far ridere forzatamente ma è un dono. Non amo chi si prende troppo sul serio, chi vive le cose in modo pesante.

Che cosa la diverte nella vita?

Quasi tutto. Rido sempre, ero così anche da piccola. Ci sono persone che ti fanno sorridere naturalmente, penso a mio papà Fulvio, a come parla, come ti ascolta. Mi divertono anche i miei amici e mi fanno ridere le situazioni di silenzio.

Se dovesse descriversi con tre aggettivi quali userebbe?

Determinata, perché ho imparato a non abbattermi e a guardare avanti con ottimismo, onesta, nel lavoro come in amore e nell’amicizia. E tanto affettuosa.

Cosa augura all’Ambrosia di domani?

Di credere ancora di più in se stessa.

Che emozione prova di fronte all’affetto del pubblico?

Apprezzo tanto che le persone dimostrino affetto. Lavoriamo per il pubblico verso il quale provo gratitudine.

Le capita, nelle sue giornate, di dire “Che Dio mi aiuti”?

Solo per le cose importanti, penso sempre anche molto agli altri, mi preoccupo per le persone a cui voglio bene.

 

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Lucio Corsi: album, tour ed Eurovision

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Il momento d’oro del cantautore toscano che a maggio rappresenterà l’Italia all’Eurovision Song Contest a Basilea

“Volevo essere un duro” è il nuovo album che racconta di una musica d’autore intima e a tratti immaginaria, in una scrittura delicata e sincera, senza mai cadere nella superficialità. Il disco su tutte le piattaforme digitali e disponibile in pre-order nei formati vinile e CD, arriverà l’11 aprile. Lucio Corsi vive un momento professionale davvero magico e il “Club Tour 2025”, la cui partenza è prevista per il 10 aprile, è tutto esaurito. Partenza da Perugia, per poi toccare Bologna, Torino, Firenze, Roma, Napoli, Padova e Milano il 29 aprile e il 4 maggio.  A queste date, si aggiungono le tappe estive nei più importanti festival italiani, che comprendono anche gli imperdibili appuntamenti di “Ippodromi 2025” di Roma e Milano: si parte il 12 giugno da Mestre, per poi proseguire ad Aosta, Cagliari, Roma, Bologna, Genova, Camaiore, Perugia, Collegno, Arezzo, Casera, Sassari, Termoli, Catania, Lamezia Terme, Bari, Mantova, per concludere il 7 settembre al Milano. «“Volevo essere un duro” è un disco che parla di infanzia, di amicizia e di amore. È un disco di ricordi veri e falsi, di personaggi del bene e del male, di località, che esse siano prati di margherite o squallide zone industriali – spiega Lucio Corsi – nelle forme di espressione credo che la cosa a cui si debba tendere è il cambiamento. In questo album ho cercato una trasformazione soprattutto a livello testuale, cercando di non staccare più di tanto i piedi da terra. Ho cercato di cantare in maniera chiara e diretta di persone. “Volevo essere un duro” è nato strisciando sui marciapiedi, nascondendomi negli armadi o sotto le zampe dei tavoli, girando tra i panni sporchi nelle lavatrici, appendendomi con le mollette ai capelli ai panni stesi, cercando ricordi non miei nei cappelli degli altri, cercando nuovi orizzonti nelle scarpe degli alti. Dopo circa due anni ho trovato nove canzoni diverse e le ho convinte ad andare ad abitare nello stesso palazzo. Così è nato il disco.» Il quarto album in studio si compone di nove tracce, tutte scritte e composte da Lucio Corsi e Tommaso Ottomano, che ne hanno curato anche la produzione insieme ad Antonio “Cuper” Cupertino. A popolarle, molti personaggi come “Francis Delacroix”, amico fotografo, Rocco compagno delle medie in “Let There Be Rocko”, e “Il Re del rave”, sagoma romantica e sgangherata. Ad aprire e chiudere la narrazione musicale del disco, anche i brani già editi “Tu sei il mattino” – che ci narra di come il tempo scorra inesorabile, come la corrente di un fiume che ci tira sempre e solo da una parte – e “Nel cuore delle notte” – una canzone sull’amicizia, una lunga coda di pianoforte sull’autostrada della luna, presentata a sorpresa la scorsa Vigilia di Natale con una live session -, oltre a “Volevo essere un duro” (il brano indipendente più ascoltato in radio e recentemente certificato disco d’oro), in gara alla 75esima edizione del Festival di Sanremo, dove Lucio – al suo debutto sul palco dell’Ariston – si è classificato secondo ed è stato insignito del Premio della Critica “Mia Martini”, entrando nel cuore del pubblico.

 

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ALESSIA MARCUZZI

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In Tv come nella vita

Un grande tavolo con tanti ospiti pronti a mettersi in gioco. La conduttrice, alla guida del nuovo talk-show di Rai 2, al RadiocorriereTv: «Sono un’abile padrona di casa che organizza giochi di società. Si parla di cose che riguardano ognuno di noi nel profondo». Il lunedì in prima serata

“Obbligo e verità”, come sta affrontando questa nuova sfida?

Sfidandomi (sorride). Perché è un talk show, un genere di programma che conduco per la prima volta. In qualche modo sto facendo quello che ho sempre fatto a casa con gli amici, riunendoli e sfidandoli nei vari giochi di società. Sono un’abile padrona di casa che organizza giochi di società.

Un programma all’insegna del sorriso e della leggerezza, quale significato attribuisce a queste parole?

Non è un programma solo all’insegna della leggerezza, c’è spazio per tutto ciò che è la nostra vita. A “Obbligo o verità” ci abbiamo giocato tutti, ti porta a esprimere emozioni, si parla di cose che riguardano ognuno di noi nel profondo. Già dalla prima puntata non sono mancati lacrime e momenti di cuore.

Con quale criterio sceglie i suoi ospiti?

Li scelgo insieme agli autori del programma. C’è una sorta di sottotesto, ed è “il tavolo che non ti aspetti”, attorno al quale ci sono persone molto diverse tra loro, che fanno lavori diversi tra loro.

A quale obbligo cederebbe e quali verità le sarebbe difficile confessare?

Gli obblighi li farei tutti, tranne forse lanciarmi con il paracadute, una cosa così fisica, d’impatto, non credo di poterla accettare (sorride). Per quanto riguarda le verità non racconterei ciò che riguarda la mia sfera privata, la mia famiglia, i miei figli. Alcune cose privatissime non riuscirei a esternarle.

Da mamma come si pone di fronte alle mancate verità dei suoi figli?

Male. Odio le bugie e ho sempre detto ai miei figli “preferisco che me lo diciate prima”. Sapere le cose con l’inganno o con la bugia proprio non mi va giù.

Da ragazza c’è stato qualcosa che non ha detto ai suoi genitori?

Non ne ricordo una in particolare, ero abbastanza brava, una ragazza studiosa, non davo problemi ai miei, ma sicuramente qualche marachella l’avrò fatta anche io (sorride).

Cosa rimane oggi dell’Alessia Marcuzzi degli esordi?

La mia attitudine ad andare su un palcoscenico rimanendo quello che sono nella vita. Forse, in rapporto ad allora, mi manca un po’ di spensieratezza, dovuta all’età. Un tempo mi capitava di fare cose senza pensare troppo, oggi sono un po’ più ponderata. Qualcuno direbbe di no, ma invece è così. Crescendo si comincia a pensare alle conseguenze di ciò che fai.

Che si tratti di critica o di pubblico, cosa le fa piacere si dica di lei e quali sono invece le critiche che proprio non digerisce?

Le critiche le accetto. Fanno parte del nostro lavoro e in qualche modo ci aiutano anche a costruire, a cambiare delle cose se non vanno. Mi dispiace quando qualcuno dice bugie su di me, quando si altera la realtà.

Festival di Sanremo, quali sono i brani che a distanza di un mese continua a canticchiare?

“Volevo essere un duro” di Lucio Corsi, “Incoscienti giovani” di Achille Lauro, “La cura per me” di Giorgia, ma anche le canzoni di Noemi, di Elodie, dei Coma_Cose, di Olly…. Direi che le canto tutte!

Dopo Sanremo qual è il sogno nel cassetto di Alessia?

Uno si sta esaudendo ora, ed è “Obbligo o verità”. In passato ne ho esauditi parecchi. Non vedo l’ora di vedere “The Traitors”, che mi è piaciuto moltissimo fare su Prime. Penso di essere una ragazza fortunata.

 

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La vita da grandi

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Da giovedì 4 aprile nelle sale il film scritto e diretto da Greta Scarano ispirato alla storia vera di Margherita e Damiano Tercon. Con Matilda De Angelis e, per la prima volta sullo schermo, Yuri Tuci

Greta Scarano dirige la pellicola ispirata alla storia vera di Margherita e Damiano Tercon. Nel film prodotto da Matteo Rovere e Rai Cinema, nelle sale da giovedì 4 aprile, i personaggi protagonisti si chiamano Irene, nei cui panni si cala Matilda De Angelis, e Omar, interpretato da Yuri Tuci. Lei vive la sua vita a Roma, quando sua madre le chiede di tornare per qualche giorno a Rimini, la città dove è nata e dalla quale è fuggita, per prendersi cura del fratello maggiore autistico, Omar. Una volta insieme, Irene scopre che Omar ha le idee chiarissime sul suo futuro: non ha nessuna intenzione di vivere con lei quando i loro genitori non ci saranno più ed è pronto a tutto per realizzare i sogni della sua vita: vuole sposarsi, vuole fare tre figli perché 3 è il numero perfetto e vuole diventare un cantante rap famoso. Ma perché tutte queste cose accadano, Omar deve prima di tutto diventare autonomo. Con Irene inizia così un tenero e toccante corso intensivo per diventare “adulto”. Nella loro casa piena di ricordi, Irene e Omar affrontano insieme paure e speranze e scoprono che per crescere, a volte, bisogna essere in due. Nel cast del film Maria Amelia Monti (Piera), Ariella Reggio (Zia Marilù), Gloria Cocco (Nonna Cleta), Paolo Hendel (Walter), Adriano Pantaleo (Ugo), Christian Ginepro (Ludovico).

Matilda De Angelis, la protagonista         

Nel 2014 viene scoperta dal regista Matteo Rovere che la sceglie come protagonista del suo film “Veloce come il vento”, e con la sua interpretazione guadagna il Nastro d’Argento Premio Biraghi. Nel 2015 torna sul set come protagonista della versione italiana della serie americana “Parenthood”, dal titolo “Tutto può succedere”. Nel 2016 vince il premio Flaiano e il premio Attrice rivelazione dell’anno al Taormina Film Fest. Seguono “Una famiglia” di Sebastiano Riso, “Youtopia” di Berardo Carboni, “Il Premio” di Alessandro Gassmann, “Vita Spericolata” i Marco Ponti. Nel 2018 Matilda viene premiata come Shooting Star alla 68esima edizione del Festival Internazionale del Cinema di Berlino. Nel 2019 gira tra la Svizzera e l’Italia il film “Atlas” di Niccolò Castelli, nel 201 negli Stati Uniti gira “The Undoing”, serie per HBO con Hugh Grant e Nicole Kidman, per la regia di Susanne Bier.  Seguono “Il materiale emotivo” di Sergio Castellitto, “I ragazzi dello Zecchino D’Oro” di Ambrogio Lo Giudice, “L’incredibile storia dell’isola delle rose” di Sydney Sibilia, “Leonardo” di Dan Percival. Nel 2022 viene presentato il suo film americano “Across the river and into the trees”, regia di Paula Ortiz, ed è protagonista di “Rapiniamo il duce” regia di Renato de Maria per Netflix. Nel 2025 sarà al cinema protagonista di tre film: “Dracula” di Luc Besson, “Fuori” di Mario Martone e “La vita da grandi” di Greta Scarano.

Greta Scarano, la regista

Inizia a recitare intorno ai 20 anni e partecipa a numerose produzioni televisive e cinematografiche come “Romanzo Criminale – La Serie”, “In Treatment” e “Suburra”. Nel 2023 debutta alla regia col suo cortometraggio “Feliz Navidad” premiato ai Nastri d’argento come Miglior esordio alla regia e selezionato per importanti festival italiani come Alice nella città e internazionali come il Tribeca Film Festival. “La Vita da Grandi” è la sua prima sceneggiatura per lungometraggio, scritta insieme a Sofia Assirelli e Tieta Madia.

 

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ALESSIA GAZZOLA

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La mia spericolata Costanza

La sua scrittura interpreta il femminile e riflette la contemporaneità. Il RadiocorriereTv incontra l’autrice di “Questione di Costanza” (Longanesi), romanzo che insieme agli altri due titoli della serie ha ispirato la fiction della domenica di Rai 1 interpretata da Miriam Dalmazio

 

Per chi non l’avesse ancora conosciuta nella puntata d’esordio o dalle pagine dei suoi libri, chi è Costanza?

Una ragazza che prova tutti i giorni a portare a casa il risultato. Una donna che ha cresciuto una bambina da sola, che ha fatto una scelta di vita molto forte e che ha scelto una professione particolare, quella del paleopatologo. Una branca della medicina di nicchia che, come autrice, ma anche come medico, ho scoperto tardivamente e ho approfondito per l’occasione: è una specialità che si sceglie indubbiamente per grande passione. Arrivarci dalla medicina è qualcosa di complesso e peculiare. Costanza è una mamma single e una lavoratrice precaria, per di più fuori sede, l’abbiamo vista trasferirsi da Messina, città d’origine, a Verona: è coraggiosa, con quel pizzico d’incoscienza che un po’ caratterizza le mie eroine (sorride). Sono tutte sorelle che hanno in comune l’essere spericolate.

Una madre, una donna che sogna di realizzarsi nel lavoro e di trovare l’amore… quanta contemporaneità c’è in Costanza?

Tantissima. Costanza mette sempre al primo posto la figlia, cercando di avere una relazione con il padre della sua bambina pur senza ostacolarlo nei suoi piani di vita. In “Costanza” non esiste un personaggio cattivo o negativo tout court, ma una serie di posizioni sfumate e sfaccettate, che penso che nella vita rappresentino davvero il quotidiano. Nei libri come nella serie non c’è un antagonista. Non lo sono Federica, la fidanzata di Marco, padre della sua bambina, non lo è Diana, la competitor in Istituto.  Di tutti i personaggi capisci le motivazioni, è un racconto in cui emergono le difficoltà delle relazioni nel quotidiano. Per esempio, sarebbe stato più facile fare una Federica cattivona, antipatica, la sfida era invece quella di lavorare di fino su sentimenti e situazioni in cui ci si può trovare nostro malgrado. Credo che sia una storia di sentimenti con tematiche molto contemporanee.

La sua Messina e la sua Verona, i suoi studi di medicina, quanto c’è del suo mondo in quello di Costanza?

Tra tutte le protagoniste dei miei libri, Costanza è probabilmente quella che sento più vicina al mio cuore, la meno sbarazzina. L’ho fatta trasferire dalla Sicilia a Verona per lavoro – io lo feci per il lavoro di mio marito – le ho dato una sensazione di imperfezione nella maternità, il cercare di fare del proprio meglio pur sentendo di sbagliare sempre. Penso che questo accomuni un po’ tutte le giovani mamme che si barcamenano fra mille cose. Cerchiamo di tenere insieme i pezzi di tutto.

C’è un consiglio che ha dato a Miriam Dalmazio prima che iniziassero le riprese?

Con Miriam, che apprezzo sia sul piano professionale che personale, abbiamo parlato molto. L’ho trovata in ascolto, ho visto in lei il desiderio di dare il massimo. Le ho consigliato di godersi questa esperienza, che in un certo senso per lei è la prima da protagonista assoluta, perché se l’è meritata tutta. Tra lei e Costanza ho trovato molti punti di contatto, ed è stato così da subito. Quando sono iniziate le riprese le è stato anche cucito addosso il personaggio con grande cura, dal look all’outfit, da parte della produzione è stato fatto un lavoro di fino, sempre rispettoso dell’atmosfera del libro, di come il personaggio vive tra le pagine. La prima volta che ho visto Miriam sul set con il look Costanza è stata un’emozione fortissima: lei era Costanza (sorride).

Ha voglia di immaginare un incontro tra Costanza e Alice de “L’Allieva”? Cosa si direbbero e cosa accadrebbe?

Hanno un percorso comune, vengono entrambe dalla medicina, una ha scelto medicina legale, l’altra anatomia patologica, materie con molti punti di contatto. Sono due ragazze che sedute allo stesso tavolino indubbiamente troverebbero argomenti di conversazione. Al tempo stesso sono diverse, non so dire se si piacerebbero…

Ha mai pensato di farle vivere, anche solo in un incontro di qualche pagina, nello stesso racconto?

Mi piacerebbe, un domani, provare a sperimentare, farle incontrare in un libro di Costanza. È un’idea che di tanto in tanto mi passa per la mente. Ma fino a quando non mi metto a scrivere non mi sbilancio su cosa potrebbe accadere tra loro, anche perché hanno due caratteri forti. Credo che Costanza, abituata a essere molto responsabile, a pagare il prezzo di ogni scelta, potrebbe non amare fino in fondo la svagatezza di Alice. Credo invece che Alice guarderebbe Costanza con enorme ammirazione.

La passione per la medicina e quella per la scrittura, come è avvenuto l’incontro, nella sua vita, tra questi due mondi?

In realtà scrivevo anche da prima di intraprendere gli studi di medicina, è un qualcosa nato e cresciuto con me. Nel momento in cui sono diventata specializzanda in medicina legale mi si è aperto un orizzonte pensando al personaggio di Alice, poi diventata, anche grazie alla serie, un piccolo cult nel suo genere. Mi solleticò l’idea di scrivere un personaggio che avesse punti di contatto con un certo tipo di libri che leggevo in quel momento, dei chick-lit all’inglese, ma non volevo fare vivere il mio personaggio nella moda, o nel giornalismo, professioni molto glamour, pensai di calarla in un meccanismo giallo e di indagini medico-legali, fu un po’ un azzardo ma andò bene.

Fino a che punto uno scrittore deve assecondare le aspettative dei propri lettori e quanto, invece, deve spiazzarli?

È una lezione che mi diede l’head writer de “L’allieva”, cmi disse che i lettori e gli spettatori non vanno assecondati bensì sorpresi. Se li assecondi, diventa fan service, la mia scelta è quella di sorprendere chi mi legge, di buttare il cuore oltre l’ostacolo, accollandomi i miei rischi, non foss’altro perché se non si diverte l’autore, sia esso televisivo o scrittore, come si può pretendere che lo facciano i lettori? La risposta è dunque: sorprenderli ma cercando di rimanere equilibrio.

Diamo un consiglio a Costanza?

Tra le mie ragazze è quella che si sente sempre una seconda scelta, ha tante insicurezze. Ecco, le direi di credere di più un se stessa.

 

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GIULIO CORSO

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Artigiano delle emozioni

Le serie più popolari del piccolo schermo, il cinema, il teatro: è il giovane e fascinoso avvocato Corrado in “Che Dio ci aiuti” su Rai 1, è il primo ufficiale Starbuck nel “Moby Dick” di Melville in scena al Quirino a Roma. Nell’intervista al Radiocorriere Tv l’attore siciliano si racconta: «Sono schietto, sincero, passionale e scelgo i personaggi che non si lasciano schiacciare dagli eventi, anche a costo di sbagliare»

 

Lei e il suo Corrado siete tra le gradite novità dell’ottava stagione, come è stato l’incontro con “Che Dio ci aiuti”?

Sono stato accolto come un nuovo membro di questa bella famiglia e sono felice di averne fatto parte. Una gioia condivisa anche da mia mamma e da mia sorella (sorride), che hanno sempre sperato che potessi recitare nella serie, di cui sono grandi fan. Quando le ho informate erano entusiaste. Penso sia stata la notizia più bella che ho dato loro dopo quella della nascita di mio figlio.

Cosa continua a decretare il successo della serie?

Oltre alla scrittura e agli interpreti, persone di grande talento e umanità, è sicuramente la qualità del materiale umano, dal regista a tutta la produzione.

Quando ha conosciuto Corrado sul copione cosa ha pensato?

Sulle prime, quando si conosce un personaggio, capita che ci si lasci sopraffare dai nostri limiti, dalle nostre incertezze e debolezze, rischiando di non riuscire ad apprezzarne subito il potenziale. Con Corrado avevo capito che si trattava di un personaggio positivo, ricco, spesso, in cui ci si poteva divertire. Pian piano, con l’aiuto degli autori e del regista, ho cominciato a entrare nel suo mondo…

Si è trovato a suo agio?

È la storia di un ragazzo in carriera che attraverso la Casa del Sorriso si riconnette un po’ alle cose importanti, alle ragioni per cui aveva scelto di fare l’avvocato, ai suoi sogni, e anche alla bellezza di fare qualcosa per gli altri, di dare una mano al prossimo. Così come Corrado, penso anche io che se fai del tuo lavoro la tua passione, non avrai mai la sensazione di lavorare.

Cosa la spinge a scegliere un ruolo?

Quando leggo un nuovo testo e valuto se entrare in un personaggio mi chiedo da cosa sia mosso realmente, quali siano i suoi bisogni. Di lui sappiamo sempre da dove inizia a dove arriva, ma ciò che è veramente importante è il racconto del suo percorso, il cambiamento che compie. E poi credo che ogni attore scelga personaggi in cui possa riconoscersi. Sono una persona molto passionale, sincera, schietta, a volte un po’ irruenta nelle decisioni, questo mi porta a scegliere personaggi con i quali condivido questa natura delle cose, che non si lasciano schiacciare dagli eventi, anche a costo di sbagliare. Non c’è cosa più bella di raccontare le proprie fragilità.

Che scambio avviene con i personaggi a cui dà voce e volto, o anche quelli che incontra da spettatore?

Credo che la recitazione sia una chiave per capire meglio noi stessi: arrivi spesso a comprendere cose personali incontrando un testo, una storia, un personaggio. Per arrivare a fare un lavoro sincero è importante fare i conti con la propria umanità.

La sua carriera la porta ad alternare il cinema, la serialità televisiva, il teatro. Proprio sul palcoscenico teatrale ha debuttato in questi giorni in “Moby Dick” di Herman Melville…

Un’esperienza meravigliosa. L’adattamento del testo è di Micaela Maino, la regia del bravissimo Guglielmo Ferro. Abbiamo debuttato a Sulmona, dall’1 al 13 aprile saremo al Teatro Quirino di Roma. A interpretare il capitano Achab è uno straordinario Moni Ovadia che dà al personaggio di Melville tutta la sua energia e il suo carisma…

Lei veste i panni di Starbuck…

… che di Achab è l’alter ego. Se il capitano del Pequod è ossessionato dalla vendetta nei confronti di Moby Dick, Starbuck, primo ufficiale della baleniera, è la voce della prudenza, della coscienza. Il romanzo di Melville è un’impresa biblica, in ogni capitolo ci si può perdere.

Le è capitato?

Più volte, e sempre con grande emozione. Nel capitolo “Delle raffigurazioni mostruose di balene” Melville racconta ad esempio come i pittori suoi contemporanei dipingono il leviatano nelle loro opere. Ecco, mi sono trovato a cercare su Internet i dipinti citati. È bellissimo pensare come un testo scritto a metà Ottocento susciti ancora oggi un tale entusiasmo.

Come è nata la sua passione per il teatro?

Mi è accaduto da ragazzino, a Palermo. Il figlio di colleghi dei miei genitori mi propose di unirmi al gruppo con cui faceva musical. Ero attratto da quel mondo, ci provai e lo trovai naturale. Da lì ho cominciato ad approfondire l’argomento: il musical mi ha portato alla recitazione, che a sua volta mi ha portato a Roma, dove sono entrato all’Accademia nazionale di arte drammatica.

Ha avuto le idee chiare da subito…

Ai tempi della maturità non è che fossi il migliore degli studenti, ma sapevo quello che avrei voluto fare dopo. Quando un commissario d’esame mi chiese del mio futuro, risposi che avrei fatto l’attore. Lo dissi in maniera onesta, pura. Proprio come quando chiedi a un bambino cosa voglia fare da grande e lui risponde: farò il pompiere (sorride).

Cosa dà la sua Sicilia al suo essere attore?

Un attore è un artigiano, un artista, e proprio come i pittori ha una serie di strumenti a disposizione. La tela, fatta di un certo materiale, il telaio, i colori. Credo che la provenienza di un artigiano, di un artista, sia tutto quello che ha da raccontare. In me ci sono i luoghi in cui sono cresciuto, c’è Palermo, una città di mare, di porto, accogliente, che si dona. Lì ho la mia famiglia, il legame è ancora fortissimo. E poi quando si è ancora figli il vincolo con la terra d’origine rimane forte. Immagino che un giorno anche mio figlio, che non ha ancora tre anni, farà i conti con le origini del suo papà.

 

Nel confronto-scontro tra essere e apparire come si pone?

Con il passare del tempo, crescendo, credo che si rinunci più facilmente ad apparire perché si ha il coraggio di essere. Ci sono alcuni momenti della vita dell’artista in cui ci si convince che si debba apparire in un certo modo per essere agli occhi degli altri. Credo che purtroppo, in questo ambiente, si cerchi di corrispondere a modelli imposti dall’epoca in cui viviamo. Per il pubblico è più facile riconoscersi in qualcosa che è convenzionale piuttosto che in qualcosa di sfaccettato, sincero. Conosco tanti artisti di cui ho grande stima che hanno scelto di tirarsi fuori dalle etichette, e questa cosa mi piace molto, mi dà fiducia, penso che se lo hanno fatto loro forse potrò farlo anche io.

Che rapporto ha con il suo pubblico?

Accolgo con gioia le dimostrazioni d’affetto, di stima. Succede anche ora con “Che Dio ci aiuti”. Lo vivo con gratitudine. Al pubblico dobbiamo tutto, anche se credo che ci sia una sorta di scambio che soprattutto il teatro ti consente di vivere. A ogni rappresentazione gli attori scrivono una nuova pagina insieme a chi siede in platea.

Cosa la diverte fuori dal set?

Non sono uno spiritosone e passo tanto tempo a pensare. Sto bene nelle situazioni che mi consentono di essere me stesso, mi diverte stare con mio figlio, con mia moglie. Quello che riguarda il mio privato è davvero semplice. Recentemente ho passato una bella giornata giocando a tennis con un amico a Palermo: da ragazzi eravamo forti, oggi le nostre prestazioni non sono le stesse. Mi diverte ripensare come eravamo (sorride).

Un sogno nel cassetto, da aprire magari tra qualche tempo…

Mi penso in teatro. Vorrei tanto tornare a fare un musical grande, magari originale. Quando le musica e le parole si uniscono, si fa un sunto di quella che è la mia esperienza.

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Ciao Maschio

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A confronto

Riapre il salotto televisivo di Nunzia De Girolamo, da sabato 5 aprile in seconda serata Rai 1

Dopo il successo delle prime cinque edizioni, Nunzia De Girolamo torna alla guida di Ciao Maschio. Nello studio che ha rappresentato il cuore pulsante delle stagioni precedenti, il viaggio attraverso l’universo maschile prosegue. In ogni puntata, tre ospiti – uomini diversi per esperienze e personalità – si racconteranno in un primo faccia a faccia con la conduttrice, partendo da tre aggettivi con cui scelgono di definirsi. Ogni episodio sarà incentrato su un tema principale, introdotto da Nunzia nel suo monologo iniziale. Da lì, il confronto si svilupperà tra leggerezza e profondità, ironia e introspezione, facendo emergere storie e punti di vista appartenenti a mondi e generazioni differenti. Il dialogo sarà arricchito da nuovi giochi in chiave psicologica, pensati per svelare lati inediti degli ospiti. Anche in questa edizione, Nunzia sarà l’unica donna a varcare la soglia dello studio. Accanto a lei, tornano Giovanni Angiolini e Maruska Starr, ai quali si aggiunge una nuova presenza: l’attore e comico napoletano Francesco Procopio. La grande novità di quest’anno è che il club notturno di Ciao Maschio si apre a esibizioni artistiche di talenti emergenti, provenienti dalla strada o dal mondo dei social. Il pubblico da casa sarà ancora più coinvolto: grazie all’hashtag #CiaoMaschio, potrà interagire in diretta e partecipare attivamente alla conversazione sui social. Inoltre, nel corso della settimana, speciali iniziative sveleranno gradualmente gli ospiti delle puntate successive.

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