Ninfa dormiente

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I CASI DI TERESA BATTAGLIA

Torna la serie interpretata da Elena Sofia Ricci tratta dal romanzo di Ilaria Tuti. Da lunedì 28 ottobre in 3 serate su Rai 1

Tra le montagne friulane della Val Resia, viene ritrovato il corpo della giovane poliziotta Marta Trevisan, apparentemente morta suicida con un colpo di pistola al cuore. Tuttavia, per il commissario Teresa Battaglia, qualcosa non quadra in questa morte; secondo lei, si tratta di un omicidio camuffato da suicidio. La giovane donna stava cercando la verità su suo padre, accusato di aver ucciso la sua amante Hanna, nativa proprio della Val Resia. Dopo aver dimostrato che Marta è stata effettivamente uccisa, il suo omicidio inizia a intrecciarsi, i fili di una tela, con un quadro perduto da tempo e con la scia di morte che sembra seguirlo. Marta era entrata in possesso della Ninfa Dormiente, un ritratto dipinto con sangue umano. La Ninfa ritrae il volto di una giovane donna il cui nome è andato perso. Teresa inizia a domandarsi quale sia l’anello mancante. Perché Marta aveva il ritratto di una donna uccisa nel 1945? Per quale segreto è stata uccisa? Lunedì 28 ottobre torna in prima serata su Rai 1 la serie “I casi di Teresa Battaglia”, interpretata da Elena Sofia Ricci, diretta da Kiko Rosati e tratta dai romanzi di Ilaria Tuti. «Girare la serie “Ninfa Dormiente” è stata un’esperienza che porterò sempre nel cuore – afferma il regista – Sin dall’inizio, ho avvertito un’enorme responsabilità nel trasporre sullo schermo l’intensa atmosfera e i personaggi complessi che Ilaria ha saputo creare. Lavorare con un cast di attori così talentuosi è stato un vero privilegio e una fonte inesauribile di ispirazione. Elena Sofia Ricci, con la sua straordinaria presenza scenica e la profondità emotiva, ha riportato sul set una magia unica. Ogni scena con lei si trasformava in un’esperienza emozionante, grazie alla sua capacità di immergersi completamente nel personaggio. La collaborazione con Elena ha alzato il livello ogni momento della serie, aggiungendo quel tocco di autenticità e pathos che solo un’attrice del suo calibro può offrire. Giuseppe Spata e Gianluca Gobbi hanno arricchito il progetto con le loro interpretazioni sincere e potenti».

I PERSONAGGI

TERESA BATTAGLIA (ELENA SOFIA RICCI)

Teresa Battaglia è una donna dall’acume sorprendente. È disinteressata all’amore, perché per amore molti anni prima è morta dentro, ma non per questo cinica e rabbiosa. Incurante del proprio aspetto, perennemente intabarrata nel giaccone imbottito, armatura che annulla e sfuma la sua femminilità ma solo nelle manifestazioni più esteriori. Perché, nonostante le apparenze, Teresa non ha perso la dolcezza, la sensibilità e la capacità di indagare con grande empatia. Teresa non è solo chiamata a combattere contro esseri umani, ma anche con un nemico insidioso: l’Alzheimer. La battaglia con questo avversario continua, perché Teresa, nomen omen, combatte sempre senza arrendersi mai.

MASSIMO MARINI (GIUSEPPE SPATA)

Giovane ispettore di origini siciliane, è l’ultimo arrivato nella squadra mobile di Udine. Ambizioso ma ingenuo, Marini è spesso vittima delle vessazioni di Teresa, che nonostante lo provochi, è la prima a scorgere il coraggio e il talento del giovane ispettore, così come la sua fragilità. Le continue angherie a cui lo sottopone altro non sono che il tentativo di metterlo alla prova, dargli la forza di superare i propri limiti, restituirgli i suoi insegnamenti e la sua esperienza. Potrebbe sembrare che Teresa lo odi, ma Marini ha capito che in realtà nutre per lui un affetto ruvido e sincero, che lui ricambia.

GIACOMO PARISI (GIANLUCA GOBBI)

Ispettore Capo, è l’ombra di Teresa da diciotto anni. Ovunque lei abbia prestato servizio, Parisi l’ha seguita. La conosce meglio di chiunque altro e, dietro a quel guscio coriaceo, sa riconoscere le ferite e le fragilità che l’hanno portata a essere la donna che è. Complice un carattere fermo e, al contempo, parecchio comprensivo, Parisi è l’unico che sappia davvero tenerle testa, capace di comunicare con lei anche solo con uno sguardo.

ALBERT LONA (FAUSTO MARIA SCIARAPPA)

Nuovo dirigente della Squadra Mobile e spina nel fianco di Teresa. Lona è l’opposto di Teresa in tutto: tanto lei è impulsiva e istintiva, quanto lui è rigido e rispettoso delle regole. È un uomo duro che ha messo la carriera al primo posto e si aspetta che tutti seguano i suoi ordini senza domande. Un carattere che non si sposa bene con quello ribelle di Teresa e che porterà ad aspri scontri tra i due. Ancor di più perché Lona e Teresa hanno un passato condiviso che ha segnato entrambi. Avversari costretti a lavorare insieme: riusciranno mai a trovare un punto d’incontro?

ALICE (MARIAL BAJMA-RIVA)

Capelli blu, smalto nero, giacca di pelle, Alice è l’ultimo elemento a unirsi alla squadra di Teresa Battaglia e sicuramente il più anomalo. È un’esperta di Human Remains Detection, ovvero il ritrovamento di resti umani e tracce biologiche. Lei e il suo fedele cane Smoky sono i migliori sul campo, ma Alice tiene un profilo basso, perché la HRD è un’attività non ancora riconosciuta dalla legge in Italia. La morte di Marta Trevisan la porterà a incrociare Teresa che non impiegherà molto a rendersi conto del potenziale della ragazza.

LA STORIA INIZIA COSI’

Nei boschi della Val Resia viene ritrovato il corpo di Marta Trevisan, giovane poliziotta apparentemente morta suicida. Il commissario Teresa Battaglia, grazie al suo infallibile intuito, scopre che in realtà si tratta di un omicidio. Teresa e i suoi fidati ispettori Giacomo Parisi e Massimo Marini mettono al setaccio la vita di Marta e scoprono che era entrata in possesso della Ninfa Dormiente, un misterioso quadro datato 1945 dipinto con sangue umano. A ostacolare Teresa arriva però Albert Lona, il nuovo dirigente con cui Teresa ha un conto in sospeso.

 

 

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Questione di stoffa

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Domenica 3 novembre, in prima serata Rai 1, un nuovo titolo della collection “Purché finisca bene”, una favola moderna, una sorta di Romeo e Giulietta in salsa curry con uno straordinario Kabir Bedi e il sorprendente Pierpaolo Spollon

Matteo è un giovane disegnatore che, in attesa di realizzare il sogno di pubblicare una graphic novel, è impegnato nell’attività di famiglia, la storica sartoria Mampresol, con suo padre Orlando e sua nonna Mina, orgogliosi e provetti artigiani. La cliente più importante è la stravagante Serena Ravagnin che, munita di bozzetti da trasformare in abiti, non fa che seminare ansia e dubbi sull’effettiva bellezza e originalità dei capi da loro confezionati. Per la sfilata che la proclamerà stilista deve essere, infatti, tutto più che perfetto. L’equilibrio familiare viene compromesso quando nella stessa strada apre una nuova sartori, la “Deepti’s Taylor”, di proprietà di una famiglia indiana: Dev, sua sorella Rani e lo zio Ramesh. Per la Mampresol comincia una diaspora dei loro più facoltosi clienti a favore degli indiani, ma il colpo di grazia arriva proprio dalla Ravagnin che, attratta dalle sgargianti stoffe esotiche, decide di affidare a loro i bozzetti per la sfilata. Orlando convince Matteo a infiltrarsi nelle linee nemiche per cercare di far fuori la concorrenza, ma presto il ragazzo scopre che i competitor non sono poi così diversi da loro, ma soprattutto che Rani gli fa battere il cuore! Orlando è tuttavia deciso ad andare fino in fondo e con l’inganno introduce un tappeto tarmato nella sartoria rivale, devastando i vestiti della Ravagnin ormai pronti per la sfilata. Riuscirà Matteo a risolvere i dissidi tra le due famiglie, riconquistare la fiducia di Rani e realizzare i propri sogni?

 

Kabir Bedi

“Gli attori cercano sempre ruoli interessanti, e questo è per me molto speciale. Questo film racconta una storia di italiani e di indiani, mi piacerebbe che arrivasse al pubblico un messaggio positivo, che la collaborazione è la soluzione migliore al conflitto. Per quaranta anni ho cercato, anche grazie al mio lavoro, i rapporti tra questi due popoli. Possiamo imparare tanto dagli altri, da chi è di un’altra cultura. La guerra non serve a nessuno”.

Pierpaolo Spollon

“È la prima volta che affronto un ruolo in cui devo usare la mia lingua, il veneto, e di girare in luoghi a me molto familiari. Sul set mi hanno utilizzato come insegnante! Per me un’emozione molto grande. Sulla sartoria, invece, non ne so proprio nulla… La sceneggiatura presenta molti punti di rottura che trovano una soluzione proprio nei sentimenti, nell’amore. Che dire di Kabir Bedi, è un essere umano che segna la strada per gli altri, è una persona eccezionale, un attore puntuale, disponibile, dotato di un rigore e di un’educazione che oggi stanno andando scemando e invece dobbiamo riappropriarcene. Poi ha questa voce pazzesca che viene dal cielo e dalla terra, c’è qualcosa di spirituale in lui che andrebbe indagato, ha una compostezza e una serenità invidiabili”.

 

Il regista Alessandro Angelini racconta…

«Le nostre vite sono come stoffe preziose. A volte si creano delle pieghe ma, con abilità e pazienza, è possibile sbrogliare, ricamare, tagliare qualcosa di nuovo e sorprendente, perché le stoffe, proprio come le nostre vite e i legami affettivi che le orientano, hanno bisogno di cura e attenzione per risplendere. Così parla il protagonista della nostra storia al termine del suo percorso di crescita, facendo emergere l’idea che è alla base del racconto; il sapersi trasformare, arricchendosi, attraverso l’incontro con l’altro. “Questione di stoffa” è una favola moderna, una sorta di Romeo e Giulietta in salsa curry, in cui l’amore tra il veneto Matteo e l’indiana Rani, sboccia inatteso nel bel mezzo della guerra tra le due famiglie d’origine. Da una parte i Mampresol, sarti da tre generazioni -dall’altra i Khumar – i cui antenati hanno vestito niente meno che Gandhi -impegnati a contendersi la realizzazione di una sfilata di moda. Chiaro che in gioco non c’è solo il lavoro ma molto di più; il prestigio delle due sartorie. Più le scorrettezze si susseguono, più i due giovani si avvicinano, scoprendosi simili e trovando la forza di liberarsi dai condizionamenti a loro imposti. Nello scambio di colpi, le due famiglie si ritroveranno sconfitte. A vincere non sarà la strategia di Orlando che invia suo figlio a dare lezioni di veneto alla ragazza con lo scopo di sabotare la sartoria indiana e isolarla dalla comunità, come pure inutili risulteranno gli antichi rimedi fatti di limone e peperoncino per “tenere lontane le energie negative” di Ramesh. A vincere, come in tutte le fiabe nel cui DNA si annida il potere magico del e…vissero felici e contenti, sarà l’unione.»

I PERSONAGGI

Matteo | Pierpaolo Spollon

Cresciuto con l’ingombrante padre e la saggia nonna, Matteo ha il sogno di disegnare graphic novel, ma il suo senso del dovere non gli dà il coraggio necessario per emanciparsi dall’impresa di famiglia. Sognatore e introverso, Matteo non è abituato a esprimere le sue emozioni, che preferisce affidare al disegno. Ha infatti, un autentico talento per riportare sulla carta l’anima delle persone, le loro bellezze nascoste e le loro comiche imperfezioni e questa sua dote non è passata inosservata a una nota casa editrice. Matteo non può accettare, però, la proposta di collaborazione perché, dopo la dolorosa morte di sua madre, non vorrebbe che il padre si sentisse nuovamente abbandonato, e poi ha una grande paura di fallire. In qualche modo si sente in colpa per non avere “la stoffa” e la volontà di prendere in mano le redini della sartoria, condannando l’azienda familiare a un futuro incerto. L’incontro con Rani sarà l’occasione per confrontarsi con qualcuno che apprezza sinceramente il suo talento e che, al contrario di lui e nonostante le aspettative familiari, ha avuto il coraggio di seguire la propria strada.

 

Rani | Beatrice Sandri

Dopo essere arrivata in Italia e aver studiato moda in Accademia, Rani ora lavora nella sartoria dello zio assieme a suo fratello. Come Matteo è animata da una grande passione: è lei ad aver avuto l’idea di portare in Italia i suoi ricami e le preziose stoffe indiane di cui è una fine conoscitrice. Anche per lei la famiglia vorrebbe qualcosa di diverso, per sua madre ormai è “una donna” e quindi è ora che pensi a sistemarsi, ma Rani è determinata a dare il massimo nel lavoro, proprio per dimostrare alla famiglia di essere ben consapevole di quali siano le giuste priorità per se stessa. Combattiva e tenace, sotto la scorza dura della ribelle e della commerciante, Rani nasconde un animo dolce e una sensibilità attenta, cosa che la avvicina moltissimo a Matteo…

 

Orlando| Nicola Pannelli

Sarto preciso e appassionato, Orlando all’apparenza può sembrare estremamente rigido, soprattutto nei confronti del figlio, a cui non riserva la stessa gentilezza e gli stessi sorrisi che invece rivolge ai clienti. Non riesce a capacitarsi di come Matteo rinunci a mettere il suo talento per il disegno al servizio della famiglia. Forse rivede in lui gli stessi slanci creativi della moglie che non c’è più e questo lo fa soffrire, perché nella sua vita da imprenditore di successo non c’è posto per nessuna debolezza o inquietudine. La verità è che Orlando è un uomo insicuro, con forti difficoltà ad accettare ogni cambiamento e per questo ha bisogno del sostegno di suo figlio e di sua madre Mina, il vero caposaldo dell’impresa di famiglia…

 

Nonna Mina | Licia Navarrini

Autentica dispensatrice di perle di saggezza, è il punto di riferimento principale della Sartoria Mampresol. Ha visto crescere molti dei suoi attuali clienti, che tratta con benevolenza materna. Dalla mente vispa e curiosa, Mina cerca di mitigare il carattere burbero del figlio. Estremamente paziente e precisa, ha nelle mani un

mestiere antico e prezioso, ma nonostante l’età e l’esperienza è sempre curiosa di imparare qualcosa di nuovo. All’apertura del negozio “concorrente”, cercherà di dissuadere il figlio dalle operazioni di boicottaggio, sapendo che la questione del futuro della loro azienda è ben aldilà di quella competizione…

 

Zio Ramesh| Kabir Bedi

Nonostante gli anni passati in Italia, Ramesh è rimasto molto legato alle proprie tradizioni religiose e culturali, di cui va orgoglioso. È un pacifista, non apprezza, né incentiva, la competizione che Dev ingaggia con la Sartoria Mampresol e cerca sempre di mediare e di placare gli animi. È un vero saggio, le sue massime sono sempre illuminanti e, al contrario di Orlando, considera ogni cambiamento una fonte di sfida e arricchimento. Ama infinitamente i suoi nipoti, soprattutto Rani, di cui sa cogliere il lato emotivo e sensibile e a cui fa spesso da tenero consigliere. Ha una particolare inclinazione anche per nonna Mina, che vede simile a lui nel ruolo di capofamiglia e di guida illuminata dell’impresa.

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Nudes 2

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La “pornografia non consensuale” sembra un problema lontano dal nostro vissuto quotidiano. E se così non fosse? Questo ha raccontato la prima stagione della serie, affrontando il revenge porn come piaga nella vita di tre adolescenti. Ma si potrebbe andare avanti parlando di sextortion, diffamazione, trattamento illecito di dati… perché purtroppo il fenomeno è tanto diffuso quanto variegato. Dal 25 ottobre su RaiPlay

 

LA SERIE

Tre storie sul revenge porn vissute da adulti e adolescenti inconsapevoli di come sesso e intimità nascondano oggi bombe a orologeria virtuali destinate a stravolgere la nostra vita reale. La prima stagione di “Nudes” ha trasmesso con successo un messaggio importante, affrontando il tema del revenge porn nella vita di tre adolescenti. Purtroppo, però, il fenomeno non si limita ai teenager. Una promessa dello sport, un professore stimato, una professionista in carriera della media borghesia. Un’adolescente dipendente dal proprio allenatore, un padre vedovo, una mamma LGBTQ+. Persone che improvvisamente vedono le proprie vite mandate in crisi dalla diffusione non consensuale di materiale intimo. Foto e video che dovrebbero rimanere nella sfera privata e personale, ma che si trasformano in un attimo in pubbliche gogne. Così le vittime e i carnefici di queste storie sono costretti a confrontarsi con le conseguenze del revenge porn e della sextorsion che, oltre a problemi sul piano lavorativo e sociale, avrà il suo massimo contraccolpo all’interno della famiglia, acuendo i già difficili rapporti tra genitori e figli adolescenti. Uomini, donne, padri, madri e figli scopriranno le proprie fragilità e metteranno a nudo la pochezza psicologica di chi usa il ricatto intimo per cercare di riempire il proprio vuoto interiore, che sia per meri fini economici o per l’incapacità di affrontare paure e conflitti. Perché trasformare amore, affetto e passione in terrore, colpa ed emarginazione è uno dei più grandi crimini dell’anima della nostra epoca.

 

I registi

LAURA LUCHETTI

Ritorniamo al Revenge Porn con la seconda stagione di Nudes e lo facciamo allargando l’orizzonte al mondo degli adulti. Le ripercussioni, la paura, il dolore e la responsabilità legata ad un fenomeno diffuso e oscuro come quello in questione. Mentre nella prima stagione vittime e carnefici erano gli adolescenti, con la loro incapacità di prevedere le conseguenze delle loro azioni, la loro impulsività e inesperienza, in questa stagione sono gli adulti a portare in scena le proprie fragilità, ingenuità, scarsa educazione sentimentale e spesso solitudine. Nel caso “Silvia ed Emilio”, ponte fra il mondo adolescenziale della prima stagione e quello adulto della seconda, il Revenge Porn si manifesta nel mondo sportivo, che ha regole ferree, pressioni psicologiche ed aspettative così pesanti da spingere i nostri personaggi ad avere comportamenti di cui poi si vergogneranno capendo una lezione molto importante. L’agonismo del mondo della scherma diventa teatro di una storia fra una giovane schermitrice e il suo maestro. Le gare, la competitività, gli affetti e le paure dei protagonisti raccontano molto di più del mondo sportivo messo in scena. Lo sport diventa metafora dei rapporti umani, fra adulti e ragazzi, genitori e figli, allenatori e allievi. Raccontiamo di tutti quei ragazzi spinti dalle famiglie a vincere a tutti i costi, e dei loro genitori che, con le proprie aspettative, spesso sono ignari dei danni che causano ai figli.

 

MARCO DANIELI

Il revenge porn è un abisso in cui sprofondano sempre più adulti come Luca, il professore interpretato da Fortunato Cerlino, o Michela, l’architetta interpretata da Lucia Mascino. Nell’episodio “Luca e Giacomo” si racconta la storia di un padre e di un figlio, su entrambi dei quali grava come un macigno la perdita prematura di Luisa, moglie di Luca e madre del ragazzo. Il dolore ha allontanato i due protagonisti e li ha spinti a cercare dei modi per lenirlo: il padre con il sexting, il figlio con le droghe.  La trappola sentimentale in cui cade Luca fa deflagrare i conflitti con il ragazzo. Ma poi, pian piano, entrambi capiranno che solo alleandosi potranno cercare una via d’uscita dall’incubo che stanno vivendo. Arrivare a toccare il fondo gli permetterà di guardarsi negli occhi senza pregiudizio e di provare di nuovo empatia l’uno per l’altro. Nella storia, invece, di Michela e Francesca proponiamo un family (al centro una famiglia queer) che si tinge di giallo e che porterà la protagonista ad affrontare, suo malgrado, un’indagine interiore profonda. Michela è una donna solare, energica e volitiva. Ha fatto scelte coraggiose e complesse nella sua vita. Su tutte aver sfidato le convenzioni separandosi dal marito, il padre delle sue figlie, per una donna con la quale convive. Ma la scena di apertura, una cena con amici e famigliari, ci racconta come Michela sia una donna forte che non teme di confrontarsi con il passato ma cerca di dialogarci e di non rinnegarlo. Ma è proprio da quel passato che arriva il video che rischierà di far esplodere il suo universo affettivo e professionale. A poco a poco Michela comincerà a dubitare di tutte le persone che la circondano. E alla fine anche di se stessa.

 

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Un romanzo gotico, omaggio agli anni ‘70

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“Il segno del comando” è il nuovo romanzo della collana di Rai Libri dedicata ad alcuni tra gli sceneggiati storici più amati. Personaggi, ambientazione e schema dell’omonima serie televisiva del 1971, saranno arricchiti da ribelli e cospiratori, cultori dell’esoterismo vecchi e nuovi e veri e falsi, alchimisti e streghe e da un finale tutto nuovo. In libreria e negli store digitali dal 30 ottobre, 1° novembre il romanzo sarà presentato ufficialmente al “Lucca Comics & Games 2024”

 

Questo romanzo si ispira a “Il segno del comando”, uno degli sceneggiati più belli e più amati prodotti dalla Rai nel 1971. Come nasce?

Questa idea nasce da una chiacchierata con Roberto Genovesi, direttore di Rai Libri, sul fatto che ci siano state nel passato della Rai delle produzioni che sono veramente diventate culto fra gli sceneggiati e che non soltanto hanno affascinato i telespettatori di allora, ma anche generazioni di persone le hanno viste in dvd, oppure che se le vanno a cercare su Rai Play. Fra queste io sono sempre stata particolarmente legata a “Il segno del comando”, da quando lo vidi quattordicenne per la prima volta, perché sono una scrittrice e studiosa di letteratura fantastica e ho trovato straordinario che fosse stata proprio la Rai a tentare il primo esperimento di sceneggiato gotico nel momento del suo massimo fulgore. E da lì è nata l’idea di raccontare quella storia in un altro modo  sia alle persone che conoscono lo sceneggiato, sia a quelle che invece non lo hanno mai visto e che magari chissà a questo punto lo vedranno. Detto questo, il romanzo è fedele alla vicenda, ma è completamente autonomo.

 

Quindi quella che leggiamo è un’altra storia…

È una storia simile, perché dentro ci sono tutti i personaggi dello sceneggiato. C’è il professor Forster, c’è George Powell, e ci sono altri.  Ma è anche una storia molto diversa. L’ambientazione è la stessa ma con qualche elemento logistico in più. L’anno è sempre il 1971, però io ho aggiunto molte cose. I personaggi sono di più, ci sono molte donne che aprono ogni capitolo, personaggi che nello sceneggiato erano marginali, come la portiera, oppure personaggi completamente nuovi, come Morgana, che Foster incontra a Campo dei Fiori, una delle piazze che stranamente non c’era nello sceneggiato e che io ho inserito.

Il racconto è un’avventura che assume tinte sempre più misteriose…

Sì. Tanto che ho inserito gli alchimisti, perché Roma ne è stata sempre piena, dai tempi della Regina Cristina di Svezia che ha sempre attirato a sé tutta questa serie di studiosi, di ricercatori, di maghi, si possono chiamare in molti modi. L’altro elemento che ho inserito nel romanzo, sono gli occultisti filo-nazisti, perché il nazismo ha avuto un forte interesse esoterico. Mi sembrava il modo giusto per raccontare questa storia, cioè ampliarla, immaginare altre derivazioni, naturalmente immaginare anche un altro finale e dare un’altra identità alla misteriosa Lucia, che ovviamente si scoprirà solo alla fine.

Questo libro è un omaggio. A chi?

Alla capacità di inventare, agli autori dello sceneggiato, a Giuseppe D’Agata, a Daniele D’Anza e a quelli che sono riusciti a realizzare una storia di quel tipo in anni in cui era veramente difficile immaginarla. Un omaggio agli anni ‘70, perché quello era l’inizio di un decennio che viene raccontato solo come terribile.

Qual è la vera essenza della realtà?

Quella delle storie, perché “Il segno del comando” è soprattutto una grande, meravigliosa storia, e le storie spesso raccontano altri tipi di realtà, quella che non si vede, non si tocca, ed è forse una realtà che abbiamo bisogno di sentirci raccontare di nuovo, perché raccontare solo di se stessi o raccontare solo di ciò che si vede e si tocca, come direbbe il professor Forster, forse non ci porta molto lontani, forse abbiamo bisogno proprio di questo tipo di reincanto.

Ha scritto diversi romanzi e racconti gotici. Perché questo genere?

Mi appartiene tutto di quel genere, sia da lettrice, che da scrittrice, che da insegnante di letteratura fantastica. Sono sempre stata convinta che respingere il fantastico e il gotico in particolare, in favore del realismo, sia stato molto miope. Tra l’altro è una cosa molto italiana, in altri paesi non avviene, perché il gotico è in grado di raccontare, forse con forza addirittura maggiore rispetto al realismo, qual è lo spirito del tempo.

Scrittrice, giornalista, conduttrice radiofonica, insegnante. Cosa c’è di tutto questo ne “Il segno del comando”?

Un po’ tutto. Ci sono io anche se non appaio e c’è lo sguardo di una ragazzina che a 14 anni cominciava a capire che stava arrivando un tempo dove molte possibilità potevano avverarsi. Diciamo che in parte si sono avverate e molte altre no, purtroppo. Questa storia si avvicina molto di più alla me che mi piace di più.

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Giuseppe Battiston

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Fine osservatore delle debolezze umane

«Quando andiamo in giro per lavoro noi attori cerchiamo sempre di portarci qualcosa che ci ricordi casa…  Quello che però non deve mai mancare, ovunque io vada, è la curiosità» racconta l’attore al RadiocorriereTv e, a proposito del suo “Stucky” dice: «Studia profondamente le persone e le loro debolezze, fatica a giudicare i colpevoli, ma li inchioda, perché è determinato a capire cosa ci sia dietro all’agire umano». Da mercoledì 30 ottobre in prima serata Rai 2

Un ispettore che le è rimasto proprio nel cuore, non è la prima volta che lo incontra…

Il mio incontro con Stucky è avvenuto dal film di Antonio Padovan, “Finché c’è prosecco c’è speranza”, un’opera prima tratta dall’omonimo romanzo di Fulvio Ervas. Il film ha avuto un’ottima accoglienza e mi ha lasciato un ricordo davvero molto bello, è stata una piacevole esperienza, soprattutto l’incontro con questo personaggio che mi è rimasto nel cuore. Ho pensato subito di acquisire i diritti dei romanzi di Fulvio, un desiderio che si è trasformato in realtà grazie alla Rai. La serie è nata così e, anche se mi sono portato dietro un po’ di quella vita, la scrittura è andata, piano piano, in direzioni diverse rispetto a quelle narrate da Ervas nei suoi romanzi. Abbiamo mantenuto il cuore di quella figura e, naturalmente, le ambientazioni.

A proposito di “ambiente”, il sindaco di Treviso, parlando appunto della città, ha detto di voler “candidare” Treviso a diventare la Vigata di Stucky”…

Per comprendere Stucky e il suo mondo non possiamo fare a meno del luogo dove tutto accade. È un uomo profondamente calato nella città, la vive appieno, lo vediamo camminare senza sosta per le strade di Treviso, di mattina presto, di notte fonda elucubrando intorno ai suoi casi. È un solitario, ma non solo, frequenta l’Osteria di Secondo (interpretato da Diego Ribolla) per confrontarsi con il suo amico, è qui che si rifugia per riflettere, pensare, ascoltare e guardare, a trarre ispirazione. È in ambienti come questi, così particolari ed estremamente affascinanti da raccontare, che si trova la vita, la gente li frequenta per incontrarsi o scontrarsi, per festeggiare o amareggiarsi, è qui che si beve per dimenticare o per festeggiare, c’è continuamente ricambio di umanità. Per me questo è uno degli aspetti più interessanti di questo racconto, per questo commissario non c’è una questura, ma l’osteria dove scorre la vita.

Cosa l’ha conquistata della scrittura di Fulvio Ervas?

Personaggio e storie, ovviamente, e poi le connotazioni sono particolarmente interessanti. Ambientare dei gialli, creare situazioni in cui ci siano degli omicidi da risolvere in una città come Treviso, così tranquilla, elegante, pulita, tersa… è davvero un bel contrasto. Io l’ho trovata una cosa molto nuova, abbastanza inedita.

Come possiamo presentare Stucky al nostro pubblico?

È un ispettore capo della Polizia che affronta e risolve i casi in maniera abbastanza solitaria, ha due giovani poliziotti come assistenti (interpretati da Laura Cravedi e da Alessio Praticò), che lo scarrozzano in giro per la città, perché lui non ha la patente, non ha il telefono, è completamente asocial e questi colleghi forniscono supporto logistico e molto altro (ride).  Non è esattamente una squadra, ma sono spesso al fianco di Stucky, che non è un uomo d’azione, non lo vediamo fare inseguimenti, non brandisce armi – nemmeno le porta -, e nella ricerca dei colpevoli è mosso da una grandissima curiosità verso il prossimo. È affascinato dalle persone, vuole conoscere a fondo il contesto che ruota intorno alle vittime. Oltre ai due fedelissimi e all’amico Secondo, ha un rapporto “particolare” con Marina, un medico legale (interpretato da Barbora Bobulova) che ha una sua vita professionale e personale ben avviata, con la quale però l’ispettore ama confrontarsi sia dal punto di vista professionale – la cerca spesso per avere lumi tecnici finalizzati alle indagini -, sia umano. Insieme si trovano molto a loro agio, c’è quella che una volta si chiamava una “corrispondenza”, non proprio di amorosi sensi, ma una sintonia intellettiva e intellettuale molto bella.

L’osservazione attenta di Stucky della gente e degli ambienti rievoca lo studio maniacale della condizione umana di Balzac…

… io scomoderei anche Simenon, maestro nella descrizione dei caratteri, di cui che anche Stucky è affascinato. Studia profondamente le persone e le loro debolezze, fatica a giudicare i colpevoli, ma li inchioda, perché è determinato a capire cosa ci sia dietro all’agire umano. C’è però qualcosa che lo fa terribilmente soffrire, i suicidi, non comprende questi atti violenti, contro i quali non si può nulla. E questo lo manda fuori di testa, genera in lui un senso di impotenza che lo disorienta moltissimo.

Pensare fuori dagli schemi, un atteggiamento che stride con la contemporaneità…

È un uomo decisamente fuori dal tempo attuale, ma non fuori dal tempo, nel senso che parlare con le persone adesso sta diventando una cosa addirittura snob, ma è quello che si deve fare. Per conoscere il mondo ci si deve calare in questo, stare tra le persone che lo popolano, da questo punto di vista Stucky è fuori dagli schemi, ma non credo sia un’attitudine che potremmo definire “retrò”, al contrario lo trovo estremamente vitale, e proprio per questo mi piacerebbe che questa serie affascinasse, riuscisse a incuriosire anche il pubblico giovane.

A proposito del suo rapporto con la tecnologia e con i social disse: “La gente preferisco incontrarla a teatro”. Cosa le comunica il pubblico?

Intanto la voglia di partecipare, di essere compresente ad altri a un evento, in quest’epoca è un atto quasi rivoluzionario. Il pubblico che viene a teatro sceglie di confrontarsi con un’esperienza, che avviene lì e in quel momento e che si spera possa portare a una riflessione. Dopo il covid il teatro è ripartito con proposte solo di puro intrattenimento perché, dopo quel momento così buio, la gente voleva ridere, ora, spero, abbia anche ritrovato il desiderio di pensare. Non sono un bacchettone, detesto le tragedie, ma allo stesso modo mi imbarazzano progetti realizzati solo per far ridere di pancia e non di testa. Credo che il mix giusto sia far sì che le persone si portino a casa un sorriso, ma anche una riflessione.

Un po’ più complesso il discorso per le sale cinematografiche…

In questo settore la situazione è drammatica, per uscire dall’angolo si deve cominciare a recuperare la voglia di socialità e comprendere che un film visto in una sala, insieme ad altre persone, non è il fastidio di vestirsi e di uscire, ma è un’occasione di incontro. Il cinema va visto nel suo luogo, perché ha una dimensione completamente diversa dal salotto di casa, dalle distrazioni che l’ambiente domestico dà durante la visione, dal fatto che non riesci a lasciarti veramente andare, che puoi fermarti e riprendere la visione quando vuoi. Il cinema dovrebbe essere una decisione, non un passatempo perché non si ha niente di meglio da fare. C’è così tanta serialità in questo momento che una persona può passare la vita chiusa in casa, perdendo, però, qualcosa di più importante. Dopodiché, è anche nostro dovere fare proposte coinvolgenti e, se è vero che siamo in un momento di crisi, amo ricordare che c’è stato il film di Paola Cortellesi che di italiani in sala ne ha portati tanti. Il mio desiderio è che non sia un caso isolato, ma che la gente ritrovi il gusto di seguire delle storie in un luogo che appartiene al cinema e agli spettatori, se perdiamo il cinema, perdiamo una fetta di vita importantissima.

A proposito di teatro, è in viaggio per l’Italia con Sergeji Dovlatov e “La Valiga” … di cosa si tratta?

È uno spettacolo a cui tengo particolarmente, amo moltissimo l’autore, di cui ho letto quasi tutti i suoi romanzi, lo trovo meraviglioso, divertente, malinconico come soltanto certi grandi scrittori russi sanno essere. È la trasposizione teatrale di un insieme di racconti di natura autobiografica (fatta con Paola Rota, che ha curato anche la regia) nella quale l’autore, emigrato negli Stati Uniti alla fine degli anni ’80, ritrova in fondo a un armadio la sua vecchia valigia di cartone con la quale era partito; aprendola, riaffiorano ben trentasei anni di ricordi di vita in una Unione Sovietica folle, squinternata, tremenda, per lui, però, terribilmente vitale. Si crea un contrasto tra quella forma di libertà, che pensava di trovare negli Stati Uniti, ma che invece lui ritiene addirittura più coercitiva del regime sovietico, e la poesia, la bellezza delle figure che hanno popolato la sua giovinezza. Sono tutti i ricordi di un uomo che, lasciata la sua terra, sapeva che non sarebbe mai più ritornato in patria, c’è, quindi, un sentimento vagamente nostalgico, non certo per il regime comunista, ma per una vita che, anche all’interno di quella gabbia, lasciava spazio alla “follia”.

Cosa metterebbe nella sua personale di attore?

Quando andiamo in giro per lavoro noi attori cerchiamo sempre di portarci qualcosa che ci ricordi casa, anche se spesso ho delle valigie di cose che non uso (ride). Quello che però non deve mai mancare, ovunque io vada, è la curiosità, soprattutto se parliamo di viaggi teatrali, quella per i luoghi che vado a visitare. Siamo tutti diversi noi italiani ed è diverso il pubblico, così come la fruizione degli spettacoli nelle varie zone d’Italia, e non dobbiamo dimenticarlo. È affascinante capire quale tipo di dialogo si stabilisce allora con la gente che incontri, condividere le emozioni di una calorosissima accoglienza da parte del pubblico, che commuove ogni volta perché non è mai scontata.

L’interesse per la gente, è un po’ Stucky anche Battiston…

Credo che siamo tutti, si tratta solo di trovare il coraggio di mettere il naso fuori di casa. Questa è la grande sfida.

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LA PORTA MAGICA

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Il coraggio di cambiare

Alle cinque del pomeriggio su Rai 2 per raccontare le storie e le emozioni della gente comune: una finestra sull’Italia e sugli italiani che la conduttrice vive con grande entusiasmo: «Un progetto ambizioso quasi da prima serata e che noi, invece, facciamo tutti i giorni». E ancora: «Io sono le storie delle persone che ho incontrato. Ascolto tantissimo, ho imparato molto dagli altri»

 

Sin dalle prime puntate l’abbiamo vista a proprio agio, un incontro azzeccato quello con “La porta magica”…

Mi sono innamorata del format dopo averne visto dei pezzi in passato. Ora, rimaneggiato in Italia, “La porta magica” ha un potenziale enorme, spero di essere all’altezza di quel potenziale (sorride).

Al termine della prima settimana di messa in onda la mission del programma appare chiara.

Dobbiamo cercare di fare divertire dando una speranza, che nella vita può essere ovunque. Dietro l’angolo, in un bar, dallo psicologo, al supermercato, in un programma televisivo, vogliamo essere un luogo in più in cui puoi trovare una scintilla.

In quali mondi ci porteranno i protagonisti del programma? Quali storie avete scelto?

Ci sono storie leggere che possono rappresentare tanti di noi. Nel corso della prima settimana abbiamo incontrato una signora che dopo quarant’anni ha ritrovato sulla sua strada quello che fu il suo primo fidanzatino e tra loro è rinata una relazione. Un tempo andavano in giro in moto, cosa di cui lei però oggi ha paura, e per questo motivo ci ha chiesto di insegnarle di nuovo a salire su una motocicletta, per potere fare una sorpresa al suo compagno. Ci sono poi storie più profonde, come quella di una mamma che ha un figlio con uno spettro autistico, ragazzo che ama follemente il racconto e la scoperta dei luoghi storici. Fino a ora è sempre andato in giro accompagnato, ma a breve sarà maggiorenne e potrà farlo da solo. È stato un nostro coach a seguirlo per la prima volta tra i monumenti di Torino dandogli importanti consigli. L’emozione è stata molto grande per la mamma, il figlio e tutti noi.

C’è un tratto che accomuna queste storie e queste vite?

Il fatto di non essersi arresi. L’averci scritto, anche se in modo spensierato, vuol dire che vuoi ancora provarci. Quindi c’è ancora la possibilità. Il non arrendersi è sempre stato il motto della mia vita. Anche per questo ho accettato il programma, che è una sfida complicata, che ha un orario di messa in onda difficile. Un progetto ambizioso quasi da prima serata e che noi, invece, facciamo tutti i giorni.

Che rapporto ha con il cambiamento?

Ne sono sempre incuriosita. Personalmente ho capito che stavo cambiando verso i quarant’anni. Ora sono in piena conoscenza di me stessa, è come vivere con una persona nuova ogni giorno, e mi va bene. È chiaro, vorrei avere la resistenza fisica di quando avevo vent’anni, quando dormivo una notte su tre, ma questa è un’altra cosa (sorride).

Un cambiamento che può riguardare anche il nostro aspetto estetico…

Siamo finalmente in un contesto storico in cui possiamo essere rappresentati veramente da noi stessi ed essere quello che vogliamo, vestirci come vogliamo, piacerci. A volte ci sono persone che sono bloccate, perché pensano di dovere interpretare dei personaggi per essere accettate. Ma è importante cercare di andare oltre. Saper accettare il cambiamento significa anche saperlo accompagnare. Penso ad esempio a quando una donna viene operata di tumore al seno e deve fare terapie che la portano spesso a perdere i capelli. Un momento molto difficile. Ecco, ci sono molti ospedali che hanno sezioni che preparano parrucche, ti insegnano a tenerla, a scegliere i colori, a truccarti il viso.

È possibile trasformare la nostra vita senza perdere di vista ciò che siamo e siamo stati?

Una domanda complessa. Sono molto legata al mio passato, di cui vado fiera. Sono fiera anche delle persone che mi hanno cresciuta, che ho incontrato nel corso della mia vita. È tutto molto dentro di me. Ma a volte hai bisogno di sapere che non sei solo le tue radici, sei tu.

Nel corso degli anni tra radio e televisione ha raccontato e incontrato tantissime storie e altrettante persone, come hanno influito su ciò che è lei oggi?

Totalmente, io sono le storie delle persone che ho incontrato. Ascolto tantissimo, ho imparato molto dagli altri. Ci sono persone che hanno sbagliato al posto mio, al posto nostro. Abbiamo imparato dai loro errori senza doverli fare di nuovo. È un lusso che abbiamo tutti, se riusciamo ad ascoltare ci mettiamo in una posizione di vantaggio.

Chi è Andrea oggi?

Una donna di 42 anni in piena trasformazione, felice di quello che sta facendo. Pronta a cadere, a rialzarsi, a vedere come vanno le cose.

Questo è sufficiente per definirla una donna felice?

Sì. Se penso al punto da dove sono partita, un’adolescente in cerca di se stessa, sicuramente.

Ha dato sempre grande importanza alle parole, ce n’è una che racconta più di altre il suo oggi?

Potrebbe essere indipendenza. Indipendenza da tutto. Non parlo di quella adolescenziale, ma di quella vera. Oggi sono me stessa, forte di quello che ho costruito.

L’indipendenza è cosa faticosa…

Arrivarci sì (sorride), in quanto a tenerla sta andando bene. Chissà quanto durerà, spero per sempre.

Cosa rappresenta per lei la Rai?

La Rai per me è casa. Ci sono arrivata dopo tanti anni di gavetta, mi ha accolta e mi ha dato la possibilità di crescere. E questa è un’occasione che poche persone riescono ad avere, se penso a quante vogliono fare il mio lavoro in Italia.  Sono molto grata di quello che è successo. La radio mi ha dato anche la certezza di non essere solo un’immagine. A volte ti viene il dubbio. Quando passi dalla radio capisci se questo lavoro lo sai fare.

Il suo augurio al Servizio Pubblico?

Di stare sul futuro, che sia ancora più fruibile da parte di tutti anche attraverso le nuove tecnologie.

 

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Apulia Digital Experience

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Dal 25 al 27 ottobre l’Apulia Film House di Bari ospiterà la Conferenza internazionale sull’innovazione digitale nelle industrie creative. L’intelligenza artificiale, i contenuti immersivi, gli sviluppi del metaverso saranno al centro della tre giorni organizzata da Rai Com e Apulia Film Commission e finanziata dalla Regione Puglia

Al via la seconda edizione di ADE, Apulia Digital Experience, Conferenza Internazionale che si svolgerà a Bari dal 25 al 27 ottobre all’Apulia Film House (Fiera del Levante). Tre giorni di panel, tavole rotonde e contest, dedicati all’innovazione digitale nelle industrie creative e al ruolo dell’Intelligenza Artificiale nel processo produttivo di cinema e audiovisivo.

«Si apre la seconda edizione di Apulia Digital Experience, un appuntamento fortemente voluto da Apulia Film Commission a partire dal 2023 – afferma Anna Maria Tosto, Presidente di Apulia Film Commission – Ancora una volta, lo sguardo lungimirante assunto fin dalla sua costituzione, dalla Fondazione, la porta a intraprendere iniziative destinate ad individuare anticipatamente le esigenze del mondo produttivo dell’audiovisivo e a ricercare le soluzioni per soddisfare quelle esigenze. L’avvento dell’IA nel sistema produttivo comporta ricadute specifiche, proprie del settore dell’audiovisivo: ad esse vuole guardare ADE per esplorarne ogni potenzialità e, al tempo stesso, per disinnescarne eventuali rischi comportanti effetti negativi sullo sviluppo e la crescita di quanti si muovono in quel settore. Resettare il sistema esistente per governare il nuovo: questa la sfida che ci attende e questa la finalità’ di un evento immaginato da AfC e Rai Com. Il successo conseguito da ADE lo scorso anno rappresenta la conferma che si è intercettata una domanda importante delle produzioni e che occorre proseguire con questo appuntamento destinato al confronto, alla ricerca ed all’aggiornamento».

 «Dopo la positiva esperienza dello scorso anno, la seconda edizione di ADE rappresenta un ulteriore passo avanti, in qualità e impegno, per focalizzare l’attenzione sul futuro dell’industria cinematografica e audiovisiva, di fronte alla rivoluzione dell’introduzione di tecnologie digitali rivoluzionarie – dice Roberto Genovesi, Direttore Artistico di ADE e Direttore del settore Progetti Speciali di Rai Com –  L’Intelligenza Artificiale e il metaverso stanno ridefinendo le modalità di creazione, produzione e fruizione dei contenuti, offrendo nuove opportunità e sfide. Questa conferenza internazionale mira a esplorare come l’innovazione tecnologica stia trasformando il settore, portando la creatività a un nuovo livello. Siamo orgogliosi di riunire esperti e professionisti da tutto il mondo per discutere e plasmare il futuro delle industrie creative».

Preview di Apulia Digital Experience giovedì 24 ottobre alle 20.30 al cinema Galleria Multisala di Bari con l’anteprima del film d’animazione “Flow – Un mondo da salvare” che, dopo i consensi ottenuti ai festival di Cannes e di Annecy, è in corsa per l’Oscar. La proiezione sarà aperta al pubblico e gratuita fino a esaurimento posti. Molti i panel in programma sul palco dell’Apulia Film House da venerdì 25 ottobre, da Evolving landscapes: is technology nurturing vreativity?, con l’analisi degli scenari digitali connessi agli universi della creatività ad AI in Film & Audiovisual, sulle opportunità e sulle sfide create dall’Intelligenza Artificiale. E ancora Movies in the Metaverse, Metaverse in the Movie theatre, su come i luoghi tradizionali del cinema si stanno adattando al cambiamento aprendosi a esperienze virtuali e The AI Act: Implications for the Film And Audiovisual industry, con uno sguardo alla regolamentazione, alle sfide future e alle recenti introduzioni nel sistema italiano di incentivi fiscali al settore. Attesa la rotonda Building Global IPs, dedicata allo sviluppo delle IP di successo in universi multipiattaforma, i panel Building immersive storytelling: Vr, Ar & Metaverse sull’impatto delle tecnologie immersive sulla narrazione; Virtual production for Film and Audiovisual, dagli effetti visivi in real-time agli ambienti digitali, passando per la motion capture; Digital transformations: the new frontier of content sull’adattamento e sull’evoluzione del contenuto nell’era digitale; Technological advancement in Animation and Vfx sull’ottimizzazione dei processi e lo scouting di talenti, e ancora incontri sugli scenari digitali connessi agli universi della creatività, su come le innovazioni digitali stiano  rimodellando il licensing e creino nuovi business per l’industria, sull’impatto delle tecnologie immersive sulla narrazione.

Ad Apulia Digital Experience anche i contest Digital licensing excellence awards, primo premio a livello globale che celebra i progetti di licensing digitale, e A visual storytelling of Puglia through AI, che promuove l’applicazione dell’Intelligenza Artificiale per creare e produrre racconti innovativi sulle bellezze geografiche e sul patrimonio culturale.

Tra gli ospiti che prenderanno parte ai lavori di ADE Derrick De Kerckhove, Maria Pia Rossignaud, Gennaro Coppola CEO One More Pictures and Vice President Unione Editori e Creators Digitali ANICA, Marina Lanfranconi, Principal of KPMG Intellectual Property, Media and Technology Practice, Diego Grammatico Business Development Executive, Games London, Daniele Lunazzi, Head of Product Marketing, Juventus Football Club, Omar Rashid, Immersive Film Director, Nicola Di Meo, CEO Unspace, Marco Lanzarone, Director of Digital Radio and Podcast Rai, Antonio Parente, Direttore Apulia Film Commission, Paola Furiosi, Director, PwC Legal, Euclide Della Vista, Presidente Fondazione ITS Apulia Digital Maker, Steve Manners, Licensing International UK, Alessia Auriemma, Metaverse Manager, PwC Italy.

Promosso da Rai e realizzato sotto la Direzione Artistica di Roberto Genovesi, Direttore del settore Progetti Speciali di Rai Com, Apulia Digital Experience è un evento organizzato da Rai Com e Apulia Film Commission e finanziato dalla Regione Puglia, nell’ambito dell’intervento “Promuovere il Cinema 2024” a valere su risorse POC Puglia 2014-2020, Azione 6.7.

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BINARIO 2

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Il buongiorno tra la gente

Carolina Di Domenico, Andrea Perroni e Gianluca Semprini conducono il nuovo people show del mattino in diretta dalla Stazione Tiburtina di Roma. Dal 21 ottobre, dal lunedì al venerdì, dalle 7.15 alle 8.15 su Rai 2

 

Giù dal letto al mattino… con il piede destro o il sinistro?

ANDREA: Con entrambi i piedi, perché se uno cede l’altro sostiene (sorride).

CAROLINA: Oddio! Entrambi… forse… non ci ho mai fatto caso, soprattutto alle cinque del mattino.

GIANLUCA: Dal lato in cui sto con il piede sinistro.

Il vostro rito del mattino…

ANDREA: Sono dipendente dal caffè, rigorosamente amaro. Immancabile anche quando il mio colon irritabile fa le bizze. Assumo la tecnica di mangiarci sopra (sorride). Non rinuncio mai. Del resto, non ho riti particolari perché non sono scaramantico.

CAROLINA: Dipende da quello che dovrò fare nel corso della giornata. Se mi sveglio presto do poco spazio al relax, salto anche la colazione. Al contrario, quando posso, sono contenta di prendermela con più calma.

GIANLUCA: Do da mangiare subito ai miei due gatti che mi cominciano a girare intorno. E poi ci sono i miei figli…

Più impegnativi i figli o i gatti?

GIANLUCA: I figli, soprattutto gli ultimi, i gemelli, al mattino non si sbrigano mai (sorride), da ora in poi toccherà a mia moglie.

Quanto tempo deve passare dallo squillo della sveglia perché appaia sul vostro volto un primo sorriso?

ANDREA: Di base sono predisposto al sorriso, è di default, anche se a volte non lo mostro. Mi capita di sorridere anche semplicemente scorrendo la chat degli amici, quelli di sempre, o vedendo un video. Amo molto quelli delle cadute, mi diverte la comicità fisica.

CAROLINA: Sono abbastanza mattiniera e serena, divento operativa quasi immediatamente. È stato così sin da ragazza, quando mia madre mi svegliava e mi diceva immediatamente 350 cose: forse è questo ad avermi insegnato ad avere subito il cervello acceso.

GIANLUCA: Ho già lavorato tanto in radio la mattina presto, il sorriso non manca. Sei in una sorta di bolla, lì per lì non te ne rendi conto, poi arrivi a mezzogiorno e ti chiedi chi sei.

C’è un brano musicale, una canzone, che possono rendere più lieto il vostro risveglio?

ANDREA: Ce ne sono tanti, penso a “Mornin’” di Al Jarreau, a “The dock of the bay” di Otis Redding, solo per citarne un paio.

CAROLINA: C’è una consuetudine, che ho adottato da un po’ di tempo, ascolto un podcast che fa la rassegna stampa: accade mentre faccio colazione e mi preparo, mi piace avere un panorama di quello che succede.

GIANLUCA: A seconda dell’umore. Quando entro in macchina accendo invece la radio sulle notizie.

A uso e consumo dei vostri compagni di viaggio, c’è qualcosa che proprio non bisogna chiedervi di prima mattina?  

ANDREA: “Perché sei arrivato tardi?” Una domanda della quale conosco la risposta, ed è “per divertirmi di più”. Amo molto l’improvvisazione, soprattutto in un programma che va in onda per 177 puntate dove il rischio di abituarsi alla routine è facile. Devi essere bravo ogni giorno a crearti un imprevisto buono.

GIANLUCA: Come sarà l’organizzazione del resto della giornata, tipo “cosa facciamo stasera?”. Arrivarci a stasera (sorride).

Il vostro ruolo a” Binario 2” …

ANDREA: A tutti gli effetti il conduttore insieme a Carolina Di Domenico. Gianluca Semprini è con noi, e di questo siamo molto felici, porta l’informazione che vogliamo affrontare in maniera molto leggera. Il nostro sarà un gioco di squadra, un palleggiamento, io lo chiamo fare jazz, dove è importante essere in ascolto.

CAROLINA: Arrivare alle 8.15 (sorride). Andrea ha la tendenza ad aprire molte parentesi, io avrò il ruolo di traghettare il tutto fino a raggiungere degli obiettivi tenendo le fila.

GIANLUCA: Darò notizie e racconterò storie, a uso e consumo di Carolina e Andrea e del resto del racconto. Cercheremo anche di capire quali siano le notizie di cui discute la gente mentre viaggia, mentre esce di casa.

Che rapporto avete con i treni e con le stazioni?

ANDREA: Sono figlio di un tramviere e questo mi ha portato a familiarizzare con gli autobus, un ambiente molto simile a quello delle ferrovie: i rumori, le botte di aria compressa che partono di tanto in tanto. La stazione è un crocevia di vite che si sfiorano, di individualità che vanno al lavoro, è un romanzo da scrivere ogni giorno.

CAROLINA: Ho delle abitudini che tendo a rispettare. Per me, ad esempio, il treno all’ultimo momento non esiste, devo arrivare in anticipo altrimenti non sono in grano di gestire il tempo, per me dieci minuti possono essere dieci secondi. La stazione mi ha sempre portato a cose belle: il treno e il viaggio sono anche occasioni di riflessione, di preparazione.

GIANLUCA: La stazione Tiburtina fortunatamente è vicina a casa, e per questo è la mia stazione d’elezione. Non mi dispiace viaggiare in treno, però devo farlo secondo il senso di marcia altrimenti mi sento male. Quando salgo sono sempre con il fiato sospeso non sapendo in che senso viaggerò.

Chi vorreste incontrare in una stazione ferroviaria?

ANDREA: Quegli eroi precari che quotidianamente onorano una passione e una necessità, anche con grande sacrificio. Raccontare le storie di chi lavora e porta avanti il Paese per dare luce e speranza al cambiamento.

CAROLINA: Non la vedo come luogo di incontri, ma mi piace molto guardarmi attorno, immaginare le storie delle persone. Non mi metto a farmi i fatti degli altri, ma osservo molto.

GIANLUCA: Friedkin il presidente della Roma, per dirgli: “Ma che avete in testa?”. Ma soprattutto vorrei incontrare mia figlia grande, Federica, ha 23 anni e vive a Milano, la vedo poco. Mi piacerebbe tanto incontrarla per caso.

Cosa avete pensato quando vi è stato proposto di prendere parte a “Binario Due”?

ANDREA: Ho pensato che fosse arrivato il momento di rischiare. Avevo trovato il mio centro, il mio equilibrio a “Radio 2 Social Club”, dove sono stato per quindici anni, e che considero tutt’ora casa mia. Questa è una possibilità irrinunciabile.

CAROLINA: Che era una grande occasione, che ero felice di farla con Andrea che, pur conoscendo da tanto tempo, non ho mai avuto come compagno di lavoro. Lui è una persona un po’ di famiglia per me. E poi ho sentito entusiasmo da parte di tutti, una cosa per me trascinante: ci sono i presupposti per partire carichi.

GIANLUCA: Sono stato molto contento. Essere nel ruolo di colui che deve dare notizie e al tempo stesso intrattenere non mi dispiace affatto.

Come vivete le nuove sfide?

ANDREA: Sono molto fatalista, detto questo credo che sia giusto avere un progetto, prepararsi e trovare anche una propria stabilità psicologica per affrontarlo. Nonostante l’ambizione, la regola numero uno è comunque quella di non avere troppe aspettative, che possono essere tradite da qualsiasi cosa.

CAROLINA: Non mi agito di fronte alle sfide e cerco di ovviare all’ansia con la preparazione. Cerco di studiare, ho un po’ un approccio da “secchiona”, ma essere preparata mi fa stare tranquilla e mi fa godere la sfida.

GIANLUCA: Sono abbastanza freddo. Non mi esalto quando le cose vanno bene e non mi deprimo quando vanno male. Cerco di avere in testa l’obiettivo e gli strumenti per raggiungerlo.

Come saluterete i nuovi amici del mattino di Rai 2?

ANDREA: dirò loro che staremo insieme un bel po’ di tempo e che in un modo o nell’altro dovremo diventare amici. “Da parte mia ce la metterò tutta, spero che lo facciate anche voi, perché quando lo si vuole in due, nascono cose belle”.

CAROLINA: Il programma sarà molto ricco e ci sarà molta festa, ma vista l’ora saluterò nel più classico dei modi, con un semplice “buongiorno”.

GIANLUCA: Non ci ho pensato, ma spero con una buona notizia che faccia un po’ rasserenare, rallegrare e pensare.

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LUCA BARBARESCHI

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Un momento magico

Le sfide del sabato sera a “Ballando con le Stelle”, la conduzione di “Se mi lasci non vale”, nuovo docu-reality del lunedì di Rai 2. Il popolare showman si racconta al RadiocorriereTv: «Il palcoscenico è la mia vita. Sin da bambino facevo ridere e intrattenevo, a casa come a scuola». L’emozione più grande? «Andare in scena. La gente ti dà energia, lo senti quando entri in sala. Se hai la capacità di prenderla e di restituirgliela il pubblico ti adora»

 

Un autunno nel segno delle sfide, come sta Luca?

In forma, centrato, come si direbbe per un atleta che deve fare le Olimpiadi. Ho due programmi, un film, sto scrivendo un film nuovo, una nuova fiction, stiamo lavorando come dei pazzi e io sono molto contento perché, malgrado l’età, riesco a usare meglio le mie energie (sorride).

“Se mi lasci non vale”, partiamo dal titolo per raccontare l’idea che sta dietro al programma…

L’idea è quella di fare un reality normale, chi ha voluto fare polemica è andato contro un muro da solo. “Se mi lasci non vale” non c’entra nulla con altri programmi, protagoniste sono coppie normali che mettiamo al centro di un esperimento sociale, molto garbato, leggero, molto analitico nei problemi reali. La gente è abituata a essere ripresa, a stare davanti allo schermo, a fare selfie, siamo nella generazione del post reality, non c’è voyerismo, paradossalmente cerchiamo di mettere a confronto i componenti delle coppie sui problemi più semplici e più banali.

Per lei è un po’ un ritorno al passato…

Ho fatto 1.400 puntate di “C’eravamo tanto amati” tra Italia e America, e potrei farne altre 1.400, è un lavoro potenzialmente infinito, considerando quanto è frastagliata l’intermittenza dei cuori, dei sentimenti. La gente è talmente sorda all’amore, all’ascolto: sente ma non ascolta, guarda ma non vede, parla ma non pensa a quello che dice. Rimettere ordine a queste cose all’interno di una coppia è una scommessa divertente, io agisco dalla sala di regia come fossimo in una specie di “Truman Show”, a volte esco e piombo in mezzo alle situazioni come una sorta di grillo parlante, ma sempre in maniera molto garbata, non ci sono pruderie. È gente normale che qualche problema ce l’ha, e tu cerchi di affrontarlo, ti accorgi che tutto può diventare tragedia ma anche commedia.

Lei è un grande osservatore, quali sono le cause che fanno entrare in crisi una coppia?

Prendi una macchina Balilla e mettile il motore di una Ferrari, quando inserisci la seconda si stacca la portiera. La struttura matrimoniale ottocentesca, fatta di balle, di mariti che andavano al casino prima di tornare a casa, di coppie che facevano l’amore tre volte giusto per fare i figli, di mogli che dovevano solo cucinare e stirare, non esiste più, la società oggi non è quella ottocentesca. Per questo è necessario che i componenti di una coppia si conoscano bene. Si sposa gente improbabile, dico, ma vi siete parlati? Vi siete conosciuti? Li hai visti i genitori del tuo futuro marito o di colei che sarà tua moglie? Perché nel novanta per cento dei casi, si diventa uguali al proprio padre o alla propria madre, lo scarto è veramente minimo. Il matrimonio dovrebbe essere impostato in una maniera totalmente diversa. Quando decidi di sposarti inizia un’avventura complicatissima fatta da due perfetti sconosciuti che hanno un DNA e un’educazione che sono molto diversi. Non è possibile fare un figlio sull’onda dell’entusiasmo di una notte, o semplicemente perché una ragazza ti attrae. I social, questo mondo finto, orribile, hanno fatto sì che i riferimenti siano gli influencer, che danno consigli da un pulpito inesistente. Non c’è mai stata tanta facilità di comunicazione e al tempo stesso una così grande assenza di reali notizie come in questo periodo. Una coppia dovrebbe riflettere su cosa succederà dopo il primo figlio, dopo il secondo, su cosa significhino il rispetto dell’altro nelle fatiche, nelle malattie, nei dolori, partendo dal fatto che, come esseri umani, cambiamo ogni 5-6 anni, in noi convivono tante persone diverse.

Più difficile lasciare, essere lasciati o provare a salvare la relazione?

Salvare una relazione, ed è la scommessa più bella. Nel rapporto di coppia devi solo scavare e riportare alla luce i diamanti che sono le persone, che in realtà sono nascosti sotto tante sovrastrutture. Tutto il resto è inutile, vedo donne e uomini che si rifanno totalmente sperando di avere la giovinezza eterna, forse anche pensando di continuare a mantenere l’interesse erotico del marito o della moglie. In palestra vedo gente pompata sopra, sotto, invece, una gambina con lo stemma maori. Tutto questo mi fa molto ridere, penso risponda a forme di fragilità, a una mancanza di personalità, al desiderio di appartenenza tribale a qualcosa che non ti appartiene. In realtà alcuni sono tatuati perché sono fragili, più tatuaggi hanno, meno hanno personalità, se la sono dipinta, ma non ce l’hanno. Pensiamo anche ai bambini, io li manderei a scuola col grembiule o con la divisa fino a 14 anni, mentre oggi i genitori li travestono già da modelli, con abiti firmati sin dall’asilo. Io andavo a scuola col grembiule e la mia personalità era quello che c’era sotto. Tutto questo si riflette anche nella coppia, nel rispetto dell’altro, anche in relazione alle malattie. Oggi ti sposo, ma se mi viene l’Alzheimer sarai con me? Come cantavano i Beatles, “Will you still love me when I will be 64?”. Il tema è questo qua.

Lei crede nella coppia?

Credo nella coppia e, malgrado abbia sbagliato, ci riprovo ogni volta. La condivisione a due di momenti di bellezza, di un tramonto, di un film, di un libro, o il sorriso di un bambino, è molto più bello della solitudine. E poi le società che smettono di vivere in comunità muoiono.

Passiamo al sabato sera, al suo “Ballando”. Come è stato ritrovare Luca showman?

Per me molto emozionante, è stato come ritrovare la parte più bella di me, che è quella per cui sono nato. Sono nato showman a scuola, dove facevo ridere, a casa, dove cercavo di intrattenere mia madre che vedevo poco: cercavo di riconquistarla dopo che mi aveva abbandonato. Facevo ridere mio padre, che vedevo piangere perché viveva solo, e gli suonavo la batteria e il pianoforte. Ho dentro questa roba qua che trasmetto al pubblico. Quando salgo su un palco mi accendo e di colpo sono a mio agio. Accade in Tv come in teatro, ed è anche una maniera per sconfiggere la morte perché penso che, se faccio molto bene un personaggio, che sia Riccardo III, Amleto o qualsiasi altro, magari quella sera arriva la morte non mi riconosce e se ne va.

Come è cambiato nel tempo il suo rapporto con il pubblico?

La gente ti dà energia, lo senti quando entri in sala. Se hai la capacità di prenderla e di restituirgliela, il pubblico ti adora. Che tu sia musicista, pittore, scultore, attore, la vita artistica è fatta di periodi, legata alla tua età, al tuo cuore, al tuo dolore, alla tua fatica, alla malattia, alla vicinanza della morte, che è un passaggio inevitabile per tutti noi. Io vado ancora come in moto, come fossi un ragazzino (sorride). Ogni tanto poi freno e penso di avere un angelo custode: a 70 anni, con una moto che fa i 260 km all’ora, potrei andare anche più piano. Ogni tanto mi dimentico, ho una testa complicata.

Il complimento più bello che ha ricevuto in queste settimane…

Che sono una persona sincera.

Il suo augurio a Luca…

Di tener duro.

 

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MIKE – L’eterna Allegria

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Due giornate dedicate a una leggenda della tv, andando a svelare l’aspetto più intimo, e più difeso, del conduttore. Il RadiocorriereTv ha intervistato il cast principale, Elia Nuzzolo, Claudio Gioè, Valentina Romani e il regista Giuseppe Bonito. Il 21 e il 22 ottobre in prima serata Rai 1

 

Una vita complessa, tormentata e fatta di distacchi familiari, e poi i primi passi nell’intrattenimento di qualità (dalla radio alla nascita della tv). Mike Bongiorno è per tutti una leggenda. Cosa vi ha convinto a dire “Rischio tutto” e mi metto in gioco?

Elia Nuzzolo: Per un giovane attore come me è stata un’occasione incredibile, un grande onore. Un viaggio incredibile ho potuto intraprendere con più serenità grazie al sostegno di un regista bravissimo, che ci ha guidato egregiamente. Insieme a lui abbiamo lavorato molto tempo per individuare la chiave giusta per dare valore al personaggio, ma soprattutto per far emergere l’uomo Mike.

Claudio Gioè: La prima domanda che ci siamo fatti non è stata “perché fare una fiction su Mike Bongiorno”, ma “perché non farla”! Stiamo parlando di una vita straordinaria, che attraversa la nostra storia recente, fotografia un’Italia nei suoi momenti più difficili, affronta il periodo immediatamente dopo la Seconda guerra mondiale, quella del boom economico, quando per la prima volta le persone si confrontano con i mezzi di comunicazione di massa. Credo che oggi sia necessaria una riflessione su “da dove veniamo” e “dove stiamo andando”, è utile per spingerci tutti a riflettere un pochino di più sul ruolo della televisione, su ciò che oggi è diventata, sui propositi che hanno accompagnato la sua nascita e come la stiamo trattando oggi. Abbiamo fatto del nostro meglio per avvicinarci alla temperie di quegli anni e aprire una riflessione per il futuro.

Valentina Romani: Uno degli aspetti più interessanti del nostro mestiere è quello di avere il permesso di conoscere cose che prima ignoravi. Girando questa serie mi sono resa conto di ignorare molto della vita di Mike, e questo è stato un aspetto molto interessante su cui lavorare, una spinta per andare più a fondo. E poi era una scusa bellissima per tornare a lavorare con Giuseppe, un regista che stimo molto, con cui si lavora molto bene, anche con divertimento, un ingrediente fondamentale.

Giuseppe Bonito: Il carburante principale è stata la curiosità. Non nascondo che all’inizio ero molto spaventato, sapevo bene quello che non avrei voluto raccontare, ovvero quello che tutti già sappiamo. Per me ha senso fare qualcosa se si porta allo spettatore il proprio percorso di conoscenza e all’inizio ovviamente era un’incognita. Poi ho avuto il problema contrario, conoscendo più a fondo il mondo di Mike, c’erano così tanti motivi degni di racconto che, alla fine, con Salvatore De Mola, lo sceneggiatore, avevamo il problema di come riuscire a far entrare tutto. Devo dire però che è stato un viaggio sorprendente, e spero che questo arrivi allo spettatore.

Quale è stata la parte più difficile nell’essere Mike?

Elia Nuzzolo: Forse immedesimarmi. La parte più difficile è stata capire cosa avesse significato vivere quella parte della sua vita, le drammatiche esperienze di Mike durante la guerra, la detenzione e, una volta libero, la possibilità di ricominciare una vita in America con suo padre. È stato un lavoro complesso arrivare nella profondità del suo animo.

Claudio Gioè: Per me, vista la chiave estremamente interessante adottata da Giuseppe e dalla sceneggiatura, probabilmente è stato proprio trovare il Mike dietro le telecamere, rappresentare il suo aspetto più intimo, quando era da solo a casa, quando chiamava sua madre al telefono, o mentre riceveva la notizia della perdita di suo padre. Tutti i lati del carattere, insomma, che il suo pubblico non ha potuto cogliere e che noi abbiamo tentato, con responsabilità, di mettere in scena in maniera credibile, rimanendo il più possibile aderenti alla sua personalità così complessa.

Valentina, a lei il compito di portare in scena una donna – Daniele Zuccoli – che per quarant’anni è stata accanto a Mike Bongiorno, realizzando il suo sogno di creare una famiglia felice…

Valentina Romani: Sicuramente il racconto di questo amore che esiste perché è destinato ad esistere, è una cosa straordinaria. Soprattutto se penso oggi quanto facciamo fatica a renderci accoglienti a ciò che la vita ci propone. Quello che mi ha colpito è stato proprio questo un amore nato con gentilezza, ma così intenso, molto profondo, tanto da far diventare l’uno il punto di riferimento dell’altra e per sempre, qualcosa che solitamente siamo abituati a sentire solo nelle favole. Quando questo accade nella vita reale è un qualcosa di estremamente prezioso, da custodire con amore.

Cosa rimane dell’Allegria così amata da Mike?

Giuseppe Bonito: Il paradosso è che nel nostro racconto questa è una parola che non verrà pronunciata da Mike, ma dal giornalista Sebastiano Sampieri (un personaggio che non è esistito realmente), l’uomo che conduce questa sorta di intervista-seduta psicanalitica che accompagna le vicende umane e professionali del nostro protagonista. Il senso di tutta la nostra storia sta proprio nel discorso finale del personaggio interpretato da Paolo Pierobon, che incarnano ciò che Daniela (Zuccoli, moglie di Mike) mi ha raccontato privatamente. In queste parole è custodita l’eredità di Mike Bongiorno, e spero che lo spettatore abbia voglia di arrivare in fondo alla serie per capire.

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