DUSE THE GREATEST

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Scritto e diretto da Sonia Bergamasco, dal 3 febbraio al cinema arriva “Duse. The Greatest” (premiato come miglior documentario al Festival del cinema italiano di Madrid), opera dedicata a Eleonora Duse, l’attrice che ha cambiato il mestiere dell’attore. In collaborazione con Rai Cinema

A cent’anni dalla scomparsa di Eleonora Duse, Sonia Bergamasco ci accompagna in un’investigazione sull’attrice che ha cambiato il mestiere dell’attore per sempre ispirando Lee Strasberg, storico direttore dell’Actors Studio, e generazioni di attori. Come può una donna di cui rimangono unicamente un film muto e qualche foto e ritratto, essere ancora così influente? La Divina oltre il mito. Nel cast, oltre a Sonia Bergamasco, anche Annamaria Andreoli, Valeria Bruni Tedeschi, Elena Bucci, Ellen Burstyn, Federica Fracassi, Fabrizio Gifuni, Ferruccio Marotti, Helen Mirren, Emiliano Morreale, Mariapaola Pierini, Caterina Sanvi, Mirella Schino, Giuditta Vasile.

La regista racconta…

«Sono certa che fare l’attrice mi abbia salvato la vita, che l’abbia resa vivibile – a tratti esaltante, comunque intensa, concreta, mia. E che continui a farlo. Con questo film, come una detective, mi sono messa sulle tracce di Eleonora Duse, un’attrice leggendaria che ha illuminato la strada alle generazioni successive con l’energia dirompente del suo corpo di scena. Al centro di questa indagine è il corpo dell’attrice, il suo labirinto. Seguendo il percorso di Eleonora Duse, artista simbolo, e grande “assente” (in video, di lei ci resta solo un film muto) Duse, The Greatest vuole fare luce sul mestiere dell’attrice oggi: che cos’è diventato, qual è il suo spazio nell’immaginario collettivo contemporaneo. La macchina da presa scivola sui corpi delle persone incontrate (attrici, autrici, artisti, studiosi), si immerge nei particolari. Quello che ho indagato è il corpo sensibile, nudo, dell’attrice (ieri e oggi) e la radiografia del suo corpo immaginario, attraversato dallo sguardo degli altri. Un flusso di immagini in cui momenti di fermo (scatto fotografico) fanno da snodo e da collante alla narrazione. Fermo immagine dal girato contemporaneo in cui immergersi per cogliere dettagli dei corpi e delle azioni, e per saldare il racconto a immagini più “antiche”, fotografiche, o a video d’archivio in bianco e nero. Eleonora Duse, l’attrice italiana più famosa al mondo, intercetta le nuove generazioni attraverso la sensibilità di figure carismatiche come Charlie Chaplin – che la vede a teatro a Los Angeles e scrive “è la più grande artista che ho mai visto” – e il giovane Lee Strasberg, futuro direttore dell’Actors Studio, che guardandola al lavoro, intuisce il segreto di un’arte della recitazione che entra a far parte dell’immaginario collettivo di generazioni di attori di cinema. Dando voce ai testimoni, di ieri e di oggi, il film cerca di fare luce sul corpo dell’artista come strumento da scoprire, per comporre un ritratto plurale dell’attrice al presente.»

 

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La bambina con la valigia

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Una fotografia in bianco e nero del 6 luglio 1946 ritrae una bambina: in mano una valigia con la scritta: esula giuliana. Si chiama Egea Haffner e la sua storia comincia quando suo padre scompare, probabilmente inghiottito nelle Foibe. A questi ricordi si lega il racconto della vita di esule di Egea, che da Pola si sposterà a Bolzano, accudita da una zia che l’amerà come una figlia e protetta dalla cura della nonna. Nella memoria di Egea si riflette il dramma di tutti quelli costretti a lasciare la propria casa. Tratto dall’omonimo libro di Egea Haffner e Gigliola Alvisi (Piemme – Mondadori), in onda lunedì 10 febbraio su Rai 1             

È l’inverno del 1944 e i bombardamenti si susseguono sulla città di Pola e sul porto, obiettivo militare importante, strategico per la difesa dell’Italia del nordest di cui la Venezia Giulia e l’Istria fanno parte. La vita della piccola Egea Haffner, a parte le occasionali e improvvise fughe nel rifugio, prosegue come in una favola. C’è la villa dei nonni paterni, gli Haffner, e la gioielleria in centro dove lavora suo padre Kurt. Nella primavera del 1945 le cose sembrano cambiare in meglio: la guerra finisce. Nell’Istria a prevalere sono i cosiddetti “Titini”, l’esercito messo insieme dal maresciallo Tito, che occupa tutta la regione giuliana, fino ad allora parte dell’Italia fascista. Una notte che doveva essere di festa si trasforma nell’inizio di un dolore fortissimo per la piccola Egea. Qualcuno bussa forte alla porta di casa. Sono due uomini in una divisa, due Titini, e sono venuti a cercare Kurt: “Solo una formalità, un controllo”, dicono. Kurt li segue con un sorriso rassicurante per la moglie e la figlia, ma in quella casa non tornerà più. La voce su che fine abbia fatto il papà di Egea si diffonde nei giorni successivi a Pola: potrebbe essere una delle vittime cadute nelle Foibe, spaventose voragini carsiche che cominciano a tormentare i sogni della bambina. È solo l’inizio: poco tempo dopo, in seguito alle numerose aggressioni nei confronti degli italiani considerati fascisti, Egea inizia la sua vita di esule, che la costringe a lasciare la sua terra e ad affrontare un futuro incerto a Bolzano, accudita dalla nonna Maria e dalla zia Ilse, che l’ama come una figlia. La sua vera mamma, Ersilia, sceglie invece di trasferirsi in Sardegna per perseguire l’obiettivo di aprire un negozio di parrucchiera tutto suo: vuole emanciparsi dalla famiglia Haffner, dalla quale non si è mai sentita accettata. A Bolzano Egea cresce, scoprendo sulla propria pelle il dramma dello sradicamento, dell’esodo che accomunò più di 250.000 persone delle comunità italiane giuliano-dalmate e istriane, costrette a lasciare la propria casa e a immaginare per sé un nuovo futuro.

 

I PERSONAGGI

 

EGEA HAFFNER

Una bambina che è diventata simbolo della tragedia dell’esodo istriano-dalmata grazie ad una fotografia che la vede ritratta con una valigia in mano, prima di lasciare per sempre la sua città. Rimasta orfana del padre Kurt, inghiottito dalle Foibe, Egea cresce affidata alle cure della famiglia paterna e con loro inizia una nuova e complicata vita a Bolzano.

 

ILSE HAFFNER
(Sara Lazzaro)

È la zia di Egea, sorella di Kurt. Dolce e comprensiva, il suo legame affettivo con la nipotina cresce quando si ritrova ad essere per lei un punto di riferimento materno e insieme si ritrovano ad affrontare l’esodo da Pola.

 

MARIA HAFFNER
(Sandra Ceccarelli)

È la nonna paterna di Egea, una donna forte e vivace, legata allo status sociale della sua famiglia di gioiellieri. Per questo motivo non ha mai visto di buon occhio la scelta del figlio Kurt di sposare una parrucchiera, Ersilia. Il dolore della scomparsa del figlio e di tutto ciò che ne consegue la metteranno a dura prova emotivamente.

 

ERSILIA CAMENARO

(Claudia Vismara)

Mamma di Egea, che è stata il frutto di un amore intensissimo fra lei e Kurt. La terribile scomparsa del marito rompe gli equilibri della famiglia Haffner, nella quale Ersilia ha sempre faticato a sentirsi accettata. Per questo motivo, la donna sceglie un destino diverso che le permetta di sentirsi indipendente.

 

IL REGISTA GIANLUCA MAZZELLA RACCONTA

«Quando mi hanno proposto di dirigere il film sulla vita di Egea Haffner, mi sono bastati pochi minuti di ricerca online per realizzare l’importanza dell’opportunità che avevo davanti. È bastato digitare il nome della signora Haffner su un motore di ricerca per ricevere, istantaneamente, l’invito a sfogliare centinaia di pagine web, diverse tra loro, ma tutte concordanti su un punto: la conoscenza della vita di Egea Haffner restituisce l’esatta percezione di cosa abbia significato l’esodo istriano sulla pelle di chi lo ha vissuto in prima persona. Ho subito realizzato che, raccontando in un film la vita di quella donna e della sua famiglia, sarebbe stato per me possibile contribuire alla divulgazione di un evento di portata gigantesca, una pagina molto drammatica della nostra storia recente ancora troppo poco conosciuta dalla maggioranza degli italiani. Quando poi, successivamente, ho incontrato personalmente la signora Haffner, ho avuto la definitiva conferma che la sua storia meritasse di essere raccontata, dopo libri, documentari ed interviste, per la prima volta, anche da un film. Ci siamo incontrati a Rovereto, città in cui vive oggi, e di fronte ad un buonissimo strudel fatto in casa da lei stessa, in qualche ora di amabile conversazione, ho percepito tutta la sua passione e capacità comunicativa. La semplicità con la quale Egea racconta gli episodi della sua vita, così come descritti perfettamente nel suo libro autobiografico da cui è tratto il nostro film, rende comprensibili in maniera empatica e immediata tutti i suoi stati d’animo, tutte le sue emozioni. Sia che si tratti di episodi minimalisti della sua vita privata sia che racconti i grandi eventi storici che hanno coinvolto migliaia di altre persone, le pagine del libro sono una fonte ottimale per essere trasferite sullo schermo.  Inoltre, la vita di Egea, aldilà del traumatico contesto storico in cui si è svolta, è materia ideale per raccontare una vicenda familiare appassionante. Un padre perso prematuramente in circostanze drammatiche, uno zio affettuoso, ma soprattutto una madre, una nonna ed una zia molto diverse tra loro ma tutte con caratteristiche psicologiche molto interessanti da approfondire e tutte, in modi diversi, determinanti per la crescita della bambina Egea. Un universo prevalentemente femminile che ha accompagnato Egea durante gli eventi molto drammatici della sua vita come la perdita del padre, l’esodo dalla amata città di Pola e il difficile inserimento da esuli in una città nuova e sconosciuta ripartendo da zero. È stato per me appassionante raccontare la vita della “bambina con la valigia”, così densa di momenti difficili e fortificanti sia nell’intimità della sua sfera familiare che nel drammatico contesto storico in cui si svolse. Spero di essere riuscito a replicare, con un mezzo espressivo differente, la stessa forza dirompente del libro ed è per me un vero onore, in punta di piedi, con tutto il rispetto necessario quando si racconta la vita di altri, associarmi alla sua missione divulgativa.»

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MARTA FLAVI

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Quella copertina del Radiocorriere…

Una vita nel segno della Tv, una popolarità mai venuta meno in oltre quarant’anni di carriera.  Gli esordi e il successo, l’amore e la solitudine, il passare del tempo e la libertà: la conduttrice si racconta al nostro giornale

 

Di fronte a lei un foglio bianco. Quali parole userebbe per iniziare a scrivere il romanzo della sua vita?

Una donna nata nel posto giusto, da gente giusta e che si è divertita tanto.

L’esordio come annunciatrice nelle televisioni locali, il debutto alla Rai con “Linea Verde”, la grande popolarità raggiunta con la televisione commerciale e “Agenzia Matrimoniale”. Cosa ha rappresentato e cosa rappresenta per lei la Tv?

Innanzitutto la possibilità di essere indipendente economicamente, cosa che ho sempre ritenuto fondamentale. Vengo da una famiglia che non mi ha mai fatto mancare nulla, ma volevo dimostrare ai miei di riuscire a provvedere a me stessa. Capii da subito che fare Tv era un modo per guadagnare: l’ho sempre considerato un lavoro e non un dono divino senza il quale non avrei potuto vivere. È qualcosa che ho sempre rispettato, che ho fatto e faccio con la massima professionalità.

È poi arrivato il giorno in cui questo lavoro ha iniziato ad amarlo…

Quando è arrivato il successo. Mi piace pensare che il successo sia stato per me un imprevisto sul lavoro (sorride).

È sempre stata una donna libera?

Mi è stato insegnato a esserlo, e per questo devo dire grazie a chi mi ha educato. Sono stata fortunata, la libertà non è stata per me una conquista ma un modo di essere.

Una popolarità trasversale, l’apprezzamento del pubblico di ogni età. Come si rimane nel cuore del pubblico per tanto tempo?

Non ho mai capito veramente il motivo di un successo così grande e non capisco per davvero come questa popolarità faccia a resistere ancora. Ma non mi pongo più domande (sorride). Posso dire che anche l’attenzione del vostro giornale mi dà grande gioia.

Era il 1982, il RadiocorriereTv le dedicò la copertina per la conduzione di “Tutti per uno”, fortunato programma per ragazzi di Rai 1…

Fu proprio quella copertina a farmi capire che ce la stavo facendo. Ne fui orgogliosa. Pensi che mio padre comprò tantissime copie del Radiocorriere e le distribuì a parenti e amici.

Nel lavoro e nella vita privata ha conosciuto da vicino i grandi della televisione, cosa le hanno insegnato?

Che la forza dei grandi è nella semplicità, nel darsi al pubblico senza filtri. Penso ad esempio al mio amico Gianfranco Funari e penso a Corrado, un uomo adorabile. Lui mi chiamava “piccolé”, mi invitava a non perdere la spontaneità, a essere sempre me stessa. Mi diceva anche che in televisione avevo un bel tre-quarti, di puntare su quel tipo di inquadratura. Cosa che feci.

Chi è Marta Flavi oggi?

Una donna molto centrata, soddisfatta della propria vita. Ho avuto dei dolori forti, delle frustrazioni, come capita a tutti. Ma i momenti belli sono stati di più degli altri. Credo di essere una donna che sa ascoltare e che sa amare.

Marta Fiorentino e Marta Flavi…

… ormai sono la stessa cosa (sorride)

…è capitato che in passato fossero in disaccordo?

Forse quando qualche fotografo mi chiedeva di avere un atteggiamento un po’ più ammiccante. Lì c’era Marta Fiorentino che diceva “lascia stare” …

…e chi aveva la meglio?

Marta Flavi, perché si trattava di lavoro.

Che rapporto ha con il tempo che passa?

Buono, perché sono fortunata e sono rimasta bella (sorride). Ho un rapporto terribile con la morte, perché sono convinta che potrebbe essere superata, cosa che penso un giorno, forse fra cent’anni, avverrà, ma io non ci sarò. La trovo un fatto innaturale, ingiusto, qualcosa di orribile. Il tempo che passa è un privilegio, non mi fa paura invecchiare, cercherò sempre, fino alla fine, di essere esteticamente gradevole.

Se potesse ricominciare rifarebbe tutto allo stesso modo?

Ho fatto degli errori sia nel privato che nel lavoro. Nel primo caso rifarei tutto ma accorciando i tempi, per esempio nelle storie.

Avrebbe voluto avere la forza di mettere la parola fine a un amore?

Ci sono momenti in cui non riesci a farlo perché pensi che qualcosa possa cambiare, che sia giusto dare una nuova possibilità.

Teme la solitudine?

Non ho il senso della solitudine e non sono obbligata ad avere qualcuno al mio fianco. Questo non vuol dire che non ami stare con gli altri, con gli amici, con le persone a cui tengo.

In amore esiste “per sempre”?

Ogni volta che ho amato qualcuno ho pensato che sarebbe stato per sempre, poi ho visto che non era esattamente così (sorride). Con il tempo ho capito di preferire gli amori brevi e felici.

Lei è una donna felice?

Ho lavorato molto su di me per essere serena. Lo sono quasi sempre.

È scaramantica?

Ho delle mie piccole superstizioni. Il primo giorno dell’anno, ad esempio, devo sempre scendere dal letto con il piede destro, ed evito l’intimo di colore rosso. Non mi ha mai portato bene. Vado con lo slip nero che è sempre chic (sorride).

Un suo pensiero al pubblico che continua a volerle bene…

Un senso di gratitudine infinita unito allo stupore. L’amore del pubblico non l’ho mai dato per scontato. Quando la gente mi ferma per strada, e accade spesso, nonostante sia parecchio tempo che non ho un programma mio, provo una gioia immensa.

 

 

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Signori, il PrimaFestival!

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Con Gabriele Corsi e Bianca Guaccero alla conduzione e con Mariasole Pollio inviata nel backstage dell’Ariston. Da sabato 8 fino al 15 febbraio, subito dopo il Tg1 della sera

Parte il “PrimaFestival”, che accompagnerà il pubblico verso la 75ª edizione del Festival di Sanremo.  A condurre, due popolari volti della Tv: Gabriele Corsi e Bianca Guaccero, che potranno contare sulle incursioni al Teatro Ariston di Mariasole Pollio.

 

GABRIELE CORSI

Sanremo, che significato ha per lei, da spettatore e da addetto ai lavori?

Sanremo esercita sempre un fascino particolare, per chi fa questo lavoro e non solo. Penso alle visioni del Festival a casa con i miei genitori. Penso al 1982, vince Riccardo Fogli con “Storie di tutti i giorni” e io che sogno di arrivare lì. Al 2000, mio primo anno a Sanremo con le Iene. Poi a un “DopoFestival” radiofonico con Ambra. Un evento emozionante e incredibile. Per quanto mi riguarda è splendido esserci.

Due colleghe insieme a lei, che narrazione immaginate e quale sarà il suo ruolo? 

Con Bianca saremo nel glass a condurre, Mariasole sarà la nostra inviata su campo. Sentiremo i cantanti, al momento 29 (sorride), che ci parleranno dell’esperienza sanremese e del loro brano.  Siamo lì a servizio del Festival, siamo un po’ l’antipasto di Sanremo. Il piatto forte arriva dopo, ma come sappiamo, gli antipasti ci dicono spesso come sarà il pranzo che segue. Mia mamma dice sempre che ci pranzerebbe ad antipasti…

Come sta la nostra musica oggi?

Bella domanda! Credo che la risposta dipenda molto dalla data anagrafica dell’intervistato. Ci sono cose molto buone anche oggi, non voglio fare come i nostri genitori che dicevano: “che cos’è questo rumore?”. Certo, al momento di Beatles non ne vedo, ma ci sono tante cose che mi piacciono. Anche nei pezzi del Festival ci sono cose che sono bellissime.

Che cosa la incuriosisce di quello che è il più grande evento musicale italiano?

Tutto è curioso. Viviamo in una bolla magnifica in cui si parla solo di Sanremo, ci si frequenta tra addetti ai lavori, è un’esperienza che mi fa sentire nel mio habitat.

Il vincitore di Sanremo andrà dritto all’Eurovision Song Contest, che caratteristiche deve avere un artista per sfondare anche in Europa?

Non è scontato che vada all’Eurovision, è sempre una scelta del vincitore, anche se negli ultimi anni è capitato. Spero che a vincere il Festival sia la canzone più bella. L’Eurovision è una manifestazione completamente diversa da Sanremo. È stato un caso incredibile che i Maneskin fossero anche eurovisivi, come taglio. Sicuramente ci sono cose che potrebbero fare molto bene anche all’Eurovision. Stiamo a vedere e buon Festival a tutti.

 

BIANCA GUACCERO

Cosa rappresenta per lei il Festival da spettatrice e da addetta ai lavori?

È un po’ la stessa cosa… la sensazione di far parte di un momento di grande aggregazione del nostro Paese. Da spettatrice l’ho sempre visto insieme a familiari o amici, mentre quando sei lì a lavorare lo fai insieme a tantissime persone davanti e dietro le quinte. Sanremo è un evento che unisce e questa è la cosa che più mi piace.

“PrimaFestival”, quale sarà il suo ruolo?  

Insieme a Gabriele Corsi racconteremo al pubblico di Rai 1 curiosità e notizie sul Festival a pochi minuti dall’inizio delle serate, faremo anche conoscere qualcosa in più sui cantanti in gara grazie anche a Mariasole Pollio inviata dietro le quinte. Ci siamo incontrati ed è subito scattata una bella sintonia tra noi tre, sono sicura che ci divertiremo molto.

Come la accompagna la musica nella vita e nel lavoro?

Posso dire che la mia vita ha una colonna sonora, io ascolto musica sempre. Quando sono a casa, quando viaggio, quando sono triste e quando sono allegra. E anche nel lavoro mi aiuta a trovare la concentrazione e stimola la mia creatività. Insomma, la musica è la chiave che apre tutte le porte.

 Che cosa la incuriosisce di più in quello che è il più grande evento musicale italiano?

Come cambia… perché ogni anno Sanremo si trasforma e quindi sono curiosa di vedere quest’anno che edizione sarà, che musica ascolteremo, che spettacolo ci coinvolgerà.

 Quali sono i tre brani sanremesi che porta nel cuore?

“Spalle al muro” di Renato Zero, “Non Amarmi” di Aleandro Baldi e Francesca Alotta e “Come Saprei” di Giorgia.

 

MARIASOLE POLLIO

Sanremo, che significato ha per lei da spettatore e da addetta ai lavori?

Da spettatore Sanremo significa casa, stare con i miei amici e la mia famiglia a fare il tifo! Significa mettere in pausa i giorni comuni e renderli speciali. Da addetta ai lavori, per me significa l’inizio… la possibilità di lavorare e di imparare da una macchina così grande e dai suoi professionisti.

 

“PrimaFestival”, quale sarà il suo ruolo? 

Condurrò con Bianca e Gabriele, ma vi racconterò anche questo magnifico mondo di Sanremo da dietro le quinte, cercherò di svelarvi il backstage, tra emozioni luoghi e momenti inediti.

 

Come la accompagna la musica nella tua vita e nel suo lavoro?

La musica nella mia vita è sorgente, mi capisce, mi guida. La musica è di tutti, è per tutti, ma si racconta in ogni anima in modo diverso. Nel mio lavoro invece è il palco, sono i tour estivi, sono i ricordi con gli artisti che mi conoscono da quando ero bambina… é qualcosa che fa parte di me.

 

Conosce bene la radio, cosa deve avere un brano per conquistare il pubblico?

Un brano per essere vincente non deve mancare d’energia, deve rimanerti in testa dal primo ascolto, deve avere carattere. Una melodia che ti ricorda qualcosa di bello.

 

Nella storia di Sanremo quali sono i tre brani che porta nel cuore?

Penso a “Luce” di Elisa e a “Come Saprei” di Giorgia, sono due donne che con la loro musica hanno accompagnato la mia crescita. Penso anche a “Nu juorno buono” di Rocco Hunt perché rappresenta la mia terra e anche la prima vittoria in napoletano, la mia lingua.

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To Be

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In onda venerdì 7 febbraio, alle ore 16.10 su Rai 3 e alle 19.10 su Rai Gulp per la Giornata Nazionale contro il bullismo e il cyberbullismo

Se potessi cambiare il tuo aspetto fisico cosa cambieresti? Se avessi l’opportunità di essere qualcun altro, qualcuno di perfetto, la coglieresti? È quanto prevede lo speciale di animazione “To Be”, che Rai Kids presenta per la Giornata nazionale contro il bullismo e il cyberbullismo e in onda venerdì 7 febbraio, alle ore 16.10 su Rai 3 e alle 19.10 su Rai Gulp, oltre che su RaiPlay. Benvenuto nel Beautyverse, dove potrai creare la versione migliore di te stesso grazie ad un APS, ovvero Avatar Perfect Shape. Il Beutyverse è Il posto in cui tutti vogliono essere… eccetto Jamila, una ragazzina del primo anno al Liceo Plauto 4.0 per nulla appariscente, il cui unico interesse è dipingere e non ha mai pensato di iscriversi in questo metaverso. Almeno fino a quando i suoi amici non cercano di convincerla a partecipare al “King and Queen Party Event”, l’evento dell’anno della scuola dove non solo viene incoronata la coppia più bella ma anche la più talentuosa. Jamila incuriosita decide quindi di creare il suo Avatar: alta, slanciata e con tutte le misure al punto giusto, insomma il suo completo opposto. Jamila scopre presto che il Beautyverse è più di quello che pensava e scopre che i suoi dipinti possono prendere vita. Inoltre, nessuno conosce la sua vera identità e riesce addirittura ad attirare l’attenzione del più bello della scuola, Hotler, che la invita ad essere nientemeno che la sua Queen al Party Event! Presto quello che sembra a Jamila un nuovo mondo e un nuovo modo di esprimersi, viene messo a rischio quando Hotler, complice la sua ragazza Eride, scopre la vera identità di Jamila e decide si smascherarla con un gioco subdolo e meschino. Ma un misterioso quanto affascinante APS si presenta a Jamila. Il “King and Queen Party Event” sul Beautyverse è alle porte. Può l’amore far sì che le persone vadano oltre le apparenze? Gli standard di bellezza sono cambiati in modo significativo negli ultimi anni e oggi i giovani, anche a causa dei social, sono sommersi da modelli estetici impossibili da eguagliare nella vita reale. Avere i lineamenti del viso, le misure di seno e vita in un determinato modo, avere i pettorali e gli addominali scolpiti è ciò che i ragazzini, e non solo, pensano siano le caratteristiche che porterà loro ad essere amati e accettati dalla società. L’ Apparire risulta più importante dell’Essere. Questo contesto può avere conseguenze devastanti, come una percezione distorta di sé, generando insicurezza, ansia e frustrazione, sentimenti comuni a molti giovani di oggi e in casi estremi e sfortunatamente sempre più frequenti porta allo svilupparsi di disturbi alimentari quali anoressia e bulimia. Lo speciale televisivo “To Be” mira a promuovere l’accettazione di sé, la differenza come valore, la naturalezza e lo scostamento da standard irrealistici di perfezione, come elementi di autenticità e vera bellezza. Collegato a ciò ovviamente è il bullismo. Da sempre tutto ciò che è considerato “diverso” e non conforme ad uno standard viene deriso e vezzeggiato. Anche tale aspetto è stato esacerbato dai social: essendo costantemente in mostra, i ragazzini si sentono continuamente sotto esame, e possono diventare target di commenti offensivi su di loro e sul loro aspetto fisico, con conseguente, a volte anche gravi, sulla loro salute mentale. “To Be” è una serie prodotta da Graphilm in collaborazione con Rai Kids, scritta da Maurizio Forestieri e Anna Lucia Pisanelli, con la regia di Maurizio Forestieri.

 

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ALEX PLAYER

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Su Rai Gulp arriva una serie dedicata agli eSport. Tutti i giorni, alle 9.25 e alle 15.35 e disponibile in boxset su RaiPlay

Il fenomeno degli eSport ha conquistato rapidamente una fetta crescente di pubblico in tutto il mondo, evolvendosi da una nicchia per appassionati a un vero e proprio fenomeno di massa. Le competizioni virtuali, che vedono atleti professionisti sfidarsi in titoli videoludici di successo, sono ormai riconosciute come eventi sportivi a tutti gli effetti, con tornei che attraggono milioni di spettatori online e offline. Ma cosa sta alimentando questa ascesa vertiginosa? Oltre alla spettacolarità e all’innovazione tecnologica dei giochi, gli eSport stanno diventando sempre più una forma di intrattenimento globale, accessibile e coinvolgente. In questo articolo esploreremo i fattori che contribuiscono a questo straordinario successo, analizzando le dinamiche che stanno trasformando un passatempo digitale in una vera e propria industria multimiliardaria. A questo mondo, molto amato dai giovanissimi, è dedicata la nuova serie animata “Alex Player”, in onda in prima visione, tutti i giorni, alle 9.25 e 15.35 su Rai Gulp e disponibile in boxset anche su RaiPlay. Alex Player affronta l’importanza dell’amicizia, i valori dell’eSport, il lavoro di squadra, il saper superare i propri ostacoli, e la complessità di gestire una competizione di alto livello insieme alla vita di tutti giorni, a scuola e in famiglia. Alex Player esplora diversi temi, tra cui accettare gli altri e le loro differenze, il beneficio delle avversità, imparare a crescere insieme attraverso le sconfitte e le vittorie, il sessismo, la rivalità, il brivido dello sport. La serie butta giù i cliché, rivelando il valore del fair play nel mondo dei videogiochi. Nel corso delle 26 puntate vengono seguite le epiche avventure dei giovani giocatori sia nella loro vita reale (in 2D) che nel mondo di “Land of Titans” (in 3D) e si scoprirà come questa passione tra ragazzini e adolescenti può essere un evento sportivo di alto livello!  Quest’anno, è il turno della scuola Belmont di ospitare il campionato interregionale tra scuole dell’eSport “Land of Titans”. E’ un’opportunità per riunire le migliori squadre sotto i quindici anni della regione! Camille, Amy e Mike sono coloro che formano la squadra locale, le Manguste. Costretti a sostituire il loro capitano, conoscono Alex, un carismatico e appassionato giocatore di calcio… ma una totale schiappa in fatto di video game! Eppure, Alex si scopre essere particolarmente dotato. Ma cosa più importante, ha tutte le caratteristiche per essere un vero Capitano, capace di tirar fuori il meglio da ciascuno di loro! Insieme, questi outsiders si sfideranno con la squadra che detiene il titolo del Campionato, i potenti Dragoni, nonché contro gli Onyx e le loro super naturali tattiche di difesa, le Campionesse con la loro leggendaria velocità, e specialmente contro i Cobra, imbroglioni compulsivi.

 

 

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Nella mente di Narciso

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Raccontare per prevenire. In esclusiva su RaiPlay i nuovi episodi della docuserie di successo con Roberta Bruzzone: l’unico modo per vincere con un manipolatore narcisista è non giocare al suo gioco

Il delitto di Temù, piccolo e tranquillo paesino della Lombardia e il caso Tramontano-Impagnatiello, sono i fatti di cronaca nera affrontati nei nuovi episodi di “Nella mente di Narciso”, la docuserie di Rai Contenuti Digitali e Transmediali, dal 22 gennaio in esclusiva su RaiPlay, condotta da Roberta Bruzzone e che ha raggiunto un milione di visualizzazioni. La criminologa e psicologa forense, indaga nella personalità degli assassini definendo il profilo del narcisista maligno e propone un intenso viaggio nella mente del killer partendo da efferati delitti.  Puntata dopo puntata Bruzzone, supportata da una griglia che raccoglie tutte le caratteristiche specifiche di una personalità distorta di matrice narcisistica, entra nella mente degli assassini al centro delle vicende raccontate, dimostrando come siano affetti da disturbi specifici evidenziando tutte le ripercussioni devastanti sulle loro vittime. «Con i casi di Laura Ziliani e di Giulia Tramontano – spiega Roberta Bruzzone – avremo modo di esplorare altre due tipologie di scenari di chiara matrice narcisistica all’interno del perimetro più ampio delle relazioni affettive. In particolare approfondiremo i vari ruoli all’interno del cosiddetto “trio diabolico” nel piano criminale per eliminare Laura Ziliani. Non deve essere stato difficile sedurre Silvia e Paola Zani per un soggetto come Mirto Milani. Prima la maggiore, approfittando delle sue fragilità. Poi la sorella minore, decisamente più strutturata della prima ma anch’essa sensibile alle lusinghe dell’aspirante cantante lirico. Il caso di Giulia Tramontano – prosegue Bruzzone – ci consentirà di descrivere in maniera precisa il funzionamento psicologico nel cosiddetto narcisismo overt di cui Alessandro Impagnatiello risulta essere una sostanziale incarnazione. Verranno descritte in maniera chirurgica tutte le fasi della relazione con questo genere di narcisisti maligni e le trappole manipolatorie più insidiose di cui viene disseminata la relazione». “Nella mente di Narciso”, otto puntate dal 25 minuti, offre uno sguardo profondo su personalità oscure ed inquietanti e vuole fornire al pubblico una sorta di manuale d’istruzione per riconoscere i principali segnali che possono portare a una pericolosa escalation e allontanare possibili narcisisti maligni. Sono già disponibili su RaiPlay le puntate dedicate a Benno Neumair che uccise a casa sua i genitori, Peter Neumair e Laura Perselli, utilizzando una corda da alpinismo, e a Sarah Scazzi strangolata dalla cugina Sabrina Misseri e dalla zia Cosima Serrano, condannate all’ergastolo.

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La farfalla impazzita

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L’urgenza di non dimenticare

«Era come cristallizzata, congelata in quel dolore profondo, in quel passato dal quale non riusciva a liberarsi» racconta Elena Sofia Ricci, protagonista de “La farfalla impazzita”, la vera storia di Giulia Spizzichino, ebrea romana, segnata dalle deportazioni e dalla strage delle Fosse Ardeatine, in cui vennero uccisi ben ventisei dei suoi familiari. Per tutta la sua vita, Giulia ha sbattuto incessantemente le sue ali, senza riuscire a trovare pace e un luogo dove posarsi. Liberamente tratto dall’omonimo libro di Giulia Spizzichino e Roberto Riccardi (Casa Editrice Giuntina), il Film Tv di Kiko Rosati sarà trasmesso in prima serata Rai 1 il 29 gennaio. La sua distribuzione internazionale è affidata a Rai Com

La “farfalla impazzita”: così i familiari e gli amici più intimi chiamavano Giulia Spizzichino, ebrea romana, segnata dalle deportazioni e dalla strage delle Fosse Ardeatine, in cui vennero uccisi ben ventisei dei suoi familiari. In tutta la sua vita, che si è conclusa il 13 dicembre del 2016 a 90 anni, Giulia è stata proprio come quella farfalla che sbatte incessantemente le ali, senza riuscire a trovare pace e un luogo dove posarsi. All’epoca della retata al Ghetto di Roma, il 16 ottobre 1943, Giulia che aveva solo diciassette anni, fu testimone degli arresti del nonno, degli zii e dei cugini. A quel tragico giorno, ne seguirono altri terribili, segnati delle persecuzioni e delle fughe con la sua famiglia, fino alla prima metà del ’44. Quando finalmente la guerra finì, fu impossibile per lei dimenticare e vivere una giovinezza spensierata fatta di balli, amiche, primi amori. Fu impossibile anche, più avanti negli anni, amare davvero un uomo fino in fondo, costruire con lui una famiglia. Mezzo secolo più tardi, i fantasmi di un passato mai dimenticato, torneranno a chiederle giustizia. È il 1994: Giulia Spizzichino, vede scorrere la foto della mamma, morta da poco, in un filmato in onda nel corso del programma Rai “Combat Film”. La madre, in quelle immagini di repertorio, stava riconoscendo le salme dei suoi parenti uccisi nell’eccidio delle Fosse Ardeatine del marzo ’44 attraverso i pezzetti di stoffa dei loro vestiti, tanto erano aggrovigliati e irriconoscibili i corpi di tutte le vittime. Giulia pochi giorni dopo si convince con difficoltà a presentarsi nello stesso studio televisivo, riaprendo una voragine del suo passato e ricordare tutto. Piange e dice che non può esserci perdono, ma che deve esserci giustizia. La contatta allora l’avvocato Restelli, rappresentante della Comunità ebraica romana: le autorità italiane stanno chiedendo l’estradizione dall’Argentina di Erich Priebke, il criminale nazista che aveva eseguito l’ordine di fucilazione alle Fosse Ardeatine. Restelli, nonostante l’iniziale reticenza di Giulia, la convince a partire con lui per Bariloche, la cittadina andina dove Priebke si è ricostruito una vita, nell’intento di mobilitare l’opinione pubblica in favore dell’estradizione. A Bariloche Giulia trova inaspettatamente, una donna con cui percepisce molte affinità e che le dà la forza che non pensava di avere: è Elena, una delle Madri di Plaza de Mayo, l’associazione che riunisce le madri dei desaparecidos. Grazie all’amicizia speciale che si instaura tra loro, Giulia trova il coraggio di reagire e si fa portavoce dell’istanza di giustizia, in un discorso pubblico a Buenos Aires che smuove gli animi: “Perché le vittime sono tutte uguali, come lo sono i carnefici”. È il maggio 1994: la missione riesce, ma è solo la prima tappa di un’altra lunga storia, quella del processo a Priebke che si svolgerà poi a Roma. Nonostante il dolore sopito per tanti anni, Giulia troverà qui la forza di testimoniare, riaprendo una ferita dolorosissima. E lo farà per una necessità: alimentare la Memoria, perché non si ripeta mai più l’orrore della Shoah, che le aveva portato via in un colpo solo, tre generazioni di uomini e donne della sua famiglia.

 

ELENA SOFIA RICCI

GIULIA SPIZZICHINO

Ebrea romana, era solo una ragazzina quando nel 1944 perse ventisei dei suoi parenti, rastrellati dai nazisti e portati a morire ad Auschwitz e alle Fosse Ardeatine. Cinquant’anni dopo, quando l’esecutore materiale di quella strage, Erich Priebke, viene ritrovato in Argentina e potrebbe essere processato, Giulia è una donna aspra e dura, resa pietra e ghiaccio dalla tragedia che non riesce a dimenticare. Vive con i morti – le rimprovera il figlio – e non si accorge dei vivi, di quei vivi che, come lui, le vogliono bene. Quel distacco traumatico e crudele dalle tante persone della sua famiglia – il nonno, gli zii e le zie, ma soprattutto il suo cuginetto Marco di soli cinque anni – l’hanno resa una donna fredda e distaccata, incapace di lasciarsi andare a un sentimento d’amore, anche con il figlio, il marito e la nipotina. La decisione di partecipare al risveglio dell’opinione pubblica per chiedere l’estradizione di Priebke dall’Argentina e quella poi di testimoniare al processo proprio di fronte a lui, riaprono in lei quelle ferite che, con l’armatura che si era costruita negli anni, teneva nascoste, ma che sono ancora aperte e dolorose. Ma solo così Giulia per non potendo dimenticare, riuscirà almeno a sentirsi più libera.

 

Come ha vissuto questa esperienza?

Questi sono film importanti, e quando mi è stato proposto ho tremato. Non è la prima volta che interpreto una donna realmente vissuta, e non è mai facile, ma nel caso di Giulia Spizzichino la responsabilità che ho avvertito era immensa. Ho studiato molto: ho letto il libro, recuperato tantissime sue interviste per comprendere non solo il suo modo di parlare, le pause, ma soprattutto l’enormità del suo dolore. Quello che più mi ha colpito di Giulia è stato il suo sguardo: non guardava mai in basso, raramente fissava l’interlocutore. Era come cristallizzata, congelata in quel dolore profondo, in quel passato dal quale non riusciva a liberarsi.

 

Cosa direbbe oggi Giulia Spizzichino a questa nostra umanità?

Credo che sarebbe molto arrabbiata. Stiamo assistendo al ritorno di dinamiche che somigliano spaventosamente a quelle di ottant’anni fa. Giulia cercava giustizia, non voleva che Priebke fosse condannato a pene esemplari o morisse in carcere, ma desiderava che fosse ritenuto colpevole, e questo è ciò che dovremmo volere tutti: giustizia. La strage delle Fosse Ardeatine ci ricorda che non furono uccisi solo ebrei, ma anche partigiani e persone comuni. L’esperienza di Giulia ci insegna è che il rispetto per l’altro – sia esso un popolo, una religione, o qualunque altra realtà – deve essere il fondamento della convivenza. Non si può sopraffare, invadere o calpestare nessuno. Se oggi ci dimentichiamo tutto questo, allora a cosa sono serviti tutti quei morti? È un orrore.

 

Qual è secondo lei il messaggio più potente di questa storia?

Nel film mi sono concessa una piccola licenza, ispirandomi a un pensiero del maestro Camilleri, che ho usato durante la scena della conferenza in Argentina. Questo potrebbe essere il sottotitolo del film: “Tutti i carnefici sono carnefici, tutte le vittime sono vittime, in ogni tempo e in ogni luogo.” Questa frase dovrebbe risuonare forte e chiara dentro ciascuno di noi, ogni giorno. Come ricorda anche Giulia nel film, gli uomini capaci di tali orrori non sono come le bestie: sono peggiori. Le bestie uccidono per paura, per fame. Gli uomini, invece, uccidono per gelosia, rivalità, potere, denaro. Ed è proprio questo che li rende colpevoli. E noi oggi siamo colpevoli: continuiamo a ripetere gli errori del passato.

 

Come ha vissuto Giulia da “farfalla impazzita”?

Raccontare quel congelamento emotivo che Giulia si era imposta per sopravvivere al dolore è stato estremamente difficile. La perdita di ventisei familiari, tra Auschwitz e le Fosse Ardeatine, l’aveva segnata profondamente. Era come bloccata, incapace di vivere pienamente il presente, di amare il marito, il figlio e le persone a lei vicine come avrebbe voluto. Anche godersi la vita, quella che le era stata risparmiata, le risultava impossibile. Giulia era una sopravvissuta, ma viveva con il senso di colpa per essere rimasta viva, e questo senso di colpa le ha impedito di vivere appieno.

 

Dopo il Giorno della Memoria…

Non basta un solo Giorno della Memoria, dovremmo arrivare a 335 Giorni della Memoria, così come dovremmo avere 365 giorni dedicati alla lotta contro la violenza sulle donne e tutte le discriminazioni. Non dobbiamo mai dimenticare il nostro passato, il nostro orribile passato. Non dobbiamo mai dimenticare che le donne devono essere rispettate e che, insieme, possono fare moltissimo. Nel film “La farfalla impazzita”, Giulia ci fa un grande regalo raccontando la sua esperienza in Argentina, dove si è unita alle madri dei desaparecidos. Le tragedie e le perdite si intrecciano: le storie di persecuzioni diverse viaggiano sullo stesso binario. Questo è un film importante, capace di parlare a tutti noi, soprattutto alle nostre coscienze.

 

MASSIMO WERTMÜLLER
UMBERTO

Marito e compagno di vita di Giulia. Ha un carattere molto diverso da lei, più bonario, aperto e solare. Pur non essendo ebreo ha vissuto la stessa tragedia di Giulia, ha sempre saputo starle vicino, rispettando il suo dolore e anche sopportando la sua corazza emotiva. Nel corso della storia, diventa una spalla importante per lei: la spinge ad affrontare questa nuova dolorosa avventura del processo e fa da contraltare all’atteggiamento del figlio, con il quale finisce anche per scontrarsi.

 

Una storia che viene dal passato, che svela però tutta la sua contemporaneità…

La pagina della Shoah rappresenta, a mio avviso, una delle più commoventi della storia umana, proprio perché è anche una delle più orribili. Certo, ci sono state altre tragedie immense, come quella di Francisco Pizarro, quella della schiavitù e, purtroppo, molte altre che testimoniano come l’essere umano sia, spesso, l’animale più pericoloso sulla Terra. E oggi questi orrori non solo ritornano, ma qualcuno arriva persino a provarne nostalgia. Stiamo vivendo un momento storico mondiale in cui la parola “memoria” sembra scritta sulle nostre coscienze con la lettera minuscola: la nostra memoria collettiva appare breve, insufficiente, fragile. Per questo, credo che sia necessario introdurre obbligatoriamente nelle scuole una nuova materia: la memoria. Tre ore alla settimana dedicate a ricordare, a riflettere, a capire.

 

Interessante…

Se penso, per esempio, a un personaggio storico come Gengis Khan, possiamo definirlo universalmente un uomo crudele, ma lo facciamo “sulla fiducia”, perché non esistevano cineprese che potessero documentare le sue atrocità. Nel caso della Seconda guerra mondiale e della Shoah, invece, abbiamo una mole di testimonianze dirette: dai filmati di John Ford a quelli dell’Istituto Luce. Non abbiamo alibi per non ricordare l’orrore di cui stiamo parlando. Per questo motivo ritengo che lo studio della memoria debba diventare obbligatorio. Altrimenti continueremo a vedere persone che scherzano con parole come guerra, che le banalizzano, magari giocando a fare gli eroi dietro una tastiera. E invece dobbiamo sapere bene cos’è una guerra. Un film come questo è, senza dubbio, urgente, necessario, importante, utile, prezioso.

 

Nel film interpreta il marito di Giulia Spizzichino. Quanto è stato complesso stare accanto alla sofferenza di questa donna?

Mi sono concentrato molto su questo aspetto, su come raccontare la figura di un marito che, pur non essendo ebreo, si è caricato del dolore della moglie per amore. Un uomo che ha saputo restare accanto a lei con discrezione, dolcezza e grazia, sostenendola nel silenzio mentre affrontava i fantasmi del passato. Umberto ha aiutato Giulia a combattere le sue battaglie, come quella per denunciare Priebke e affrontare il processo in tribunale. A differenza del figlio, che le chiedeva di fermarsi per non soffrire oltre, abbiamo immaginato un uomo capace di farsi motore della sua ricerca di giustizia. È un personaggio che vive nell’ombra, ma la sua forza e il suo amore sono stati essenziali per darle il coraggio di andare avanti.

 

Il regista Kiko Rosati racconta

«Approcciare un film come “La Farfalla Impazzita” non è cosa facile: si porta sullo schermo una storia importante, che parla della nostra Storia e si va quindi, oltre l’intrattenimento. Giulia Spizzichino racconta come l’orrore della guerra travolga spesso vittime innocenti, bambini, anziani, e questo racconto lo fa attraverso i suoi occhi, quelli di una ragazza di diciassette anni che vede rastrellare tutta la sua famiglia, tutte le persone a cui vuole bene, che non rivedrà più: un’immagine indelebile che vive nella memoria di Giulia ormai grande, madre e nonna. Questa storia trae poi la sua potenza anche dall’accostamento della storia di Giulia a quella di tante altre vittime, di ogni tempo e ogni luogo, non solo quelle ebree della Seconda Guerra Mondiale. Questo accade attraverso il confronto con il personaggio di Elena, una delle Abuelas di Plaza de Mayo, l’associazione delle donne che in Argentina lotta ancora oggi per scoprire la verità sui loro figli e nipoti desaparesidos, scomparsi, e chiedere giustizia. Giulia Spizzichino ascolta con gli occhi lucidi la storia di questa donna, che in fondo non è diversa dalla sua, e da lei prende la forza di continuare la sua battaglia. Le vittime sono vittime e i carnefici sono carnefici, ovunque e sempre. Questo è ciò che la storia di Giulia Spizzichino ha l’urgenza di portare sullo schermo. Raccontare questo dramma non è cosa facile, è una storia che ha avuto bisogno di tutto l’impegno possibile, impegno che ho visto anche e soprattutto, negli occhi di Elena Sofia Ricci quando entrava in scena e portava davanti la macchina da presa il personaggio di Giulia, con la sua sofferenza. Non nascondo che lavorare con Elena Sofia Ricci è stato per me un grande piacere e mi ha facilitato il compito di raccontare questa storia: Elena Sofia ha preso per mano il personaggio, l’ha fatto suo e l’ha accompagnato per tutto l’arco narrativo del film. Non da meno sono stati tutti gli altri attori che abbiamo scelto: tutti hanno dato il massimo, consapevoli che la storia che stavamo raccontando andava trattata con il massimo rispetto e la più grande dedizione. Un altro aspetto del lavoro fatto su questo film che mi piace sottolineare, è la cura e l’attenzione con cui sono stati ricostruiti gli anni Quaranta e gli anni Novanta. Grazie al lavoro della costumista Sara Fanelli e dello scenografo Massimiliano Sturiale, lo spettatore viene trasportato in un’ambientazione autentica e realistica, che contribuisce a immergerlo nella narrazione e ad agganciarlo emotivamente. In conclusione, “La Farfalla Impazzita” rappresenta un importante contributo alla memoria storica e alla riflessione sulla violenza e sul dolore causati dalla guerra. Grazie al contributo di tutti i miei collaboratori e alla bravura degli attori che ho diretto, il film riesce a trasmettere con forza l’urgenza di non dimenticare le atrocità del passato e di lottare anche oggi per la giustizia e la verità.»

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Itaca. Il ritorno

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Nelle sale da giovedì 30 gennaio il film diretto da Uberto Pasolini con Juliette Binoche, Ralph Fiennes, Charlie Plummer, Marwan Kenzari, Claudio Santamaria e Angela Molina

Un’Odissea dello spirito, senza viaggi, senza mostri, senza dei. Solo un uomo sfinito che torna a casa dopo anni di lontananza, una moglie tenace che lotta per mantenere la fede in un suo inatteso ritorno e il viaggio di un figlio verso l’età adulta, diviso tra l’amore per sua madre e il peso del mito di suo padre. Una famiglia separata dal tempo e dalla guerra, riunita dall’amore, dal senso di colpa e dalla violenza. Arriva nelle sale giovedì 30 gennaio “Itaca Il ritorno” di Uberto Pasolini, coprodotto da Rai Cinema e distribuito da 01.“The Return nasce dalla mia passione per l’epica di Omero e dallo straordinario fatto che, nonostante l’ubiquità dell’Odissea nella cultura occidentale e dei suoi temi universali e senza tempo, il cinema non ha mai reso giustizia alla storia del ritorno di questo soldato alla sua terra, a sua moglie e a suo figlio – dice afferma il regista – oggi l’opera di Omero ci costringe a confrontarci con la tragedia della guerra, di chi la combatte e di chi rimane indietro, in una maniera che appare incredibilmente e tristemente attuale. Trattandosi di una storia di ritorno e di redenzione dalla guerra, il mio interesse è sempre stato non tanto per l’elemento del fantastico delle peregrinazioni di Odisseo, quanto più per il ricongiungimento dei personaggi alla fine del viaggio. Quindi, pur conservando alcuni dei momenti più iconici dell’epopea di Omero, la nostra è un’Odissea della mente, senza viaggi, senza mostri, senza dei, il percorso di una famiglia che trova il modo di riunirsi contro gli ostacoli esterni ma, soprattutto, contro quelli del proprio cuore”. Il film si concentra sulla dimensione umana della storia: Odisseo, Penelope e Telemaco intraprendono un drammatico viaggio dell’anima mentre affrontano le conseguenze del conflitto. Nonostante l’ambientazione d’epoca, si tratta di una storia del nostro tempo, raccontata come un thriller teso, viscerale e commovente. La combinazione di questa rivisitazione di un soggetto classico, con la potenza di interpreti del calibro di Ralph Fiennes e Juliette Binoche (per la prima volta riuniti sullo schermo dopo Il paziente inglese) e l’elevata intelligenza emotiva e sensibilità del regista, conferiscono al film un respiro internazionale. “I miti sopravvivono perché sono storie avvincenti, credibili e incredibili allo stesso tempo – conclude il regista – i loro personaggi sono più grandi della vita ma anche, in sostanza, umani. In questo film, prendiamo un antico mito conosciuto in tutto il mondo, con cui molte persone hanno un legame affettivo (lo conoscono, lo amano, lo riconoscono), e guidiamo il pubblico alla scoperta della verità umana che si cela dietro quell’antica storia ereditata, trovando nelle figure mitiche esseri umani come noi”. Del cast fanno parte Fiennes Charlie Plummer, Marwan Kenzari, Claudio Santamaria e Angela Molina

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STEFANO DE MARTINO

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Sempre con i piedi per terra

Mentre nel preserale di Rai 1 fa ascolti record con “Affari tuoi”, da martedì 28 gennaio il conduttore partenopeo sarà per la settima volta alla guida di “Stasera tutto è possibile”, il popolare comedy show di prima serata di Rai 2. Protagonista di una stagione straordinaria, al RadiocorriereTv dichiara: «Vivo questo momento con tanta soddisfazione, ma anche con la consapevolezza che il vero successo è costruire ogni giorno un rapporto di fiducia e affetto con chi ci segue da casa»

Con “Affari tuoi” l’obiettivo dei 7 milioni di telespettatori è raggiunto. Come vive questo momento professionale e cosa prova di fronte a una risposta così affettuosa da parte del pubblico?

Sono grato e felice per questo risultato. “Affari tuoi” è un programma storico, e avere l’opportunità di condurlo è stato già di per sé un onore. Vivo questo momento con tanta soddisfazione, ma anche con la consapevolezza che il vero successo è costruire ogni giorno un rapporto di fiducia e affetto con chi ci segue da casa e che ogni sera sceglie di vedere “Affari Tuoi”. È il pubblico che dà senso al nostro lavoro, e ogni sorriso o messaggio positivo che arriva è per me il successo più grande.

 

Ritorna “Stasera tutto è possibile”, programma che le è molto familiare. Che stagione sarà e cosa la diverte di più di questo programma?

Mi sento carico ed entusiasta per questo ritorno di S.T.E.P. Ogni edizione porta con sé qualche novità, anche se il format rimane fedele a sé stesso. È un programma che amo perché è corale: ci si diverte insieme ad un cast di amici e agli ospiti che si mettono in gioco. Siamo un gruppo, e l’energia che si crea in studio è unica. Mi diverte molto la Stanza Inclinata, ormai un’icona del programma, perché ogni volta riesce a strappare risate sia a chi è sul palco sia a chi ci guarda da casa. È bello vedere come il pubblico continui a seguirci con affetto ed entusiasmo stagione dopo stagione.

 

Cosa le sta insegnando la palestra della Tv?

Che non ci si deve mai fermare o pensare di aver raggiunto il traguardo, perché il percorso è lungo e c’è sempre da imparare. La televisione è una palestra continua, soprattutto se fai un programma quotidiano: ogni puntata puoi aggiustare il tiro, affinare un dettaglio, ed è molto bello vedere come cresce la relazione con il pubblico.

 

Parola chiave della sua conduzione è empatia, con il pubblico e con gli ospiti… quanta Napoli e quanta “strada” ci sono nella sua Tv?

Empatia è una parola fondamentale per me, sia nei confronti del pubblico che degli ospiti o concorrenti.  Napoli in questo senso è stata la mia prima palestra dove imparare a stare tra le persone, a leggere gli sguardi, le emozioni, e a trovare sempre il canale giusto per connetterti con gli altri.

 

Che cosa significa per lei avere successo nella vita e nella professione?

Significa continuare a lavorare facendo un lavoro che ho sempre sognato, grato delle opportunità, e restare con i piedi per terra, concentrato su quello che sto facendo ora, provando a godermelo un po’.

 

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