La Tv nel pozzo

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La morte del piccolo Alfredino Rampi a Vermicino, tragedia alla quale gli italiani assistettero in diretta nella più lunga diretta della storia della Tv. Il documentario di Andrea Porporati, con la voce narrante di Fabrizio Gifuni, fa ritorno a quei drammatici giorni. Venerdì 13 giugno alle ore 21.20 su Rai 2

La foto di un bambino che sorride, con una maglietta a righe. All’inizio è solo una istantanea di famiglia conservata su di un mobile nel soggiorno di una casa di Roma. Quella stessa foto finisce sulla prima pagina di un giornale, poi di tutti i giornali. Riempie lo schermo alle spalle dei conduttori dei Tg nazionali. Quarant’anni dopo la ritroviamo su una lapide, imbrattata da una svastica. Oggi lo stesso bambino della foto, con la maglietta a righe sorride ai passanti dalla facciata di un palazzo alto venti metri. È un murales realizzato nel quartiere romano della Garbatella. Il bambino nella foto è Alfredo Rampi, ma il documentario di Andrea Porporati non vuole raccontare la cronaca della sua storia, ma piuttosto chi l’ha raccontata. Vuole raccontare i media, che hanno fatto loro la storia di Alfredo Rampi e che l’hanno elaborato, e ne sono stati elaborati, distaccandola dal fatto e dalle persone reali, trasformandola in un punto cardine della coscienza collettiva. Lo farà attraverso il materiale di repertorio della più lunga diretta della storia della tv italiana e attraverso il ricordo di chi all’epoca ne è stato spettatore, o protagonista: giornalisti, ex soccorritori, psicologi, semplici testimoni, tutti coinvolti nel trauma collettivo che ha scosso la coscienza del paese e di chi anche a distanza di anni ha elaborato lo choc di quei tre giorni di giugno scrivendo libri, canzoni, graphic novel o realizzando quel murale: dal cantautore Francesco Bianconi dei Baustelle al romanziere Giuseppe Genna, al regista Marco Pontecorvo, allo scrittore e autore tv Massimo Gamba, ai giornalisti RAI che parteciparono alla diretta Rai, Piero Badaloni, Pierluigi Camilli, Andrea Melodia, dalle firme della carta stampata, Fabrizio Paladini e Massimo Lugli, agli psicologi Daniele Biondo e Rita Di Iorio, oggi presidenti onorari della Onlus Alfredo Rampi. E con la voce narrante di Fabrizio Gifuni. “Quello che un film documentario si propone è per definizione il racconto del reale. Ma in questo caso si vuole raccontare un tipo particolare di ‘realtà’, quella che i media hanno costruito attorno alla tragedia svoltasi nel 1981 a Vermicino, un sobborgo di Roma, trasformando la cronaca di un bambino caduto in un pozzo artesiano in una favola che si voleva a lieto fine e che invece è divenuta una tragedia senza sbocchi”, dice il regista Andrea Porporati. “‘La Tv nel pozzo’ – prosegue – vuole raccontare la diretta tv a reti unificate che per ore e giorni ha inseguito la realtà di quel fatto così drammatico, personale, umano, facendosela sfuggire tra le dita e incastrando un popolo di milioni di spettatori in un circolo vizioso di vita e di morte. Il linguaggio del documentario mescolea le lingue delle infinite incarnazioni che i Media hanno prodotto a partire dalla storia di Vermicino, televisive innanzitutto, ma anche letterarie, musicali, poetiche: da romanzi a canzoni e serie tv, da graphic novels a murales dipinti sui palazzi di Roma. La scommessa è capovolgere il punto di vista, puntare l’obiettivo non sulla storia di “Alfredino”, ma sui Media che hanno preteso di raccontarla, usando le telecamere o l’inchiostro delle rotative come la bacchetta magica di un apprendista stregone e venendone travolti, assieme a milioni di spettatori. Umberto Eco in un suo saggio ha definito il racconto della tragedia di Vermicino come la fine della possibilità di raccontare la realtà. E ha sottolineato come questo allontanamento dalla verità, avvenisse proprio nel momento in cui, usando per la prima volta la diretta senza limiti di tempo e senza il condizionamento di una regia, di un montaggio, la televisione immaginava di “diventare” realtà, di incarnarla. E invece la strumentalizzava e ne veniva a sua volta strumentalizzata. Perché la realtà non ha linguaggio, non ha regole, semmai ha un destino. E non può che travolgere o fare impazzire chi cerca di intrappolarla, domarla, costringerla nello spazio di uno schermo”.

 

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TIM SUMMER HITS

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La musica più bella dell’estate

Da venerdì 13 giugno in prima serata su Rai 1, Rai Radio 2 e RaiPlay l’evento musicale più atteso della stagione. Ottanta artisti sul palco, quattro serate di grande musica per cantare, divertirsi e ballare, in Piazza del Popolo a Roma come nel salotto di casa. Con Carlo Conti e Andrea Delogu

Saranno gli artisti più cantati e ballati dell’estate, protagonisti con i loro brani dei tormentoni che spopoleranno nei mesi più caldi dell’anno. Sono gli oltre 80 big che si alterneranno sul palco delle quattro serate di Tim Summer Hits in onda dal 13 giugno ogni venerdì su Rai 1! A condurre lo show, da Piazza del Popolo a Roma, Carlo Conti e Andrea Delogu. “È meraviglioso vedere le piazze piene di persone che si riuniscono per ascoltare la musica e divertirsi in libertà – dice il conduttore – speriamo che nei paesi devastati dalla guerra, dove purtroppo questo non è possibile, si possa presto raggiungere la pace e tornare a vivere una vita normale”.

ACHILLE LAURO | AIELLO | ALESSANDRA AMOROSO | ALEX BRITTI | ALEX WYSE | ALFA | ANNALISA | ANTONIA | A-CLARK, VINNY e IVA ZANICCHI | BABY K | BENJI & FEDE| BIGMAMA | BNKR44 | BOOMDABASH e LOREDANA BERTÈ| BRESH | BRUNORI SAS | CAPO PLAZA | CARL BRAVE | CHIAMAMIFARO | CHIARA GALIAZZO | CLARA | CLEMENTINO | COEZ | COMA_COSE | CRISTIANO MALGIOGLIO | DIODATO | EMIS KILLA | ERMAL META | EUGENIO IN VIA DI GIOIA | FABIO ROVAZZI, PAOLA IEZZI e DANI FAIV | FEDEZ | FINLEY e NINA ZILLI | FRANCESCA MICHIELIN | FRANCESCO GABBANI | FRANCESCO RENGA | FRED DE PALMA | FUCKYOURCLIQUE | FULMINACCI | GABRY PONTE | GAIA | GHALI | GIGI D’ALESSIO | JACOPO SOL | JOAN THIELE | LDA | LEO GASSMANN | LEVANTE | LORELLA CUCCARINI | LORENZO FRAGOLA | LUCHÈ | LUDWIG e SABRINA SALERNO | MARCO MASINI | MICHELE BRAVI e MIDA | NEGRAMARO | NEK | NOEMI | OLLY | ORIETTA BERTI | PATTY PRAVO | PLANET FUNK | RAF | RIKI | RKOMI | ROCCO HUNT | ROSE VILLAIN | SAL DA VINCI | SANGIOVANNI | SARAH TOSCANO | SAYF | SERENA BRANCALE | SETTEMBRE | SHABLO + GUESTS | TANANAI | THE KOLORS | TREDICIPIETRO | TRIGNO | TROPICO | VALE LP e LIL JOLIE | VENERUS.

TIM Summer Hits andrà in onda in contemporanea su Rai Radio2 con le interviste e i contenuti esclusivi dal backstage di Carolina Di Domenico, e sarà disponibile anche su RaiPlay. Firmato da Direzione Intrattenimento Prime Time, TIM Summer Hits è un branded content di Rai Pubblicità e TIM, prodotto da Friends Tv, in collaborazione con Roma Capitale – Assessorato ai Grandi Eventi.

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MILO INFANTE

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Dalla parte della verità… anche di sera

Dopo ottocento puntate trasmesse con un successo crescente nel pomeriggio di Rai 2 nel corso di cinque edizioni, “Ore 14” conquista la prima serata. Il conduttore al RadiocorriereTv: «Non sarà un “processo televisivo”, ma un’analisi delle indagini che partirà dall’esame delle prove. Consapevoli che, come insegna l’esperienza, non c’è mai niente di certo». Da giovedì 12 giugno alle 21.30

Dopo una lunga stagione di successo nel daytime “Ore 14” arriva in prima serata…

È un progetto che in realtà ci viene proposto da diverso tempo. Non si tratta di una nuova trasmissione, ma dei temi, delle storie di “Ore 14”, che arrivano in prima serata. Proporremo una versione serale del programma, con una narrazione sempre molto attenta alle sensibilità ma che si concederà qualcosa in più sul crime, sulle indagini. Certo, arriviamo in un momento non facile, in cui tutti i programmi di tutte le emittenti, nazionali e locali, si sono gettati sulla cronaca.

Come saranno strutturate le puntate serali?

Per storie. Ognuna avrà un proprio approfondimento che nasce dal materiale raccolto durante la quotidiana e altro inedito. Avremo momenti in cui proporremo testimonianze a favore e contrarie alle tesi, ma sempre nell’ottica del confronto. Non sarà un “processo televisivo”, bensì un’analisi delle indagini: esamineremo le prove. L’esperienza, anche recente, insegna che non c’è niente di certo, che certe prove, anche scientifiche, che venivano presentate come inoppugnabili, a distanza di anni vengono demolite, ricostruite, ripresentate.

Come è cambiato, nel tempo, il tuo vivere la cronaca e il modo di raccontarla?

Oggi ci troviamo a dover salvaguardare la narrazione corretta da una contaminazione spaventosa di fake news, di personaggi che si inventano professionisti, che inventa storie e che propinano menzogne spesso costruite ad arte, a volte riportate in maniera inopportuna, ma che attirano l’attenzione del pubblico. Mai come in questo momento ci sarebbe bisogno di una grande pulizia. Mi riferisco soprattutto al web dove dilaga il peggio, dove presunti esperti si mascherano dietro false lauree, diplomi, specializzazioni, curricula da investigatori, ma in realtà sono poco più di mitomani che fanno un danno devastante all’informazione. Mai come in questo momento una notizia ascoltata o letta sul web, viene percepita come una notizia vera. E da lì in poi è un disastro.

Cosa deve avere un caso di cronaca per colpire l’immaginario collettivo?

Una volta c’erano le tre “s” di Nino Nutrizio, mitico direttore de “La Notte”: sesso, sangue e soldi. In realtà a colpire è oggi la straordinaria banalità del male, l’orrore del male che colpisce il nostro quotidiano, i nostri figli. Una volta c’era il “giallone”, c’era la mantide della Brianza, c’era la ballerina del night che riusciva a sedurre, ingannare e armare la mano di un uomo, oggi scopriamo che l’assassino di nostra figlia è il coetaneo, è il fidanzatino, un ragazzo di poco più grande. Oggi scopriamo che l’assassino è il coinquilino che abbiamo accolto in casa perché avevamo bisogno di affittare una stanza, è la persona che ti uccide per poche decine di euro, è il vicino a cui dai fastidio perché fai il barbecue, è il fratello con il quale contendi l’eredità di un genitore. Questo è ciò che ci colpisce e che non riusciamo a spiegarci, che terrorizza e ci spaventa. Credo che mai come in questo momento, soprattutto i genitori, guardino con attenzione i propri figli, e li vedano non solo nei panni della vittima ma anche del carnefice. Dobbiamo ripartire dai nostri figli.

Quale caso porterai con te dell’anno televisivo che va a concludersi?

Sempre Denise, mi accompagna perché è proprio l’emblema dell’ingiustizia, della vittima che resta sola. È questo che anche autorevoli critici a volte non capiscono, ossia che quello che loro chiamano il giallo, la cronaca nera, sono storie di grande sofferenza. Che tu devi conoscere dal di dentro, non da fuori. La grande ingiustizia del caso di Denise è rappresentata dai genitori rimasti soli, laddove lo Stato ha smesso da tempo di cercarla. La storia devastante di questi ultimi mesi è sicuramente quella di Giulia Tramontano, di questa ragazza che sta per partorire massacrata dal compagno, dal padre del bambino che porta in grembo, che peraltro ha cercato di avvelenarla nel corso della gravidanza. Quando tu racconti queste storie ti chiedi quanta umanità possa esserci in un uomo che fa una cosa del genere. E non la vedi perché non c’è un briciolo di umanità.

Alla base del successo di un programma di Servizio Pubblico c’è sempre la grande determinazione…

È un gruppo di lavoro composto da ragazzi molto giovani che stanno imparando a una velocità impressionante quello che i vecchi professionisti come me cercano di trasmettere. Il più giovane dei miei collaboratori, entrato due anni fa nella squadra, senza esperienza, è oggi uno degli autori di prima serata. La cronaca è una palestra dura, ruvida, il nostro non è il salotto buono. Vivo nella mia redazione quello che ho vissuto per molti anni nei giornali, è un mestiere in cui lavori sempre, le storie le porti con te, solo così riesci a raccontarle.

Un invito al pubblico di “Ore 14” a proseguire insieme a voi questo lungo viaggio…

Sono anni che ci chiedete di andare in prima serata (sorride). Adesso che ci siamo guai a voi se non ci sarete. Non fate scherzi, giovedì alle 21.30 circa su Rai 2.

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ANDREA DELOGU

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La mia vita nella musica

È al timone del “Tim Summer Hits” (anche quest’anno con Carlo Conti) sin dalla prima edizione. La sua cifra è quella del divertimento, della passione per la musica e dell’energia. La conduttrice romagnola al RadiocorriereTv: «L’energia! La musica, le piazze… sono già di per sé una combinazione esplosiva. E poi c’è Carlo, che mi fa morire dal ridere dietro le quinte. E senti che l’estate è iniziata»

Con l’estate tornano il Tim Summer Hits e la grande musica…

Ci sono tutti gli artisti che il pubblico ha imparato ad amare, ma anche tanti nuovi volti che si sono fatti conoscere e riconoscere in questo ultimo periodo. In realtà la musica è sempre nuova, perché riflette l’attualità. E poi ci sono anche grandi nomi perché l’obiettivo è quello di accontentare tutti. Chiunque segua il “Tim Summer Hits”, qualsiasi età abbia, deve trovare qualcosa che lo faccia emozionare.

Cosa la entusiasma di più di questo grande show musicale?

L’energia! La musica, l’estate, le piazze… sono già di per sé una combinazione esplosiva. E poi c’è Carlo Conti, che mi fa morire dal ridere dietro le quinte: è un burlone, fa scherzi a tutti! È divertente. E senti proprio che l’estate è iniziata. Per me, che sono di Rimini, è il massimo.

La cifra dello show è la spontaneità…

Tutto quello che si vede in onda succede davvero in diretta, a braccio.

Qual è il segreto per portare l’energia del palco direttamente nelle case degli italiani?

Conoscere bene quello che si sta facendo e divertirsi, sempre. Se non ti diverti davvero, non funziona. Noi siamo dei privilegiati a stare sul palco, ed è giusto che ce lo godiamo anche per chi in quel momento è a casa. Dobbiamo portare entusiasmo per tutti coloro che rappresentiamo in quell’istante.

Qual è il suo rapporto con la musica?

Sono nata e cresciuta nella musica, si può immaginare: vengo da una regione dove i concerti all’aperto, le discoteche, fanno parte della cultura. Poi mi sono trasferita a Roma, dove ogni giorno c’è un evento: una festa, un concerto, un DJ set, un’opera.  Lavoro in radio, quindi la musica è davvero la mia quotidianità.

C’è un momento di queste quattro edizioni che le è rimasto nel cuore più di altri?

Quando ho fatto venire tutta la mia famiglia nel backstage. Essere lì, sul palco, e sapere che le persone con cui sono cresciuta erano lì con me è stato davvero emozionante. Un momento che non dimenticherò.

Negli ultimi anni è diventata un volto sempre più amato della TV: c’è stato un momento in cui ha capito che anche il piccolo schermo sarebbe stato “il suo posto”?

Quando i miei vicini di casa hanno cominciato a dirmi: “Ti ho vista, mi è piaciuto quello che hai fatto.” Hanno iniziato a riconoscermi! È stato lì che ho capito che le persone stavano davvero guardando il mio lavoro. È stato emozionante, perché una cosa è quando te lo dice tua madre, ma quando arrivano questi segnali dall’esterno, capisci che stai lasciando il segno.

Quanto conta per lei l’espressione estetica nella comunicazione?

Per me è importantissima, ma attenzione: non parlo solo di bellezza, che è un altro discorso. Parlo proprio dell’estetica del look, dei vestiti. C’è un lavoro dietro enorme. Mi affido a professionisti, ma seguo sempre il mio gusto. È un modo per raccontare anche l’epoca che stiamo vivendo. Se guardo una foto di quattro anni fa, ricordo esattamente cosa stava succedendo in quel momento. Trovo stimolante avere più strati di comunicazione.

Un tormentone che non dimentica?

“Estate 1992” di Jovanotti. Adesso Jova tra l’altro è in tour, quindi ci sta tutto!

Com’era il ritornello?

Estate 1992, anno dell’Europa Unita, delle mie delle tue vacanze, automobili giù tutti i finestrini, anche i più grandi che ritornan bambini (sorride).

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Visioni disegnate, realtà generate

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Lorenzo Ceccotti, in arte LRNZ, ha ricevuto il prestigioso Premio Sergio Bonelli nel corso della 29esima edizione del Festival di Cartoons on the Bay promosso da Rai e organizzato da Rai Com a Pescara. Autore visivo, fumettista, animatore e pioniere dell’arte generativa digitale, racconta al RadiocorriereTv il suo rapporto con il disegno, l’animazione e l’intelligenza artificiale, senza rinunciare a uno sguardo critico sul futuro della creatività

Tra i tanti linguaggi che attraversa ce n’è uno che sente più suo, o le piace abitare quel territorio di confine dove tutto si mescola?

Mi definisco un autore visivo: tutto ciò che ruota intorno alle immagini mi affascina profondamente. Se dovessi individuare un elemento cardine attorno al quale si muove tutto il mio lavoro, direi senza esitazione: il disegno. È il punto di partenza di ogni mia attività creativa. Il disegno è il mio strumento primo, la mia lingua madre. Da lì parte tutto.

Che rapporto ha con la sperimentazione?

Mi piace spaziare, cambiare medium, misurarmi con tecniche diverse, purché ci sia una componente visiva forte e significativa.

A cosa sta lavorando in questo periodo?

Al secondo volume della mia trilogia “Geist Maschine, che sarà composta da tre volumi “assoluti”, come mi piace definirli, ognuno con una forte autonomia ma anche legati tra loro da un percorso narrativo e simbolico. La trilogia si concluderà con il terzo volume, ovviamente.

Com’è arrivato all’animazione e al cinema?

Il mio primo vero progetto lungo nel campo dell’animazione si chiama “The Dark Side of the Sun”, realizzato insieme a Carlo Hintermann tra il 2012 e il 2013. È stato coprodotto da Rai Cinema, NHK, e altre realtà internazionali. Un documentario ibrido, metà live action, metà animazione, che raccontava la storia di un bambino affetto da xeroderma pigmentoso, una malattia rarissima che impone l’assoluta assenza di esposizione alla luce solare. L’animazione, per me, è un campo affascinante ma anche complesso: la vivo in modo laterale, quasi tangenziale. Il mio lavoro principale resta legato al disegno e al fumetto, che sono linguaggi più solitari, più autonomi, con tempi e costi molto diversi.

Preferisce lavorare da solo o in team?

Il fumetto è un lavoro solipsistico, autarchico, sei solo con te stesso e con la tua immaginazione. Non hai limiti di budget: puoi disegnare un’esplosione nucleare o l’universo intero senza chiedere finanziamenti. Nell’animazione, invece, entri in una dimensione corale, collaborativa. I progetti diventano più grandi, più ambiziosi, ma anche più faticosi, fisicamente e mentalmente. Ogni volta che entro in un progetto di animazione lo vivo come una boccata d’aria fresca, ma so anche che sarà uno sforzo titanico.

Quali sono i suoi modelli estetici?

Essendo un disegnatore, i miei riferimenti sono spesso statici, anche se ho lavorato molto con la motion graphics. Mi sento vicino alla visione giapponese dell’animazione: pochi disegni, ma ben scelti, capaci di dare potenza al movimento. Non ho mai amato la fluidità esasperata. Preferisco l’impatto visivo, l’essenzialità. Anche nei miei lavori animati, tendo a mantenere frame rate bassi, ma con un’attenzione estrema alla bellezza del singolo fotogramma.

Come vive il rapporto tra l’animazione e l’intelligenza artificiale? Spesso si è espresso in maniera piuttosto netta…

Si tratta di un tema che mi sta molto a cuore. Faccio arte generativa dagli anni Novanta, sono un autore digitale della prima ora. L’arte generativa non è una novità per me. Però bisogna distinguere tra tecnica e industria. In pratica, le IA generative commerciali funzionano in un modo che io trovo problematico. L’artista, in questi casi, non ha alcun controllo sui dati usati per addestrare il sistema. È semplicemente un cliente di una piattaforma chiusa, che non sai cosa usa né come è stata costruita. È un prodotto industriale, non un dispositivo artistico.

Non è però una posizione contraria, giusto?

Assolutamente no. Noi come collettivo di artisti non siamo contro l’intelligenza artificiale in sé, sarebbe ridicolo. Siamo contro il modello di business di certe aziende private che sfruttano dati per addestrare i loro modelli, e poi vendere servizi sul nostro stesso mercato. Questo è inaccettabile. Usano opere d’arte, stili, dati personali, violano diritti d’autore e poi ti fanno concorrenza usando il tuo stesso lavoro. È una violazione brutale.

Come sta vivendo questa esperienza a “Cartoons on the Bay” dal punto di vista professionale?

Per me è la prima volta. Non ero mai stato qui prima e, facendo il fumettista, mi capita più spesso di partecipare a fiere del fumetto piuttosto che a eventi legati all’animazione. Ogni volta che metto piede in un contesto come questo, resto colpito dal livello di organizzazione industriale che lo caratterizza: è un mondo molto strutturato, distante dalla mia esperienza, che è invece più sporadica, occasionale, e fatta spesso di progetti che si aprono e si chiudono rapidamente. Per questo sono curioso di girare tra gli stand, scambiare due chiacchiere con gli addetti ai lavori, che stimo profondamente. I cartoni animati sono una cosa meravigliosa, mica solo per bambini!

Si è detto sorpreso dell’assegnazione del “Premio Sergio Bonelli” ricevuto…

Sì, una sorpresa totale, non me l’aspettavo affatto. Ricevere un premio così importante è qualcosa di speciale e sono profondamente grato alla giuria e alla manifestazione. Ogni volta che mi capita un riconoscimento, lo accolgo con felicità, anche se confesso che non capisco mai fino in fondo perché sia toccato proprio a me: ci sono tantissimi autori bravissimi. Però, come si dice, un premio non si rifiuta mai!

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La sinistra che non c’è

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Rai Libri presenta il nuovo lavoro di Fausto Bertinotti, disponibile anche negli store digitali

Fausto Bertinotti, una delle figure più influenti della politica italiana degli ultimi decenni, racconta, dalla prospettiva di un protagonista e di un osservatore in prima linea, la parabola della sinistra contemporanea. L’inizio del declino si può far risalire storicamente al crollo dell’Unione Sovietica, quando – insieme con il socialismo reale e le sue storture – viene meno un mito della sinistra: la possibilità di un’alternativa al capitalismo. Dalla lotta rivoluzionaria si è passati così alla sinistra riformista, che ha accompagnato il consolidamento dell’Europa sulla base delle ragioni del mercato e dei vincoli di debito, abbandonando Marx (senza superarlo) e la lotta di classe. Il neoliberismo e la globalizzazione hanno fatto il resto, relegando ai margini le voci dei lavoratori e delle lavoratrici. Intanto, in Italia e nel mondo, la politica annegava nella spettacolarizzazione e sceglieva di parlare non secondo giustizia e verità ma alla “pancia del Paese” oppure facendo propria la lingua del mercato. Non più una politica di alti ideali ma una politica servile e di corto respiro: quando i partiti progressisti si sono allineati a questa tendenza, è venuto meno anche l’impegno in favore delle rivendicazioni del lavoro. Cosa rimane allora della sinistra? Da dove è necessario ripartire e a cosa si può mirare? Fausto Bertinotti prova a spiegarcelo in questa lucida e penetrante analisi, attingendo alla sua esperienza diretta e alla visione maturata nella lunga militanza politica.

Fausto Bertinotti, sindacalista e politico, è stato segretario nazionale della CGIL, segretario del Partito della Rifondazione Comunista dal 1994 al 2006, presidente della Camera dei Deputati dal 2006 al 2008, europarlamentare e presidente del Partito della Sinistra Europea. Nel 2013 è stato insignito della Legion d’onore, la più alta onorificenza attribuita dalla Repubblica francese.

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JACOPO VENEZIANI

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Le case, l’arte e gli artisti

Da Carducci a Manzoni, da Leopardi a Michelangelo. Dal 2 giugno, dal lunedì al venerdì alle 20.20 su Rai 3, “Vita d’artista”, il nuovo programma che porta nelle case dei grandi protagonisti dell’arte e della cultura italiana. Il conduttore esplora luoghi autentici in cui gli oggetti diventano chiavi per raccontare storie intime

Cosa l’ha spinta a ideare un programma che entra nelle case private degli artisti?

È nata un po’ come una scommessa. Nelle piazze italiane ci sono tanti monumenti in bronzo che un tempo erano esseri umani: Manzoni, Leopardi, Michelangelo, Canova. Ci siamo detti: “E se provassimo a entrare nelle loro case, per restituire loro un po’ di quella umanità che il tempo e la fama hanno trasformato in mito?”. Aprendo cassetti, osservando armadi, strumenti, oggetti personali… L’idea è proprio questa: riportare all’umanità figure che oggi sembrano quasi scollegate dal nostro mondo, congelate nel tempo come statue.

Come ha scelto gli artisti protagonisti del programma? Cosa li rendeva particolarmente adatti a questo tipo di narrazione?

Siamo partiti dalle case. Cercavamo luoghi che fossero rimasti il più possibile intatti, autentici, come se l’artista fosse appena uscito un attimo. A Casa Canova, ad esempio, sembra che lui sia uscito a comprare il pane; la stessa sensazione l’abbiamo avuta a Casa Leopardi e a Casa Manzoni. Non volevamo case diventate musei, con teche e didascalie, ma ambienti ancora caldi, abitati, vivi. Il nostro è stato un lavoro di ricerca quasi archeologica della vita quotidiana.

Il programma punta a un linguaggio moderno e accessibile. Come avete lavorato per rendere la storia dell’arte fruibile a un pubblico ampio?

Abbiamo cercato di mettere in primo piano le storie, non le nozioni da manuale. Ad esempio, parlando di Leopardi, non ci siamo limitati a descrivere un suo ritratto dal punto di vista stilistico. Ci siamo chiesti: come si vedeva lui? Si sentiva bello o brutto? Che immagine aveva di sé? E siamo andati a fondo, leggendo lettere, testimonianze, per scoprire questo aspetto personale. Per me l’arte è sempre un tentativo di comunicazione: qualcuno che vuole dire qualcosa a qualcun altro, usando non le parole ma un oggetto, un’opera. Il nostro lavoro è stato quello di amplificare quel messaggio, renderlo più umano, quindi più universale.

Qual è stata la scoperta più sorprendente o emozionante visitando questi spazi privati?

A Casa Pascoli, ad esempio. Pascoli è un nome che molti associano solo alle antologie scolastiche. Ma scoprirne il lato intimo è stato davvero emozionante. In casa sua c’è una stufa che non è mai stata accesa perché, nella canna fumaria, aveva trovato un nido di api e non voleva disturbarle. E ancora oggi, in quella canna, vivono le loro discendenti. È il segno di un Pascoli tenero, sensibile, che nel giardino disegnava tombe per il suo cane e per un merlo con cui viveva. Dietro a ogni oggetto si nasconde una storia che parla.

Come riesce a raccontare la personalità degli artisti attraverso oggetti e ambienti domestici?

Mi chiedo sempre: in che momento quell’oggetto è entrato nella vita dell’artista? Cosa ci racconta di lui? Sulla scrivania di Carducci a Bologna, ad esempio, c’è un orso intagliato nel legno. Un souvenir delle sue vacanze a Courmayeur. E uno pensa: “Davvero Carducci sciava come un milanese?”. Sì, lo faceva. Oppure la tabacchiera di Manzoni: sempre con lui, tanto che il pittore Francesco Hayez l’ha dipinta nel suo ritratto, nascosta ma presente. Ogni oggetto è un grumo di storie, come quelli che abbiamo nelle nostre case: ricordi, regali, tracce di vita.

Come siete riusciti a trasformare queste storie in un racconto televisivo contemporaneo e pop?

Anche la musica ha avuto un ruolo fondamentale. Volevo che il programma avesse ritmo, non fosse il classico documentario patinato. Così, ad esempio, per raccontare il tempio neoclassico di Canova a Possagno, invece di usare musica d’epoca abbiamo scelto Billie Eilish. Immagini col drone, musica moderna: è un modo per dire che anche Canova può essere vicino a noi. La regia, le scelte sonore, tutto ha contribuito a dare un linguaggio più fresco, immediato.

Quali temi o messaggi spera che il pubblico porti con sé dopo aver visto Vita d’Artista?

Spero che riesca a sentire questi grandi nomi meno lontani. A volte li percepiamo come statue irraggiungibili, ma in realtà erano persone. Con un talento immenso, certo, ma anche con paure, abitudini, amori, stranezze. Se riusciamo a vederli come simili a noi, ci avvicineremo anche alla loro arte in modo più diretto e spontaneo. Alla fine, sono persone che ci hanno lasciato qualcosa per comunicare con noi. E noi possiamo ancora rispondere.

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SPECIALE ULISSE

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Hiroshima e Nagasaki: i giorni che cambiarono il mondo

In occasione degli ottant’anni dal lancio delle bombe atomiche avvenuto nell’agosto del 1945, Alberto Angela ripercorre le tappe fondamentali di un evento che ha segnato la storia dell’umanità. Lunedì 2 giugno in prima serata su Rai 1

“Hiroshima e Nagasaki: i giorni che cambiarono il mondo” è il titolo dello speciale di “Ulisse, il piacere della scoperta”, il programma di Alberto Angela che Rai Cultura propone lunedì 2 giugno alle 21.30 su Rai 1. In questa puntata si cercherà di capire come la bomba atomica venne realizzata e come si arrivò alla decisione di sganciarla sul Giappone. Si ripercorreranno le ragioni militari e politiche che hanno portato alla nascita del “progetto Manhattan”, con l’eccezionale gruppo di scienziati che vi lavorò, tra cui Oppenheimer ed Enrico Fermi, che svolse un ruolo decisivo, e di cui si visiterà la storica palazzina che un tempo era il suo laboratorio di ricerca, in via Panisperna, a Roma. In Giappone Alberto Angela accompagnerà gli spettatori in alcuni dei luoghi protagonisti di questa pagina della storia: Hiroshima e Nagasaki, le due città che furono scelte come obiettivo delle prime bombe atomiche. Ricostruzioni filmate faranno rivivere ciò che accadde sull’Enola Gay, l’aereo che il 6 agosto 1945, effettuò la missione su Hiroshima, grazie anche alla testimonianza di chi era a bordo. A Hiroshima Alberto Angela racconterà gli effetti dello sgancio della prima bomba nucleare, attraverso alcuni dei luoghi simbolo di quella tragedia come il Genbaku Dome, la Cupola della bomba atomica, e il Museo della Pace di Hiroshima che contiene alcune delle più toccanti testimonianze di quei giorni. Ulisse si sposterà quindi a Nagasaki, la città che sarà colpita dalla seconda bomba atomica, per ripercorrere le tappe che portarono alla sua distruzione il 9 agosto del 1945. Una puntata durante la quale si ascolteranno le voci degli hibakusha, i sopravvissuti delle due bombe atomiche, tra i quali Terumi Tanaka, rappresentante dell’associazione Nihon Hidankyo che nel dicembre 2024 è stata insignita del premio Nobel per la Pace per i suoi sforzi per realizzare un mondo libero dalle armi nucleari e aver portato avanti la testimonianza dei sopravvissuti.

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Ilaria e Miran sono tornati a casa

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Un murale nella sede Rai di Saxa Rubra a Roma ricorda la giornalista e l’operatore uccisi il 20 marzo del 1994 a Mogadiscio

Il colpo d’occhio è, anche, un colpo al cuore. Ilaria e Miran, coloratissimi, sorridenti, campeggiano sulla facciata della palazzina C di Saxa Rubra, lì dove si trova da sempre la redazione del Tg3 che ha atteso invano il loro ritorno. Ilaria Alpi e Miran Hrovatin sono stati uccisi il 20 marzo del 1994. Una morte che non ha ricevuto giustizia, nonostante le energie profuse dai genitori di Ilaria fino alla fine. Per questo una delle rose bianche nel murale reca le parole: “Noi non archiviamo”. L’Usigrai, il sindacato unitario dei giornalisti Rai, e il comitato di redazione del Tg3 si sono fatti artefici, in perfetta sintonia con i vertici aziendali, di questa iniziativa che va oltre il semplice ricordo e diventa memoria viva e impegno quotidiano per un’informazione fondata sulla verità, altra parola che incornicia i volti dei due giornalisti. Autrice del bozzetto Laika, street artist romana che ha fatto dell’anonimato la propria cifra. La realizzazione dell’opera è stata quindi affidata alla sua squadra che ha lavorato, all’interno del Centro radiotelevisivo Biagio Agnes, a partire dal 24 maggio, giorno in cui Ilaria avrebbe compiuto 64 anni. “Abbiamo voluto tatuarceli addosso” hanno dichiarato i membri del CdR del Tg3. Messe a dimora anche le rose bianche che un floricultore ha ibridato in onore di Ilaria e che erano state piantate nel giardino della sede di Viale Mazzini, attualmente chiusa.

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