Onde ribelli – 50 anni di libertà in FM

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Cinquant’anni fa, in Italia, le radio libere accendevano le frequenze dell’FM con la forza della passione, della disobbedienza creativa e del desiderio di raccontare il mondo fuori dai canali ufficiali. A celebrare quella rivoluzione è il docu-racconto in onda venerdì 2 maggio alle 16.15 su Rai 3, scritto e diretto da Maurizio Pizzuto. Un viaggio sonoro tra voci storiche, sogni collettivi e nuove prospettive. Ne parliamo proprio con l’autore e regista, per scoprire cosa resta e cosa ancora pulsa di quella straordinaria stagione di libertà

 

Dove nasce l’idea di raccontare la storia delle radio libere in Italia?

L’idea nasce da una passione personale e da un’urgenza storica. Da tempo sentivo che la storia delle radio libere, che hanno segnato una rivoluzione culturale e sociale in Italia, meritasse di essere raccontata con profondità. È un progetto che ho avuto a lungo nel cassetto, ma è maturato nel tempo, ascoltando voci, raccogliendo memorie, sentendo il bisogno di restituire quel patrimonio alle nuove generazioni. Raccontare le radio libere significa parlare di libertà, di creatività e di sogni collettivi: valori che non invecchiano mai. Poi, insieme con Pino Nano, con il quale abbiamo scritto il soggetto e la sceneggiatura, abbiamo cercato di condensare 50 anni della storia delle radio libere in un racconto che fosse coinvolgente, accessibile, ma anche rispettoso della complessità e della varietà di quella stagione straordinaria. È stato un viaggio nella memoria collettiva, e allo stesso tempo un gesto d’amore verso un’epoca che ha ancora molto da insegnarci. E farlo nel pieno del centenario della radio ha dato al progetto un significato ancora più forte: è diventata l’occasione per riflettere non solo sul passato, ma anche sul presente e sul futuro di un mezzo che, nonostante tutto, continua a pulsare di vita propria.

“Onde Ribelli” è un titolo potente. Cosa rappresentano oggi per lei quelle onde, e perché le definisce “ribelli”?

Quelle onde sono ribelli perché hanno infranto il silenzio imposto, hanno violato – in senso buono – l’etere monopolizzato, dando voce a chi non ne aveva. Ribelli perché libere, indipendenti, creative, improvvisate eppure vitali. Oggi, quelle onde rappresentano ancora una scintilla di autonomia e di espressione genuina: un modo di comunicare senza filtri, senza padroni. E in un’epoca in cui tutto è iper-controllato e mediato dagli algoritmi, quella ribellione suona più attuale che mai.

Nel documentario c’è un mix affascinante di testimonianze, immagini d’archivio, voci celebri e meno note. Com’è stato il lavoro di ricerca e selezione dei materiali?

È stato un lavoro lungo, appassionante e a tratti commovente. Abbiamo scavato negli archivi pubblici e privati, in vecchie cassette, fotografie, fanzine, volantini. Ogni ritaglio aveva una storia da raccontare. E poi le testimonianze: abbiamo cercato di dare spazio a voci famose, certo, ma anche a chi ha vissuto quella stagione con la stessa intensità, magari in una piccola radio di provincia. L’equilibrio tra noto e ignoto era fondamentale per restituire la coralità di quell’epoca.

Tra le tante voci del documentario c’è anche quella di Vasco Rossi, che racconta i suoi esordi. C’è un’intervista o un aneddoto che l’ha particolarmente colpita durante le riprese?

Sì, ce ne sono stati molti, ma uno degli aneddoti più sorprendenti è proprio quello raccontato da Vasco Rossi, quando rivela che, ancora ragazzo, con gli amici aveva costruito un piccolo trasmettitore artigianale per ascoltare i dischi che non si sentivano in radio. Trasmettevano dalla cucina e poi scendevano nell’aia ad ascoltare la musica con il sole in faccia. È un’immagine semplice ma potentissima, che racchiude lo spirito pionieristico e la libertà creativa delle radio libere. Quell’episodio mi ha colpito per la sua autenticità: c’era passione, ingegno e il desiderio di rompere il silenzio imposto dalla programmazione ufficiale. Un piccolo gesto che preannunciava una grande rivoluzione.

Che eredità ci ha lasciato oggi quel fermento delle radio degli anni ’70?

Ci ha lasciato il coraggio di provare, di dire, di sperimentare. Ci ha lasciato la consapevolezza che i media possono nascere dal basso, che la comunicazione non deve per forza passare dai grandi gruppi. E ci ha lasciato anche un’idea diversa di comunità: quella costruita con le voci, con la musica, con le parole scambiate in diretta. Un’eredità invisibile ma fortissima.

Nel documentario si parla anche del futuro della radio. Qual è il suo punto di vista sul ruolo dell’FM oggi, tra podcast, streaming e algoritmi?

L’FM oggi è un atto quasi poetico. Ha perso centralità ma non significato. È un linguaggio che resiste, e proprio per questo diventa più prezioso. Mentre podcast e streaming sono on demand, l’FM è “qui e ora”, come un abbraccio in tempo reale. Gli algoritmi ci dicono cosa ascoltare; la radio libera, invece, è una sorpresa. E noi abbiamo bisogno ancora di essere sorpresi.

Ha vissuto in prima persona la stagione delle radio libere? Che ricordi ha di quel tempo?

Sì, l’ho vissuta, sebbene da giovanissimo ascoltatore. Ricordo la magia di sentire una voce amica nella notte, il piacere della scoperta, le cassette registrate dalla radio, le dediche. Era un mondo vivo, imperfetto, ma pieno di umanità. Era come entrare in un salotto condiviso, senza bisogno di inviti. E col tempo, anche io mi sono cimentato davanti a un microfono: un’esperienza intensa e formativa, che mi ha fatto apprezzare ancora di più quel linguaggio diretto e intimo.

Se potesse mandare oggi un messaggio in FM, come si faceva una volta, cosa direbbe agli ascoltatori e alle ascoltatrici del 2025?

Direi: “Restate liberi, restate curiosi. Le frequenze del cuore non le può sintonizzare nessun algoritmo. Accendete la radio, fate silenzio, e ascoltate: c’è ancora qualcuno che parla davvero con voi.

 

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#1M2025

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Musica, Impegno e Spettacolo

Anche quest’anno, Rai celebra la Festa dei Lavoratori con una programmazione speciale: appuntamenti istituzionali, ampi spazi informativi e la lunga diretta del tradizionale Concerto da Piazza San Giovanni in Laterano a Roma. Una maratona di musica, spettacolo e riflessione sul lavoro. Lo slogan scelto dai Sindacati per il Primo Maggio 2025 è “Uniti per un lavoro sicuro”, dedicato al tema della salute e sicurezza nei luoghi di lavoro. I segretari generali parteciperanno a tre manifestazioni simboliche: Maurizio Landini (CGIL) a Roma, Daniela Fumarola (CISL) a Casteldaccia (PA) e Pierpaolo Bombardieri (UIL) a Montemurlo (PO), luoghi segnati da tragici incidenti sul lavoro. La diretta su Rai 3 inizierà alle 12.00 con la trasmissione, a cura del Tg3, della manifestazione unitaria dalle tre piazze, con interventi e testimonianze. Rai News offrirà un’ampia copertura dell’intera giornata, seguendo in diretta le principali iniziative sindacali. Nel pomeriggio, si accenderanno i riflettori sul grande Concerto di Piazza San Giovanni. Ospiti in studio e inviati speciali racconteranno la giornata con musica, interviste e collegamenti dal backstage. L’evento sarà visibile integralmente anche in streaming su www.rainews.rai.it. Anche il Giornale Radio Rai seguirà il Primo Maggio con servizi speciali, aggiornamenti nelle varie edizioni del GR e dirette su Rai Radio1. Gli inviati si alterneranno tra i cortei sindacali e il Concertone, con reportage e interviste. Su RaiPlay, il Concerto sarà disponibile in diretta e arricchito da clip esclusive, con tutte le esibizioni, i momenti salienti e le interviste dal backstage. Grande impegno anche da parte delle altre testate Rai, con approfondimenti dedicati al tema del lavoro e aggiornamenti da tutta Italia. Il Concerto del Primo Maggio, promosso da CGIL, CISL e UIL, giunge alla 35ª edizione: organizzato da iCompany, con la direzione artistica di Massimo Bonelli e la regia di Fabrizio Guttuso Alaimo, è uno degli eventi musicali più attesi dal pubblico, in programma dalle 15.00 fino a mezzanotte su Rai 3, RaiPlay, Rai Italia e Rai Radio2. A condurre il Concertone saranno Ermal Meta, Noemi e BigMama, con le incursioni del professore-star dei social Vincenzo Schettini. La lineup 2025 celebra la nuova scena d’autore italiana, intrecciando pop, elettronica, urban, cantautorato e rock. Sul palco, in ordine alfabetico: Achille Lauro, Alfa, Andrea Cerrato, Anna and Vulkan, Anna Carol, Anna Castiglia, Arisa, Bambole di Pezza, Brunori Sas, Carl Brave, Centomilacarie, Dente, Ele A, Elodie, Eugenio in Via di Gioia, Federica Abbate, Franco126, Fulminacci, Gabry Ponte, Gaia, Gazzelle, Ghali, Giglio, Giorgia, Giorgio Poi, Giulia Mei, I Benvegnù, Il Mago del Gelato, Joan Thiele, Legno & Gio Evan, Leo Gassmann, Luchè, Lucio Corsi, Mimì, Mondo Marcio, Orchestraccia ft. Mundial, Patagarri, Pierdavide Carone, Rocco Hunt, Senhit, Serena Brancale, Shablo con special guest, The Kolors, Tredici Pietro. L’opening dalle 13.30 sarà animato da Vincenzo Capua, Cyrus, Cosmonauti Borghesi, Joao Ratini, SOS – Save Our Souls e dai tre vincitori del contest 1MNEXT: Cordio, Dinìche e Fellow. Con Rai Radio2, il Primo Maggio si ascolta, si guarda e si vive: sarà la radio ufficiale del Concertone, trasmettendo l’intera giornata dalle 15.15 fino oltre la mezzanotte, in simulcast con Rai 3. Il backstage sarà animato dallo studio mobile di Rai Radio2, in collaborazione con SIAE. Subito dopo l’esibizione, gli artisti saranno intervistati a caldo dai conduttori Giulia Nannini e Julian Borghesan, che accompagneranno anche la finale di 1MNEXT. Il pomeriggio sarà guidato da Silvia Boschero fino alle 19.00, seguito dal consueto DJ set di Ema Stokholma, che farà ballare tutta Piazza San Giovanni. Dalle 20.00 in poi, Carolina Di Domenico e Pier Ferrantini condurranno la serata tra le esibizioni dei big e le interviste dietro le quinte. Non mancheranno i collegamenti con il Concerto Libero e Pensante di Taranto, grazie a Martina Martorano. Sui social di Rai Radio2, Rai 3 e RaiPlay saranno disponibili contenuti esclusivi, foto, video e retroscena dal 29 aprile fino al giorno del concerto. Anche quest’anno, il Concertone sarà pienamente accessibile grazie a Rai Pubblica Utilità: sottotitoli in diretta sulla pagina 777 di Televideo dalle 15.15, audiodescrizione attivabile dal canale audio dedicato e su RaiPlay dalle 20.00, diretta LIS (Lingua dei Segni Italiana) su RaiPlay e in presenza in Piazza San Giovanni, a partire dalle 20.00. Una squadra di interpreti e performer tradurrà live canzoni e interventi per rendere l’evento inclusivo per tutti.

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Michele Ruol

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Ho incontrato le mie storie armato di astuccio e righello

«Se penso alla scintilla che ha innescato tutto, mi viene in mente un ricordo piccolo e remoto: ero alle elementari, e dovevo descrivere il percorso che facevo per tornare a casa da scuola. A un certo punto ho aggiunto un drago a sbarrare la strada, e allora l’astuccio è diventato uno scudo, e il righello spada: è stato in quel momento che ho cominciato a scoprire che esisteva uno spazio dove poter inventare, ed esplorandolo ho poi realizzato che si trattava di un territorio senza confini.»

Una scintilla non può mancare se a parlare è Michele Ruol, autore di un piccolo miracolo chiamato “Inventario di quel che resta dopo che la foresta brucia”, inserito nella dozzina dei finalisti del Premio Strega 2025. Ruol è un medico specializzato in Chirurgia Pediatrica e in Anestesia e Rianimazione, ma l’amore per la scrittura è sempre stata fondamentale nella sua vita, in tutti i suoi aspetti: racconti, sceneggiature teatrali, narrativa.

«Mi è sempre stato chiaro che non avrei voluto rinunciare alla scrittura, ma ci ho messo anni a capire che ruolo, che spazio e che energie avrei potuto dedicarci. Il rapporto con la scrittura è un equilibrio fragile che ho costruito nel tempo, e che vive di fisiologici alti e bassi, di periodi di piena e altri di siccità.»

Come nasce una storia come “Inventario…”?

«Ero padre da poco, e avevo scoperto che diventare genitore aveva ampliato lo spettro del visibile: erano arrivate gioie che, pur attese, mi avevano stupito, non solo per intensità, ma anche per qualità: si trattava di un tipo di felicità che non sapevo di poter provare. Allo stesso tempo avevo scoperto che lo spettro emotivo si era ampliato anche sul fronte opposto, aprendo squarci su ansie e paure fino a quel momento inimmaginabili. Quello che racconto in questo romanzo è l’incendio che divampa nella vita di due genitori con la perdita dei figli, ma credo che la scintilla di quell’incendio, quella paura accecante e irrazionale, faccia parte della coda di gioia e dolore e stupore che i figli, come comete, lasciano nella loro esplorazione dell’universo. A questo si uniscono una serie di interrogativi aperti, collegati anche alla professione medica: come si sopravvive al dolore? L’arte, e la letteratura in particolare, per me può essere un modo per conoscere il mondo, esplorando il possibile e sollevando domande per cui non ho risposte. Scrivere è un andare a cercarle insieme ai miei personaggi.»

Essere nella dozzina dello Strega: emozioni, paure, incredulità?

«Sono molto grato a Walter Veltroni, che ha incontrato questo romanzo da presidente della giuria del Premio Campiello. Sinceramente non immaginavo che l’avrebbe preso a cuore al punto da proporlo allo Strega, né tantomeno che il libro sarebbe poi entrato in dozzina, soprattutto considerando la qualità e la quantità delle opere proposte. Vivo questo momento con grande gioia e gratitudine.»

Quanto conta una fascetta intorno a un libro?

«Sicuramente ha un peso: può aiutare il lettore a districarsi nella selva di libri che quotidianamente esce, ma può anche trarre in inganno, essere fuorviante. Certamente la fascetta di un premio, e di un premio prestigioso come lo Strega, rappresenta una possibilità per il libro di uscire allo scoperto, e questo vale in particolar modo per un autore esordiente o per una casa editrice indipendente che a volte rischia di rimanere sommersa dai meccanismi della distribuzione di catena. Può essere un’occasione di incontro tra il libro e nuovi potenziali lettori, ma non è l’unica: credo che ancora di più valgano i consigli di librai appassionati, il passaparola tra lettori entusiasti, i percorsi sotterranei e imprevedibili di un libro che passa di mano in mano.»

Cosa ti aspetti ora?

«Sono entusiasta all’idea di portare questo libro in giro per Italia insieme agli altri della dozzina: sono curioso degli incontri e degli scambi che nasceranno con nuovi lettori e con gli altri scrittori, e non vedo l’ora di scoprire le risonanze che si creeranno.»

Laura Costantini

 

 

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Gerri

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Una nuova serie crime sta per arrivare sulla rete ammiraglia del Servizio Pubblico. Dal 5 maggio, con Giulio Beranek e Valentina Romani, ci spostiamo in Puglia per seguire le vicende del poliziotto nato dalla penna di Giorgia Lepore

Trentacinque anni, occhi profondi e aria sfuggente, Gregorio Esposito, detto Gerri (Giulio Beranek), è un giovane ispettore di origine rom che risolve casi sotto il sole della Puglia. Provocatorio e solitario, Gerri esercita un grande fascino sulle donne da cui è a sua volta costantemente attratto, ma è anche un uomo inquieto con un passato doloroso ancora da elaborare e che non riesce a legarsi sentimentalmente a nessuna. Ma non è il classico poliziotto donnaiolo: Gerri ricerca di continuo un equilibrio sentimentale che poi, però, non è capace di mantenere nel tempo. Anche sul lavoro emergono le sue contraddizioni, studia con metodo i casi su cui indaga, prende appunti complicati per poi lanciarsi in decisioni avventate, a volte risolutive, altre pericolose. È sempre in bilico, tra presente e passato. Quando si occupa delle indagini e di casi particolarmente delicati che coinvolgono minori e persone fragili, lo fa sempre gettandovisi a capofitto e perdendo quel distacco necessario nella sua professione. Finisce così puntualmente per scatenare le ire del capo della Mobile, Santeramo (Massimo Wertmüller), e le invidie del collega Calandrini (Lorenzo Adorni). In Questura, però, c’è anche chi fa il tifo per lui: uno su tutti, Alfredo Marinetti (Fabrizio Ferracane), suo diretto superiore, che ormai lo considera come un figlio e lo invita ogni domenica a pranzo a casa sua, insieme alla moglie Claudia (Roberta Caronia). La viceispettrice Lea Coen (Valentina Romani), romana da poco trasferitasi in terra pugliese, sembra invece essere l’unica donna a non voler avere nulla a che fare con Esposito, intuendo che è un uomo ancora profondamente irrisolto. Ma si sa che fine fanno certi buoni propositi… Nella vita di Gerri, però, il passato continua a essere un vuoto che lui non intende riempire, finché Marinetti, sempre più preoccupato, decide di indagare di nascosto sulle sue origini, a partire dall’infanzia trascorsa in una casa-famiglia. Solo grazie a chi ha accanto, Gerri capirà che per affrontare il presente deve conoscere il proprio passato.

 

 

La prima puntata

EPISODIO 1 – I FIGLI SONO PEZZI DI CUORE

Trani. Il corpo senza vita di una ragazzina viene ritrovato lungo una spiaggia deserta, ma la vittima non è una qualunque: Rossella Albani è figlia di uno degli avvocati più potenti della zona. Le indagini si concentrano sui rapporti che gli Albani intessono con altri notabili della città, in particolare la famiglia Longo e quella del senatore La Guardia. Ma Gerri, seguendo il proprio istinto, inizia a percorrere una pista alternativa che coinvolge la giovane Lavinia, amica della vittima. In un pericoloso gioco di potere, dove tutti sembrano nascondere qualcosa, Gerri rischierà tutto, anche la propria vita, pur di scoprire la verità. Nel frattempo, Marinetti, preoccupato per il malessere che Gerri si porta dentro e che sfoga nel lavoro, decide di indagare sull’infanzia del giovane poliziotto.

 

EPISODIO 2 – COME LA NEVE AL SUD

È la notte di Natale. Gerri e Lea, gli unici rimasti di turno in Questura, si recano in un deposito abbandonato dove hanno segnalato dei colpi d’arma da fuoco. Qui scoprono che a sparare è stata l’arma di una loro collega, di cui si sono perse completamente le tracce. Nel corso dell’indagine i due poliziotti si imbattono nella realtà di Villa del Possibile, una struttura che accoglie donne in difficoltà e che nasconde loschi traffici. Mentre Marinetti continua a indagare sul passato di Gerri, anche grazie all’aiuto della vicequestore Giovanna Aquarica, il nostro Esposito si avvicina sempre di più a Lea, con la complicità della magica atmosfera natalizia di Trani.

 

La parola al regista, Giuseppe Bonito

«Quando ho letto le sceneggiature di “Gerri” ho aderito al progetto con grande entusiasmo, perché mi consentiva di proseguire anche nella serialità l’indagine su alcuni temi affrontati nei film che ho precedentemente realizzato: i legami problematici tra genitori e figli, il bisogno degli altri, la ricerca delle proprie radici, la conoscenza e l’accettazione di sé. Per questo motivo ho trovato che valesse davvero la pena fare conoscere al pubblico Gregorio Esposito detto Gerri, un giovane poliziotto di origine rom, creato nei romanzi dalla penna di Giorgia Lepore e trasposto nelle sceneggiature da Donatella Diamanti e Sofia Assirelli, che all’età di quattro anni è stato abbandonato dalla madre ed è cresciuto in una casa-famiglia.

La voragine affettiva che ha vissuto da bambino continua a viverla anche da adulto e la stessa domanda che lo tormentava da bambino lo tormenta anche da adulto: “Perché?”. Quel “Perché?” è il carburante narrativo della nostra serie. Gerri adulto non ha ancora lasciato andare Gerri bambino, sa che deve trovare una risposta a quel “Perché?”, anche se dolorosa. Lo deve a quel bambino. Ho sempre pensato a “Gerri” come a una sorta di romanzo di formazione, seppur vissuto da un uomo di trentacinque anni. Nei casi che affronta nel corso della serie, peraltro, protagonisti sono proprio spesso dei bambini che deve salvare o proteggere e questo fa scattare un senso di identificazione e connessione molto forte per cui Gerri Esposito non sempre riesce ad avere il giusto distacco emotivo necessario a un poliziotto e i suoi metodi, per quanto efficaci e risolutivi, non sempre sono ortodossi e spesso creano problemi con i suoi superiori.

Dal punto di vista registico ho impostato la serie in una sorta di equilibrio costante e dinamico tra la dimensione molto soggettiva e proiettiva di Gerri e la dimensione di grande racconto corale. La forma, il tono, lo stile nascono da questo continuo passaggio da una narrazione intima, soggettiva, a tratti visionaria in cui predomina lo sguardo di Gerri sulle cose, e in cui i movimenti della macchina da presa assumono un ruolo decisivo, a una narrazione corale in cui “Gerri” è innanzitutto una serie “di recitazione”. Il lavoro con gli attori per me è tutto. Non ho mai avuto dubbi su chi potesse interpretare Gerri. Dalla prima lettura aveva già il volto di Giulio Beranek, attore straordinario cresciuto in una famiglia di giostrai, che, pur non essendo rom, ha un vissuto molto affine per tanti motivi al ruolo che interpreta.

Giulio ha costantemente “nutrito” Gerri. L’ho voluto molto malinconico e molto sexy. Ho amato tantissimo anche tutti gli altri personaggi e ancor di più lavorare con un cast eccezionale. Intanto i personaggi che compongono l’universo femminile con il quale Gerri instaura rapporti tanto intensi quanto problematici, interpretati da Valentina Romani, Cristina Cappelli, Irene Ferri, Roberta Caronia, Carlotta Natoli. E poi i personaggi maschili: i magnifici gregari Lorenzo Adorni e Lorenzo Aloi, Massimo Wertmüller che era un attore con cui desideravo lavorare da sempre e Fabrizio Ferracane, che nella serie interpreta Marinetti, un commissario che è una sorta di padre adottivo di Gerri. Il lavoro con Fabrizio è stato quello di tratteggiare un personaggio che fosse allo stesso tempo un validissimo poliziotto molto tosto ma anche una persona di grande umanità e fragilità. Marinetti è il padre che Gerri non ha mai avuto e Gerri è il figlio che Marinetti non ha mai avuto. L’altra grande sfida è stata anche quella di fare convivere, mescolandoli costantemente, toni e registri molto diversi, direi quasi opposti: un certo carattere “blues” con l’ironia e la commedia (non posso non citare l’esilarante crisi matrimoniale che si consuma nel corso della serie tra la dottoressa della Scientifica interpretata da Cristina Pellegrino e l’anatomopatologo interpretato da Tony Laudadio), i casi di puntata raccontati a tratti anche con crudo realismo e le storie sentimentali, l’emozione e i sorrisi, l’adrenalina e la riflessione. “Gerri” è tutto questo e spero che il pubblico possa volergli bene come gli abbiamo voluto bene noi che l’abbiamo realizzato.»

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NINO FRASSICA

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Signore e Signori, il Festivallo

Metti insieme 75 edizioni di Sanremo, altrettante canzoni vincitrici, aneddoti e tanta ironia, ed ecco il festival dei festival, di cui l’attore siciliano è assoluto direttore artistico. Da martedì 29 aprile in seconda serata su Rai 2

 

Al direttore artistico del “Festivallo” è sufficiente dare del lei o serve un ulteriore gesto di ossequio?

Il lei va benissimo (sorride).

Direttore, che cosa vedremo?

“Festivallo” sarà un festival alla grande, che proporrà le canzoni vincitrici dei 75 Festival di Sanremo che si rimettono tutte in gara, per conoscere la vera vincitrice tra le vincitrici. Sarà un festival riassuntivo, con tutta la musica italiana che sarà giudicata da esperti, addetti ai lavori, opinionisti. Un festival a tutti gli effetti.

Ha già messo mano al regolamento?

Sarà un regolamento trasparente, la votazione avverrà in diretta. I vincitori di ogni serata si scontreranno in una finalissima.

Tra le 75 canzoni vincitrici dei Sanremo del passato, quali rimangono di più nel suo cuore?

Degli ultimi “La noia”, “Zitti e buoni”, “Due vite”, “Balorda nostalgia” vincitrice dell’ultima edizione. Delle vecchie penso a “Vola colomba”, a “Perdere l’amore”. E da noi ci saranno tutte, scopriremo il gusto degli italiani. Apparentemente il programma è normale, avrebbero potuto farlo Marco Liorni, Carlo Conti, Amadeus, solo che la Rai ha dato a me la direzione artistica. E le sorprese non mancheranno!

Lei che di “bravi presentatori” se ne intende, ci indica la caratteristica che non può mancare al presentatore del Festival di Sanremo?

Il bravo presentatore deve sapere fare tutto, proprio come quello di “Indietro tutta”: ballare, cantare, suonare, recitare… “Festivallo” sarà soprattutto spettacolo, e vedendo che la direzione artistica sarà la mia avremo molto surrealismo.

Negli ultimi anni al Festival sono arrivate le co-conduttrici, lei ne avrà una al suo fianco?

Le avremo, ma sarà una sorpresa, non facciamo nomi sino all’ultimo.

Nino, si avvicina un anniversario importante, sono passati 40 anni da “Quelli della notte”…

Era il 29 aprile del 1985 e il caso vuole, e parliamo proprio del caso, che con il “Festivallo” debutteremo il 29 aprile, sempre in seconda serata, sempre su Rai 2.

Che ricordo ha di quell’avventura straordinaria?

La grande sorpresa fu scoprire quanto al pubblico piacesse il programma. Già dopo la prima settimana “Quelli della notte” aveva conquistato i telespettatori, raggiungendo un indice di gradimento altissimo. Chi ci scopriva restava, si affezionava a quell’atmosfera, tutto grazie a Renzo Arbore.

Con “Quelli della notte” lei fece conoscere agli italiani Frate Antonino da Scasazza e i suoi racconti su Sani Gesualdi. Come vedrebbe il suo frate al “Festivallo”?

Frate Antonino andava a “Quelli della notte” perché voleva fare un concorso sui cuori buoni (Cuore T’Oro), che nelle intenzioni voleva premiare le buone azioni, ma non ci riuscì (sorride). Era questo il motivo che spingeva un uomo di chiesa, un po’ pazzo come lui, ad andare in Tv. Al “Festivallo” parlerebbe sicuramente al pubblico di Sani Gesualdi.

Frate Antonino, il Bravo Presentatore, il maresciallo Nino Cecchini: tra i suoi personaggi a quale si sente più vicino?

Non sono un virtuoso come Gigi Proietti, che faceva tanti personaggi. Sono semplicemente io, posso avere il saio, i brillantini, una divisa da maresciallo, ma la mia ambizione vera è quella di restare unico e riconoscibile. Quindi non parlerei di personaggi, al massimo di maschere. Totò, così come Stanlio e Ollio, erano sempre loro stessi. Non voglio paragonarmi a questi nome, ma con le dovute proporzioni l’ambizione è quella.

Tanti anni di televisione, trascorsi soprattutto in Rai, come vede il Servizio Pubblico?

La Rai è la mamma, è nostra, alla Rai vogliamo bene tutti. Gli altri sono canali privati che guardano all’utile. Certo, anche la Rai è sul mercato, ma è prima di tutto un servizio sociale.

Cosa prova di fronte al grande affetto del pubblico nei suoi confronti?

Mi meraviglia sempre, è bellissimo, talvolta mi chiedo se me lo merito. Il complimento più bello è quando qualcuno mi dice che grazie a ciò che facciamo, a un programma di cui faccio parte, ha superato un momento triste, difficile.

Le capita di ripensarsi all’inizio della carriera?

Sempre…

… che cosa prova per quel Nino?

Penso che avesse ragione a voler fare l’attore. Allora non mi aspettavo tutto questo successo, ma credo che anche se non avessi avuto la fortuna di incontrare Arbore, di crescere, sarei rimasto nel giro: un attore non ricco, non famoso, non popolare, ma pur sempre un attore.

Lei come alimenta il suo sorriso?

Con la spontaneità, l’improvvisazione. Amo la comicità non voluta.

Un invito ai “bravi telespettatori”, affinché seguano “Festivallo”…

Devono seguirlo per non perdersi una novità. Non sarei tornato a fare l’autore di un programma se non fosse stato originale. È una trasmissione diversa da quelle che ci sono state prima, di quelle che già abbiamo visto.

 

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ANNALISA BRUCHI

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Ricchi o poveri?

Capire l’economia per scegliere il futuro. Crisi, mutui, guerre, intelligenza artificiale: quanto ci riguarda davvero tutto questo? In una intervista coinvolgente, la giornalista, che su Rai 3 conduce il programma “Restart”, racconta il volume edito Rai Libri, scritto insieme all’economista Carlo D’Ippoliti. Un manuale adatto a tutti, per orientarsi tra scelte economiche quotidiane e grandi eventi globali. Perché non scegliere, anche in economia, è già una scelta

Com’è nata l’idea di questo libro e perché proprio adesso?

Lavoro con Carlo D’Ippoliti da tantissimi anni, è con lui che ho realizzato il mio primo programma. L’idea del libro è nata da una riflessione: sono 15 anni che viviamo in uno stato di crisi continua. Prima la crisi dei mutui subprime nel 2008, poi quella del debito sovrano nel 2010, la Grecia, lo spread, le riforme sulle pensioni e il lavoro. Poi il Covid, le guerre e ora di nuovo tensioni internazionali. Ci siamo detti: perché non provare a raccontare cosa è successo in questi anni? E soprattutto, come tutto questo ha impattato concretamente sulle tasche degli italiani.

Il libro collega i grandi eventi globali alla quotidianità delle persone…

Esatto. Spesso sentiamo parlare di crisi in Grecia o del Covid in Cina come se fossero lontani, ma tutto ha una ricaduta diretta su di noi. I mercati finanziari colpiscono i mercati rionali, letteralmente. Abbiamo cercato di spiegare questi meccanismi in modo semplice, accessibile. Non abbiamo la pretesa di dare soluzioni, anche perché non ne esistono di semplici, ma vogliamo dire che non scegliere non è una soluzione. Ogni giorno facciamo scelte economiche: dal mutuo alla macchina, dalla bolletta della luce agli investimenti.

Nel libro spiegate come le decisioni prese a livello internazionale abbiano effetti sul nostro quotidiano. Può farci un esempio concreto?

Proprio in questi giorni si parla di dazi. Le decisioni degli Stati Uniti sul commercio internazionale influiscono sul nostro export. L’Italia vive di esportazioni: vino, formaggi, ma anche alluminio, macchinari. Se le aziende vendono meno, investono meno, allora assumono meno. E se per sopravvivere devono alzare i prezzi, il costo ricade sul consumatore finale: il prosciutto, il vino, persino le automobili potrebbero costare di più. Un altro esempio è la BCE. Se la Banca Centrale Europea abbassa i tassi d’interesse, chi ha un mutuo a tasso variabile paga meno. Decisioni prese a Strasburgo o Francoforte influenzano la vita concreta delle persone: dalla rata del mutuo al valore della casa.

Quanto pesa la nostra disinformazione economica?

Tantissimo. La conoscenza ti fa risparmiare, ti rende più libero. In Italia siamo ancora molto indietro, soprattutto tra le donne: solo il 58 per cento ha un conto corrente personale. L’economia spaventa, ma se non ce ne occupiamo noi, se ne occupa lei di noi. E non sempre nel modo più gentile.

L’educazione finanziaria dovrebbe entrare nelle scuole?

Assolutamente sì. Se ne parla da anni. Nel libro tocchiamo anche il tema dell’intelligenza artificiale: in Cina è diventata materia obbligatoria già alle elementari. Dobbiamo capire che certe sfide vanno affrontate prima che ci travolgano.

Nel libro ci sono anche testimonianze di protagonisti del mondo economico e industriale. C’è un incontro che l’ha colpita in particolare?

Ho intervistato tantissime persone nel corso degli anni, ma nel libro ho scelto di inserire quelle che mi hanno colpito di più. Non tutti condividevano la stessa visione, ma ognuno di loro ha portato una prospettiva utile. Abbiamo ascoltato imprenditori, sindacalisti, economisti. Penso, ad esempio, a Luca De Meo, oggi amministratore delegato di Renault: essere a capo di una multinazionale francese non è da tutti. Con Carlo abbiamo voluto raccogliere le voci più significative.

Parlate anche di un “filo invisibile” tra i mercati internazionali e quelli locali. Quanto è sottile? O quanto è resistente?

È molto resistente, purtroppo. Lo vediamo tutti i giorni con l’andamento delle borse. In America, ad esempio, molti investono per potersi pagare la casa o le spese mediche. In Italia siamo più risparmiatori, ma anche da noi una parte della pensione è legata ai fondi. Le fluttuazioni dei mercati influiscono sul risparmio, sul presente e sul futuro delle famiglie.

Crisi climatica, guerre, rivoluzioni tecnologiche… Come influiscono sui nostri portafogli?

L’intelligenza artificiale potrebbe portare alla perdita di posti di lavoro, almeno inizialmente. Tutte le rivoluzioni hanno avuto questo effetto. E anche la transizione green lo ha dimostrato: settori come l’automotive si sono trovati in difficoltà, spesso perché poco preparati. Lo abbiamo visto con Stellantis, con Volkswagen, con Audi. L’auto elettrica costa di più e ha avuto impatti su produzione e occupazione. Anche qui: le scelte politiche e industriali si riflettono direttamente sul consumatore.

Il libro, però, lancia anche un messaggio di speranza.

Sì. Non voglio che resti solo la sensazione di problemi. Dico sempre che l’Italia è come il calabrone: secondo le leggi della fisica non dovrebbe volare, eppure vola. Siamo un Paese pieno di creatività, talento, eccellenze. Dalla moda al cibo, ma anche nella scienza e nella tecnologia. Abbiamo un grande potenziale, ma servono scelte coraggiose. Dobbiamo sviluppare la parte migliore di noi.

“Restart”, il programma che conduce su Rai 3, riesce a rendere l’economia accessibile a tutti. Qual è la sfida più grande in TV?

In passato andavamo in onda in seconda serata, oggi siamo nella fascia mattutina, con un pubblico magari meno specializzato. E invece ho scoperto che questi temi interessano tantissimo. Quando affrontiamo temi leggeri va bene, ma quando parliamo di economia, di macroeconomia, le persone sono molto coinvolte. Dopo 15 anni di crisi, la gente vuole capire.

 E qual è secondo lei la chiave per raccontare bene l’economia in TV?

Prima di tutto studiare. Non smetto mai di farlo. Poi, usare parole semplici. Se capisci davvero un concetto, riesci a spiegarlo con chiarezza. Con Carlo D’Ippoliti collaboriamo da 15 anni, per me è come fare un dottorato continuo. E lavorare insieme, per il libro, è stato naturale: ci siamo divisi i capitoli, ci siamo scambiati osservazioni. Nessuno scontro creativo, solo un bel lavoro di squadra. Il nostro obiettivo è questo: aiutare le persone a leggere il presente e orientarsi nel futuro.

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La scuola romana delle risate

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Un viaggio nella satira visionaria, popolare e dissacrante che ha segnato la cultura di Roma. Narrato da Carlo Verdone, in onda sabato 26 aprile in prima serata su Rai 3

Con Carlo Verdone narratore d’eccezione, “La scuola romana delle risate” in onda sabato 26 aprile in prima serata su Rai3 rende omaggio ai mostri sacri dell’intrattenimento romano, da Ettore Petrolini ad Alberto Sordi, da Aldo Fabrizi a Gigi Proietti, Anna Magnani, Monica Vitti, Carlo Verdone, Corrado Guzzanti, Zerocalcare. Attraverso i film del glorioso catalogo di Titanus, le immagini di repertorio dell’Istituto Luce e delle Teche Rai, il documentario  prodotto da Samarcanda Film – Luce Cinecittà, in collaborazione con Rai Documentari, ricostruisce la storia e il linguaggio di una comicità cinica e scanzonata, che ha saputo raccontare la realtà lasciando un segno indelebile nell’immaginario collettivo e influenzando profondamente la società italiana. A supportare il racconto, la colonna sonora di Tommaso Zanello, in arte Piotta, che intreccia suoni contemporanei e melodie evocative, mescolando rap e atmosfere più nostalgiche. A raccontare la loro esperienza e il rapporto con questa tradizione, alcuni dei più grandi artisti contemporanei: Corrado Guzzanti, Marco Giallini, Lillo, Virginia Raffaele, Anna Foglietta, Massimiliano Bruno, Enrico Brignano, Emanuela Fanelli, Stefano Rapone, Claudia Gerini, Serena Dandini, Enrico Vanzina, Ilenia Pastorelli, Luca Verdone, Zerocalcare. “La scuola romana delle risate” è un tributo alla grande tradizione satirica di Roma, un’opera che celebra l’ironia e la creatività di una città che ha sempre saputo ridere di sé stessa e della realtà che la circonda. Con una narrazione coinvolgente, il film esplora il modo in cui la capacità di ironizzare su tutto sia diventata parte integrante dell’identità romana, un’arte unica in Italia che si rinnova costantemente e continua a conquistare il pubblico di ogni generazione.

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Liliana

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Il documentario diretto da Ruggero Gabbai, presentato in anteprima alla Festa del Cinema di Roma e lo scorso gennaio nelle sale cinematografiche, ripercorre la testimonianza della senatrice a vita Liliana Segre: dall’arresto alla deportazione allo struggente ultimo addio al padre. Il 24 aprile in prima serata su Rai 3

Il docu-film di Ruggero Gabbai si basa su accostamenti, rimandi e contrasti tra il racconto storico e il ritratto contemporaneo di una delle donne più importanti del panorama italiano. Il lavoro, coprodotto da Rai Cinema, mette in luce gli aspetti meno conosciuti della senatrice, facendo scoprire una figura culturale e politica moderna e appassionata nel trasmettere alle giovani generazioni un messaggio di libertà e uguaglianza. A raccontarla sono le voci delle persone a lei vicine: i figli, i nipoti, personaggi pubblici come Ferruccio De Bortoli, Mario Monti, Geppi Cucciari, Fabio Fazio, Enrico Mentana, i carabinieri della scorta, che permettono di avvicinarsi a una Liliana più familiare e privata. “Il racconto intimo e personale evocato direttamente da Liliana Segre si muove in luoghi di azione ben definiti: la sua Pesaro, la casa di Milano, il Senato a Roma ci mostreranno un aspetto interiore della senatrice sconosciuto al grande pubblico – afferma il regista – Liliana Segre vive una scissione identitaria: non è abbastanza ebrea per gli ebrei, è unicamente ebrea per i cattolici. È una donna ancora tormentata dal suo passato ma che al contempo si sente libera di dire ed essere quello che è oggi. È consapevole che le sue parole hanno una forte risonanza e quindi percepisce la propria responsabilità”. Il film si propone anche e soprattutto di essere un affresco vero e intenso di un’Italia che, grazie alla figura di Liliana Segre, mostra il suo riscatto, interrogandosi tuttavia sulla complessità della tragedia della guerra e del tradimento di un Paese verso una parte dei suoi cittadini, mostrando dunque il dolore e la sofferenza di una ferita che non si è mai completamente rimarginata.

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GIGI & ROSS

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“Audiscion”, la comicità è servita (con sorpresa)

Duo affiatatissimo della comicità italiana, torna dal 28 aprile su Rai 2 con uno show tutto nuovo. Insieme alla coppia, Elisabetta Gregoraci e un mix esilarante di satira, imitazioni e sketch surreali. Uno spettacolo che mescola talenti noti e volti nuovi, con tanta imprevedibilità

 

“Audiscion” è una novità assoluta, come nasce l’idea di questo show e cosa vi ha convinti a farne parte come conduttori?

È una novità e ne siamo molto contenti perché si tratta di un programma completamente diverso dai precedenti e ci diverte proprio sperimentare una conduzione diversa. Avremo un cast nutrito di comici che stimiamo molto e sarà molto divertente interagire con loro.

Cosa vedremo?

Un programma molto variegato, proprio come suggerito dal titolo. Ci saranno satira di costume, parodie e tanti personaggi noti. “Audiscion” è un luogo dove ognuno può dire la sua. I comici interagiranno con noi, con Elisabetta, con le persone dal pubblico che interverranno, avremo collegamenti e contributi.

Il vostro obiettivo è dare voce a tutti.  Riuscirete a non zittire nessuno?

Ah sì, giusta osservazione! Non ci ascolteremo neanche tra di noi e sicuramente non ascolteremo Elisabetta! E non solo in questo programma (Sorridono).

Satira, imitazioni, stand-up… Come convivono stili comici così diversi in un unico spettacolo?

Noi diciamo sempre che la comicità è una sola. Possono esserci stili diversi, ma convivono tutti in nome di una risata, di un momento divertente. Non ci mettiamo mai nei panni di chi vuole analizzare ogni dettaglio: il pubblico vuole solo passare un paio d’ore a divertirsi. Il fine ultimo di ogni pezzo comico è far ridere, tutto il resto viene dopo.

Com’è stato ritrovare sul palco Elisabetta Gregoraci?

La conosciamo da più di dieci anni, già dal primo minuto ci fu sintonia. Lei non si prende mai troppo sul serio, si mette in gioco e ci divertiamo molto anche nei fuori onda. Tra noi tre c’è grande affinità. E poi Elisabetta è molto autoironica, cosa fondamentale in un programma come questo.

Tra gli ospiti ci sono grandi nomi della comicità italiana e nuovi talenti…

Sia noi che gli autori abbiamo proposto colleghi conosciuti e non. Ci sono stati dei provini e sono stati scelti quelli più adatti a questo format. E poi non è detto che qualcuno non compaia nella prima puntata ma arrivi più avanti.

Qual è il palco su cui vi sentite più a casa?

Ce ne sono tanti ma l’Auditorium di Napoli della Rai è proprio il nostro posto, ci sentiamo davvero a casa. È dove abbiamo iniziato conducendo “Made in Sud”. Ma anche il teatro è casa nostra. Abbiamo tante case belle dove abitiamo volentieri! E per fortuna non paghiamo l’affitto!

La satira, oggi, è più necessaria o più rischiosa?

È più necessaria ma anche più rischiosa. Con il politicamente corretto è diventato difficile dire qualsiasi cosa. Chi ha il coraggio di rischiare, ha tutta la nostra stima. E poi c’è bisogno di una comicità più pensata, più scritta. I social hanno velocizzato tutto, forse la satira può essere la vera salvezza della comicità.

C’è un momento “cult” della vostra carriera al quale siete particolarmente legati?

Ce ne sono tanti. A teatro, il punto di svolta è stato “Andy e Norman”, con la regia di Alessandro Benvenuti. Sono tanti i momenti indimenticabili in televisione e in radio. Abbiamo incontrato tutte le persone che ammiravamo da giovani, siamo passati da fan a colleghi. Poi “Sanremo” con Amadeus che ci ha portati lì: vedere l’Ariston è stato emozionante.

E la vostra “audizione” che non avete ancora realizzato?

Un film tutto nostro. Abbiamo avuto esperienze, ma non ancora un film interamente nostro. Ci piacerebbe fare una serie, magari anche dirigerci a vicenda. Sarebbe una bella sfida. Ma intanto un traguardo l’abbiamo raggiunto: quest’anno festeggiamo 25 anni di carriera… un vero matrimonio artistico!

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Roberto Bolle

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Come un Caravaggio

«Una grande festa della danza» che dal teatro raggiungerà «contesti artistici meravigliosi e particolarmente amati dal pubblico per la loro bellezza». Così l’Ėtoile scaligera amata in tutto il mondo racconta “Viva la danza”, l’evento in prima serata Rai 1 il 29 aprile, nel giorno in cui si celebra la Giornata Mondiale della danza

“Viva la danza”, titolo che dichiara immediatamente il suo intento: portare la danza a tutti e celebrarla. Che edizione sarà?

Una grande festa della danza per celebrare questa arte, dal classico al contemporaneo, ma la particolarità di quest’anno sarà che, oltre a ballare in un teatro – il Filarmonico a Verona – ci sposteremo in luoghi meravigliosi del nostro Paese: a Palazzo Barberini a Roma, dove c’è la mostra di Caravaggio, con ben ventidue opere dell’artista, esposte per la prima volta tutte insieme, poi a Venezia, in luoghi iconici come il Palazzo Ducale e La Fenice. Tutto questo è stato possibile grazie al Ministero della Cultura, che ci ha permesso di creare dei connubi così speciali tra danza e bellezze del nostro patrimonio culturale e artistico. Vedremo, quindi, la danza non solo nei suoi luoghi tradizionali, i teatri con la loro magia, ma anche in contesti artistici meravigliosi e particolarmente amati dal pubblico per la loro bellezza.

A proposito appunto di Caravaggio, ballare tra i suoi chiaroscuri, tra le inquietudini e la genialità di un artista immortale, cosa le ha lasciato?

È stata un’esperienza molto bella, che mi ha permesso di ammirare in maniera molto tranquilla queste opere, ma anche far diventare proprio quei quadri, che ti hanno appena colpito, ispirato ed emozionato, la scenografia della nostra coreografia è una sensazione unica, speciale. In tv porteremo un estratto del balletto, che potrà essere ammirato nella sua completezza a maggio al Teatro del Maggio Musicale Fiorentino e al TAM Teatro Arcimboldi di Milano.

Una piccola anticipazione su chi sarà al tuo fianco in questo viaggio…

Sono molto onorato di accogliere Serena Rossi, conduttrice della serata, che ci accompagnerà in questo viaggio da un quadro all’altro. Avevo già avuto il piacere di lavorare con lei in un’edizione di “Danza con me” e, ancor prima, a “OnDance”. Pensare a Serena per questo progetto è stato del tutto naturale, è un’artista eclettica e poliedrica, capace di conquistare la scena con onestà ed empatia, dotata di un talento straordinario sia come attrice che come conduttrice e cantante. Serena è preziosa in ogni ambito in cui si cimenta, ed è proprio questa versatilità a renderla la compagna di viaggio ideale. Porta sempre con sé quel qualcosa in più, oltre a essere una persona estremamente disponibile, un essere umano autentico, capace di fare davvero la differenza. Progetti ambiziosi come “Viva la danza” richiedono il massimo della concentrazione e tempi di lavoro molto serrati. Per affrontare questa sfida servono passione, dedizione e professionalità – qualità che Serena incarna appieno.

Che cosa chiede ai suoi ospiti, a chi salirà con lei sul palcoscenico?

A differenza di “Danza con me”, dove gli ospiti venivano messi alla prova – spesso in modo divertente – in ambiti lontani dalle loro competenze, “Viva la danza” si concentra maggiormente sulla danza, ma agli ospiti viene chiesto di esprimere se stessi e di valorizzare le proprie qualità nei rispettivi ambiti, inseriti all’interno di un contesto teatrale. La vera bellezza sarà proprio vederli muoversi in un ambiente in cui si sentono a proprio agio, mostrando ciò che è davvero nelle loro corde e offrendo, al pubblico e a noi, la loro disponibilità ed empatia nel confrontarsi con un mondo che, magari, non appartiene loro del tutto.

Quanto la danza è una questione privata, e quanto, soprattutto grazie al suo ruolo di “ambasciatore”, è diventata una condivisione di passioni?

Il ruolo che ho assunto è ormai diventato una vera e propria missione di vita: portare la danza in luoghi e contesti nuovi, avvicinarla a persone che, magari, fino a poco tempo fa non la conoscevano o non si sentivano coinvolte, spesso anche per via di pregiudizi. Per me è fondamentale diffondere la bellezza e la magia della danza, farla arrivare a chiunque, ovunque. Credo profondamente che quest’arte meravigliosa possa toccare tutti, e ogni mio progetto nasce proprio con questo obiettivo. Lo dimostriamo portando spettacoli di qualità in prima serata, nelle grandi piazze, nelle arene, ovunque ci sia la possibilità di condividere la danza con un pubblico ampio e variegato. In tutto ciò che faccio c’è sempre il desiderio di lanciare un messaggio chiaro: la danza è accessibile a tutti. La televisione, in questo senso, è uno strumento potente, perché mi permette di arrivare a milioni di persone, ma il mio invito costante è quello di andare oltre lo schermo: venite a teatro, vivete la danza dal vivo. Perché è lì che avviene la vera magia, è lì che ci si emoziona davvero, entrando in un mondo capace di coinvolgere in modo profondo e autentico. Per me, dunque, la TV è un mezzo, non un fine: un ponte tra le persone e lo spettacolo dal vivo, che resta il cuore pulsante della mia missione.

Quando incontra giovani ballerini, con il loro bagaglio di sogni, cosa riconosce di sé nei loro sguardi?

Riconosco senza dubbio la passione per quest’arte meravigliosa. I giovani che si avvicinano alla danza lo fanno spinti da un desiderio autentico: hanno voglia di ballare, di esprimersi. E questa passione la leggi nei loro occhi — è qualcosa che si percepisce subito. In loro rivedo i desideri, le aspettative di quando ero anche io solo un bambino e non sapevo cosa mi avrebbe riservato il futuro, ma avevo un grande sogno nel cuore. È questo, forse, l’aspetto che mi tocca di più e che mi fa sentire profondamente connesso con chi si avvicina alla danza per la prima volta.

Cinquanta anni sono un momento buono per una riflessione sul proprio percorso di vita e professionale. Cosa vede davanti a sé?

È un momento molto positivo per me. Sono felice di poter ancora ballare a questi livelli e che la danza continui a essere una parte così viva e centrale della mia vita. Non è una frase fatta: la realtà ha davvero superato ogni aspettativa. Non avrei mai immaginato, a cinquant’anni, di essere ancora sui palcoscenici più importanti, di fare uno show televisivo come “OnDance” a Milano, di portare avanti “Bolle & Friends” con un nuovo tour che quest’anno toccherà Caracalla, Taormina, l’Arena di Verona… E poi, a giugno, tornerò alla Royal Opera House di Londra con “Onegin”. Sono tanti impegni, in teatri prestigiosi e in luoghi straordinari. Mi sento profondamente grato per questo momento della mia vita, ho raggiunto una maturità che mi permette di vivere tutto con consapevolezza, ma con lo stesso entusiasmo e la stessa emozione del bambino che sognava questo futuro. Oggi riesco ad apprezzare ogni istante in modo diverso. Un tempo tutto scorreva più in fretta, si passava da un progetto all’altro senza fermarsi troppo a riflettere. Ora non do più nulla per scontato, ogni conquista ha richiesto ancora più sacrificio, più dedizione, e proprio per questo ha un valore più profondo.

In questa stagione la vedremo protagonista in molti appuntamenti Importanti, a partire da “Caravaggio”. Che significato ha per lei questo balletto?

Tengo moltissimo a “Caravaggio”, un balletto davvero straordinario, che arriva per la prima volta in Italia, e sono felice di poterlo portare sul nostro palcoscenico. È un’opera intensa, visivamente potente, capace di emozionare profondamente. Subito dopo inizierà il tour estivo, che mi porterà a ballare in alcuni dei luoghi più suggestivi del nostro Paese: da Caracalla al Teatro Greco di Taormina, fino all’Arena di Verona. Sono appuntamenti che riempiono il cuore e l’anima. Ogni volta che mi trovo in questi contesti così carichi di storia e bellezza, mi sento fortunato. Cerco di assorbire tutto, di vivere pienamente ogni momento, anche perché non sai mai se sarà l’ultima volta o se capiterà ancora. E proprio per questo, ogni esperienza ha un valore ancora più profondo.

Di recente ha dato vita alla Fondazione che porta il tuo nome. Da dove nasce questo progetto?

È una tappa importante del mio percorso, nata ufficialmente lo scorso anno ma pensata da molto tempo. Ho sempre creduto che la danza sia molto più di una forma d’arte: è anche un veicolo educativo, umano e sociale. Che tu sia un ballerino professionista o semplicemente qualcuno che si avvicina per passione, la danza ti insegna valori fondamentali: la disciplina, il rispetto, la gentilezza, l’impegno quotidiano. È un’arte che offre bellezza e magia a ogni livello, ed è proprio da qui che è nata l’idea di creare qualcosa che potesse durare nel tempo, lasciare un segno concreto, fare del bene.

Qual è l’obiettivo principale della Fondazione?

La Fondazione nasce senza scopo di lucro, con la volontà di lavorare sul tessuto sociale attraverso progetti mirati. È un modo per restituire ciò che la danza mi ha dato, e per far sì che questo linguaggio universale possa raggiungere sempre più persone, anche in contesti dove normalmente non arriva. Per me è davvero una missione di vita. Voglio che abbia una progettualità duratura, che guardi lontano e che continui ad avere un impatto reale, tangibile, nel tempo.

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