The Fabelmans

AL CINEMA

Un ritratto intimo e intenso di un’infanzia nell’America del Novecento, “The Fabelmans” di Steven Spielberg ripercorre gli eventi che hanno scandito la vita e la carriera del regista. Questo racconto di formazione, incentrato sul desiderio di un ragazzo di riuscire a realizzare i propri sogni, ha un’eco universale nella sua esplorazione dei temi dell’amore, dell’ambizione artistica, del sacrificio, nonché di quei segreti inconfessabili che consentono di fare luce su se stessi e sui propri cari, con chiarezza ed empatia. Nelle sale dal 22 dicembre, con Gabriel LaBelle, Michelle Williams, Paul Dano, Seth Rogen, Judd Hirsch

(from left) Sammy Fabelman (Gabriel LaBelle), Mitzi Fabelman (Michelle Williams), Burt Fabelman (Paul Dano), Natalie Fabelman (Keeley Karsten), Reggie Fabelman (Julia Butters) and Lisa Fabelman (Sophia Kopera) in The Fabelmans, co-written, produced and directed by Steven Spielberg.

Sammy Fabelman (Gabriel LaBelle) è appassionato di cinematografia, un interesse alimentato in lui anche da sua madre Mitzi (Michelle Williams), donna dalla spiccata vena artistica. Suo padre Burt (Paul Dano), invece, un uomo di scienza dalla brillante carriera, pur non opponendosi alle aspirazioni del figlio, le considera alla stregua di un hobby. Nel corso degli anni, Sammy continuerà a documentare le vicende della sua famiglia, girando film amatoriali sempre più elaborati, interpretati da sua sorella e dai suoi amici. A 16 anni è già un acuto osservatore e narratore della sua realtà familiare, ma quando i suoi si trasferiscono altrove, Sammy scoprirà una verità sconvolgente che riguarda sua madre e che cambierà per sempre il suo rapporto con lei, con ripercussioni sul suo futuro e su quello dell’intera famiglia. “The Fabelmans”, nei cinema dal 22 dicembre, è diretto da Steven Spielberg e scritto da Spielberg in collaborazione con il commediografo vincitore del Pulitzer Tony Kushner. La musica è opera di John Williams, compositore premiato con cinque premi Oscar.  «Non avrei potuto realizzare questo film senza il contributo di Kushner, una persona a me vicina, che ammiro profondamente, che mi conosce bene e che rispetto enormemente – spiega Spielberg – per dare una forma a questa storia, è stato fondamentale potermi aprire senza riserve con qualcuno, abbandonando qualsiasi imbarazzo o vergogna. Quando ero molto giovane, è accaduto qualcosa, un evento che racconto nel film, che ha cambiato la mia percezione di mia madre: improvvisamente non era più solo un genitore, bensì una persona». Un racconto intimo che avvolge lo spettatore. «Ho avuto il privilegio di raccogliere le confidenze di Steven, di aiutarlo a scavare nella sua memoria – racconta Kushner – Steven aveva appena perso suo padre, e penso che tutto ciò che ha esternato in quel momento sia scaturito anche dall’elaborazione del dolore e del lutto. In alcuni momenti pensavo che, anche non avessimo realizzato nulla, sarebbe stata comunque stata un’esperienza straordinaria». “The Fabelmans” è la storia di una famiglia ebrea-americana a cavallo fra gli anni ‘50 e ‘60. Il film cattura anche un momento specifico della cultura cinematografica. Il personaggio di Sammy, che vive una crisi di identità a causa di un filmino amatoriale girato in casa, che ridefinirà la sua visione dei suoi genitori e scuoterà la sua fiducia nel mondo, è raccontato sullo sfondo della Hollywood degli anni ’50, un’industria che si lasciava alle spalle l’epoca dei roadshow e dei B movies per inaugurare la Nuova Hollywood degli anni ’70, con film originali, meno patinati, da un lato più realistici, dall’altro più sensazionali, a volte entrambe le cose. Il rapporto di Sammy con la cinepresa anticipa la cultura dell’auto documentazione e dei social media. La sua incessante ricerca di emozioni e di momenti catartici riflette una più complessa consapevolezza di come il cinema possa intrattenere e illuminare, esibire e manipolare, mitizzare e demonizzare. Le riprese sono state accompagnate da un vortice di emozioni inaspettate, sia per Spielberg che per tutti i suoi collaboratori. «Mi ero ripromesso che sarei stato il più professionale possibile – dice il regista – cercando di mantenere una distanza fra me e il soggetto. Tuttavia, è stato veramente difficile mantenere questa promessa. La storia mi trascinava costantemente verso i ricordi più personali. Ricreare situazioni realmente accadute nella mia vita, vederle svolgersi davanti ai miei occhi, è stata un’esperienza molto strana, quasi dolorosa. Non avevo mai vissuto niente di simile».

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