Sul set con Marco è come andare a una festa
LORENZA INDOVINA
In “Rocco Schiavone” veste i panni della poliziotta capace di tenere testa al Vicequestore, una professionista straordinaria alle prese con la scoperta della sua femminilità: «La ritroviamo più sexy, da quel montone e da quel colbacco esce una Gambino più sensuale»
Cosa rappresenta il suo personaggio, Michela Gambino, nell’universo di “Rocco Schiavone”, in particolare in quello femminile?
Michela è l’unica donna con la quale Schiavone riesce ad avere un rapporto di sano rispetto e confronto, è anche leggermente terrorizzato dalla Gambino, perché la sente come una che conosce più del dovuto. In questa stagione lei lo prenderà in giro, gioca con il Vicequestore e non mostra mai un atteggiamento servizievole. Dal punto di vista professionale è una donna straordinaria, comincia a tirare fuori la propria femminilità grazie alla relazione con Fumagalli. La ritroviamo quindi più sexy, da quel montone e da quel colbacco esce una Gambino più sensuale. È una donna che stimo e ammiro molto, l’unico elemento che mi inquieta è il suo essere complottista, pensare che il mondo ti spii.
Lei crede ai complotti?
Ovviamente no, neanche che esistano persone che portano sfortuna. Per me le cose succedono perché è la vita che le fa accadere e basta. Alla Gambino questo aspetto un po’ lo perdono, perché mi fa una simpatia e una tenerezza infinita, è una donna di grande forza, talento, energia, simpatia, ironia…
Come entrano l’ironia e la comicità nelle storie di Schiavone?
Rappresentano una parte importante della nostra esistenza. Come nella vita, anche in quella dei poliziotti della serie determinate situazioni diventano momenti divertenti grazie a una battuta, un buon modo per superare situazioni pesanti. L’ironia aiuta a vivere meglio, ad affrontare quel che accade in maniera più lucida.
Come stanno in equilibrio ironia e momenti di riflessione nella sua vita?
Spesso è conseguenziale, non è detto che una risata non porti ad avere una consapevolezza profonda. Guardi un film e magari ridi dell’ossessione di un personaggio, scoprendo alla fine che quel difetto appartiene anche a te. Lo riconosci ridendoci sopra, facendo un processo di analisi più profonda del tuo essere nel mondo. Non è detto che il momento di riflessione corrisponda per forza a un momento cupo, di silenzio o di concentrazione, le rivelazioni arrivano quando sei rilassato, pronto a recepirle meglio. L’angoscia, a volte, chiude ai pensieri.
Condivide con il suo personaggio la provenienza geografica… due siciliane ad Aosta come hanno riscaldato questi luoghi?
Il siciliano per natura è allegro, vuole vivere bene. Ogni volta che vado in Sicilia, anche col taxista, mi faccio un sacco di risate, appena c’è un raggio di sole stanno tutti in spiaggia, al mare a fare il bagno (ride). C’è una naturale attitudine a mangiare bene…
A godersi la vita…
E quando uno vede qualcuno che si gode la vita, paradossalmente, è spinto a provarci. Per “Rocco Schiavone” abbiamo sempre girato tra le montagne con temperature altissime, trovandomi puntualmente con abiti pesantissimi (ride).
Una serie a cui il pubblico è molto legato. Qual è la forza del personaggio e della scrittura di Manzini?
Questo racconto è il risultato dei meravigliosi romanzi di Antonio Manzini, scrittore che ha lavorato talmente bene sui personaggi, dando loro rotondità, una back story profonda che spesso in una serie, con tempi e spazi ben diversi da un libro, è difficile da realizzare. Tutti i personaggi hanno una propria storia, la propria verità nella quale il pubblico può riconoscersi. Schiavone piace perché i personaggi non sono degli estranei, sono di famiglia, a questo si aggiunge la parte di giallo congeniata in modo intelligente, mai banale.
Per ogni giallo di Manzini c’è un Giallini…
Conosco Marco da tantissimi anni, abbiamo lavorato insieme a “Almost Blue” di Alex Infascelli, dove interpretavamo due poliziotti. Ho assistito a tutta la sua crescita artistica, ho vissuto anche parte dei suoi dolori… è una persona a me cara. Arrivare sul set e lavorare con lui è come andare a una festa. Devo dire però che questo clima si respira con chiunque sul set, siamo tutti amici, abbiamo una chat, siamo diventati una piccola famiglia che si vuole bene. È una fortuna e si sente anche nel lavoro.
Esiste una differenza tra interpretare un ruolo e rispecchiarsi in questo?
Quando si recita si prende sempre qualcosa di sé, c’è però da ricordare che stiamo comunque nell’ambito della finzione. Non credo alla teoria dell’immedesimazione, anche se a volte andiamo a pescare sulle nostre cose personali.
È capitato anche a lei?
Una volta dovevo piangere in scena per mio figlio, e io pensavo ai miei cani. Ero triste per loro, tutti immaginavano che io piangesse per quel bambino.
Nella sua carriera troviamo tanti progetti televisivi. Com’è cambiata la serialità italiana?
Il confronto sempre più forte con le serialità straniere ha spinto quelle italiane ad alzare l’asticella della qualità, visiva, di costruzione dei personaggi. Quello che purtroppo sto vedendo, è che tutto si sta omologando e ho paura che questa fiammata entusiasmante di ripresa produttiva non contrasti la forza delle major a discapito del lavoro autoriale. C’è stata però una spinta importante, sono emersi tanti nuovi attori, soprattutto giovani, anche se il mondo femminile è sempre leggermente sacrificato, in particolare per ruoli di donne più mature. Io non sono una che vuole fare per forza la protagonista, io voglio solo divertirmi, fare delle belle scene, bei personaggi.
Un esempio?
Nell’ultimo film di “Cetto La Qualunque” interpretavo la moglie, avevo una scena sola in tutto il film, ma era talmente divertente, talmente bella che era una gioia.
Il fattore Antonio Albanese…
Un autore che ha un’attenzione maniacale alle cose, straordinario. Non lascia mai nulla al caso. Purtroppo, a volte, per mancanza di soldi e di tempo, i registi sono costretti a correre.
C’è nella sua carriera qualcosa che vorrebbe sperimentare?
Mi sto mettendo alla prova come regista, un’altra maniera di fare l’attrice. Le inquadrature per me sono immagini al servizio dell’interpretazione dell’attore. Ora sto lavorando a un documentario su uno degli incidenti aerei più gravi della storia italiana, forse europea, quello del 1972 a Punta Raisi, che provocò la morte di tutti i passeggeri. Su quell’aereo c’era mio padre, io avevo due anni. Nel documentario incontro i parenti delle vittime, indago sul fatto che forse non si è trattato di un incidente, ma di un attentato. Sono ancora in fase di lavorazione, speriamo che vada tutto bene.