Sorprendente Pompei

 

Il direttore del Parco Archeologico Gabriel Zuchtriegel, che gli spettatori della Rai hanno visto nei giorni scorsi al fianco di Alberto Angela nell’appuntamento speciale di “Meraviglie”, cammina ogni giorno tra i vicoli dell’antica città, distrutta e sepolta viva. Un sito unico al mondo, che ci porta a contatto con la bellezza dell’arte antica e con la fragilità della vita umana. Di fronte ai calchi delle vittime dell’eruzione del Vesuvio, ma anche alla scultura di un bambino pescatore dormiente che gli ricorda suo figlio, si pone la domanda: “Cosa c’entra con noi Pompei? Che ha da dirci l’antico oggi?”. Il RadiocorriereTv lo ha intervistato in occasione della presentazione del suo libro “Pompei, la città incantata” (Feltrinelli) organizzata dalla Dmo “Terra dei Cammini” presso il sito archeologico di Aquinum

 

Nel suo libro racconta Pompei, uno dei siti archeologici più vasti ed articolati al mondo. È anche un modo per far conoscere e promuovere tutta l’archeologia?

Vuole essere proprio questo, prendere Pompei come un esempio sicuramente molto significativo ed emblematico. Il libro non parla solo di Pompei.

Un museo non è solo un vaso in una vetrina o un reperto da ammirare.  Dietro c’è un grande lavoro che è quello di chi opera nei siti archeologici come Pompei o anche in quelli meno vasti, come Aquinum…

C’è un grandissimo lavoro che dobbiamo fare noi tutti quotidianamente attraverso la valorizzazione, il restauro, la tutela, l’accoglienza. A Pompei ci sono tantissime persone al lavoro, trattandosi dell’area più vasta di scavi aperta dagli anni Cinquanta del secolo scorso. Recentemente leggevo che l’inizio degli scavi a Pompei, nel 1748, partì con 12 operai, e poi con 30, in occasione della visita dell’imperatore Giuseppe II d’Austria. Poi ci fu Ferdinando IV a Napoli e anche lui visitò gli scavi, dicendo che ci sarebbero volute almeno 3 mila persone per scavare.

Pompei ci restituisce scene di vita quotidiana. Quali coinvolgono di più i visitatori?

Pompei è conservata in maniera meravigliosa, quasi congelata. L’eruzione del Vesuvio, nel 79 d.C., non ha cancellato le strade, le tracce dei carri, le terme, le volte, i muri con le decorazioni. A colpire sono soprattutto le scene di vita quotidiana, quelle tracce labili che spesso non si conservano, di cui a Pompei abbiamo una classe tutta singolare, unica, che sono i calchi. L’eruzione del Vesuvio durò più di un giorno. Iniziò intorno a mezzogiorno con una grande esplosione che impiegò 20 secondi per arrivare a Pompei. La gente fu colta impreparata perché non sapeva che quella montagna, dove andava a caccia o dove coltivava i vigneti, fosse un vulcano. Plinio, un autore dell’epoca, spiega che l’esplosione assunse la forma di un pino, che oggi ci sembrerebbe un fungo atomico e da questa nube cominciarono a piovere sulla città i lapilli, queste piccole pietre che in venti ore seppellirono le case, provocarono il crollo dei tetti, fino a quando, dal Vesuvio scese una valanga ardente che spazzò via tutto. Oggi troviamo corpi, tessuti e vestiti, sacchetti di cuoio che le persone portavano con sé per fuggire.

Che cos’è, per lei, un reperto?

A Pompei si parlava a volte di statue. Ovviamente non sono statue, ma figure, cioè i famosi calchi di Pompei. Sono circa cento gli abitanti che noi possiamo incontrare faccia a faccia, sono bambini, sono donne, uomini morti durante l’eruzione. Reperti sono anche altri materiali organici, per esempio i letti, i mobili, gli armadi, gli infissi. Il loro ritrovamento ci fa capire la dinamica di quanto accaduto. Il fatto, ad esempio, che la gente durante l’esplosione si rifugiò nelle case. Una reazione del tutto naturale ma che invece si rivelò letale.

Perché il titolo “La città incantata”?

Incantata perché ha conservato opere d’arte eccezionali. Come ad esempio la Casa dei Vetti e la Villa dei Misteri. A Pompei possiamo studiare come l’arte faceva parte della vita, dei rituali, delle abitazioni. Abbiamo trovato i calchi di tredici vittime che hanno resistito fino alla fine della pioggia di lapilli, e che poi tentarono di lasciare la città. C’è il calco di un bambino di circa cinque anni che si tiene il petto, perché non poteva più respirare a causa dei gas tossici.

Quanto è importante l’attenzione mediatica costante di un sito archeologico?

Tantissimo. Scrivendo questo libro ho voluto dare il senso della divulgazione, che avviene anche grazie agli enti, ai sindaci, al ministero, alle persone che pagano un biglietto per visitare gli scavi di Pompei dandoci poi la possibilità di reinvestire questi fondi. Ma dobbiamo fare di più. Le testimonianze di chi visita il sito avvicinano ulteriori visitatori, aprendo un dialogo con la loro storia, con la loro esperienza, il loro passato, il loro vissuto. Insomma, un dialogo tra l’antico e il presente.

Perché l’interesse crescente verso l’antichità? Quanto in realtà ci siamo dentro a questo passato?

Spesso non ci manca la capacità, ci manca forse solo il coraggio, perché noi veniamo educati in una certa maniera e spesso viviamo tutto quello che possiamo imparare, in maniera passiva. Andiamo a scuola e dobbiamo imparare le date, i fatti, chiaramente la matematica, che non è un’opinione. Un sito archeologico è qualcosa che è dentro di noi. Pompei, così come  Aquinum, ci danno la possibilità di aprire il dialogo tra presente e passato. Questo libro è un po’ una guida attraverso i secoli che parla degli scavi di Pompei ma che, volendo, si può applicare benissimo a tutti i siti archeologici.

Com’era la vita dei più poveri a Pompei?

Abbiamo scoperto tantissime testimonianze della vita degli ultimi. Recentemente abbiamo scoperto un panificio. A Pompei c’erano tanti panifici perché c’erano anche tante case che non avevano la cucina ed erano quelle dei poveri, con uno o due ambienti dove si viveva e si dormiva. Il panificio era una stanza grande di una villa. Lì si lavorava, si dormiva, si viveva tutti insieme su una piccola superficie, mentre dietro il muro c’era l’altra famiglia, quella dei notabili, dei ricchi, con giardini di centinaia di metri quadri.

Nel suo lavoro di ricerca mette in evidenza la figura degli schiavi, quella degli emarginati, degli ultimi. Perché?

Anche nei miei precedenti lavori di ricerca mi sono occupato della storia dei subalterni o di quelli che non avevano una voce, che sono rimasti un po’ marginali, delle popolazioni rurali, degli schiavi, che sono spesso dimenticati. Spesso mi sono chiesto se è un caso o se oggi siamo più attenti a queste testimonianze. Non lo so, ma sicuramente l’archeologia ci restituisce tantissimi racconti in merito.

Cosa si aspetta di trovare in un sito archeologico?

Pompei ha sempre una doppia lettura tra quello che noi immaginiamo, che ci aspettiamo, che vogliamo anche utilizzare per promuovere un cambiamento nel presente, e quello che invece emerge. Si tratta di qualcosa che non combacia al cento per cento con le nostre aspettative, e questo è il bello dell’archeologia.

Nel corso degli anni, quanto hanno influito la scienza e la tecnologia rispetto al cambio di presa di coscienza dell’importanza degli scavi e delle scoperte?

Moltissimo. Spesso c’è una narrazione molto critica, che secondo me ha anche qualcosa a che fare con la storia dell’Italia recente. All’inizio fecero grandissimi danni i Borboni, che portarono i carcerati a scavare. L’archeologia essenzialmente non esisteva e dunque sterrarono, staccarono gli affreschi, interrarono nuovamente le case scavate. Molto è perduto, loro non sapevano, non avevano le tecnologie, le conoscenze e nemmeno la sensibilità di noi oggi. Dunque, va riconosciuto il grande coraggio di investire in qualcosa di cui non si sapeva né i tempi, né i costi. Spesso hanno scavato dei cunicoli: da sopra facevano un buco e poi esploravano le case, staccavano gli affreschi e quando c’era un muro facevano una breccia. Oggi, scavando troviamo anche questo, un’archeologia dell’archeologia. Sono dell’avviso che siamo debitori per quello che hanno iniziato a fare.

Pompei è stata protagonista di una puntata di “Meraviglie” di Alberto Angela. Un’occasione per testimoniare il vostro continuo lavoro di scavi e di scoperta?

Chi ha visto la trasmissione di Alberto Angela sa che abbiamo parlato di una nuova casa accessibile da poco su cui si può camminare mentre sotto continua lo scavo di alcuni ambienti. Con “Meraviglie” è stata data ai telespettatori un’occasione per vedere come si svolge questo lavoro interdisciplinare con architetti, archeologi, storici, epigrafisti per leggere le iscrizioni, ingegneri, restauratori. Abbiamo anche funzionari con queste competenze, collaboriamo con le università di architettura, di archeologia. Di Pompei abbiamo fatto conoscere un’altra cosa fantastica: i disegni a carboncino fatti dai bambini, così come abbiamo capito anche grazie a esperte di neuropsichiatria infantile.  Tutti, fino a una certa età, abbiamo disegnato il corpo con la testa da cui escono direttamente i piedi e le braccia, i cosiddetti cefalopodi. A Pompei troviamo gladiatori, durante le scene di caccia, che sopra la testa hanno anche l’elmo con lo scudo.

Come vive sempre queste nuove scoperte?

È una cosa indescrivibile, ovviamente, un’esperienza soprattutto di squadra. L’emozione è una cosa condivisa in un contesto di grande pressione, perché ci sono cantieri enormi, le responsabilità, la contabilità, la programmazione. Non è sempre facile gestire anche l’aspetto organizzativo, umano, a volte ci sono tensioni, altre contenziosi e problemi con le ditte da affrontare. Dunque, in mezzo a tutto questo, emerge il disegno del bambino vittima dell’eruzione, l’affresco straordinario, la cosa più bella che abbia mai visto. La necessità di andare avanti è sempre costante nonostante le difficoltà, basta pensare alle normative su sicurezza nei cantieri.

Lei invita i lettori a non rinchiudersi nella tecnologia…

Nel tempo abbiamo guadagnato qualcosa come progresso tecnologico, ma abbiamo anche perso qualcosa. Invito, chi ha la fortuna di averli ancora, a parlare con i nonni e le nonne, a condividere, a non rinunciare al confronto e all’ascolto. La tecnologia, da sola, non basta.  Oggi rischiamo un po’ di allontanarci dal mondo reale. Credo anche che nel passato, nell’antichità, possiamo trovare cose che possono sembrarci strane, perché forse le abbiamo perse. Puntiamo al rapporto con la natura, con il paesaggio, con le stagioni.

Qual è per lei l’insegnamento più grande della storia antica?

Vedere come eravamo diversi e capire che oggi non siamo in una prigione dalla quale non possiamo uscire. Come siamo cambiati in passato possiamo farlo anche in futuro. E forse questa non è una cosa negativa, anche per le crisi che abbiamo passato e stiamo passando, come quella ambientale, che ci dovrebbero spingere a cambiare abitudini. Noi siamo capaci se vogliamo.