Sono un viaggiatore che racconta i fatti

Il 30 maggio torna su Rai 3 in prima serata “Che ci faccio qui”. «Ci sono storie che non finiscono mai, luoghi e volti che non dimentichiamo e che continuano a dirci qualcosa, ecco perché a volte ci assale la nostalgia di andarli a cercare» racconta il giornalista al RadiocorriereTv

 

13 MAGGIO 2024
CHE CI FACCIO QUI

Un ritorno televisivo che è anche un ritorno a storie che hai raccontato in passato. Da dove riparti?

Da un viaggio nel profondo Sud, la Calabria, luogo di luci e ombre. Lo faremo nel corso di due puntate che abbiamo chiamato “Ti vengo a cercare” e che hanno snodi narrativi molto particolari. Si entra nella dimensione dell’inferno di Rosarno dove, a distanza di sette, otto anni – quando andai l’ultima volta – niente è cambiato, dove c’è ancora una profondissima ingiustizia sociale, dove c’è sfruttamento e le cose non sono state mai sanate. Per questo era importante che, come Servizio Pubblico, si tornasse a testimoniare.  Non possiamo far terminare le storie delle persone come se fossero una fiction, abbiamo l’obbligo di andarle a riprendere, di accudirle, di farle diventare figlie della nostra famiglia.

E poi…

In queste due puntate ci sono anche le cose straordinarie che improvvisamente accadono quando attraversi un territorio come la Calabria. Finisci in un posto che si chiama MuSaBa (Museo di Santa Barbara), in Aspromonte, dove Nik Spatari, artista visionario, morto nel 2020, che avevo intervistato negli ultimi anni della sua vita, ultraottantenne ancora metteva tasselli di ceramica in un posto che sembra davvero uscito da una visione onirica. La sua è una storia straordinaria, partito da Reggio Calabria, autodidatta, aveva conosciuto Le Corbusier, Picasso, aveva frequentato i grandi artisti francesi. Nelle sue opere vivono le sue esperienze incredibili. Pian piano, nel corso del racconto risalgo questa terra, vado a Cosenza per ritrovare un personaggio che avevo conosciuto anni fa, oggi vicepresidente di una ex startup assorbita da una multinazionale giapponese. Fanno sperimentazione sull’intelligenza artificiale, l’azienda ha assunto a tempo indeterminato circa 400 ragazzi usciti dall’Università della Calabria, sono informatici, ingegneri elettronici, fisici, linguisti. Una sorta di sogno.

Un racconto poliedrico…

Faccio comprendere come si sta molto indietro e come si sta molto avanti. Come gli opposti siano sempre più distanti tra loro. È un viaggio anche nella caparbietà di un personaggio come Nino De Masi, imprenditore che vive da quattordici anni scortato dall’Esercito per avere denunciato la ‘ndrangheta. Lui resiste, insieme alla sua famiglia. Ritroverò Bertolo Mercuri dell’Associazione “Il Cenacolo”, diventato un amico, la persona che mi ha fatto conoscere la vera solidarietà, l’uomo che mi fa toccare con mano la povertà e al tempo stesso un senso profondo di altruismo. La sua è una presenza laica che sembra quasi mistica. Nella prima puntata incontro anche Alì, un uomo che da quattordici anni vive senza permesso di soggiorno in un deposito abbandonato e che lavora a chiamata per gli agricoltori. Lo incontro mentre sfoglia il dizionario dei sinonimi e dei contrari in italiano e legge parole come per nutrirsi di altro. Con grande dolcezza mi parla della sua condizione, dei sogni mancati, portando sulle proprie spalle il peso di una vita sfortunata. Una storia che ci fa comprendere come l’immigrazione non possa essere considerata un problema di flussi, dietro ai numeri ci sono le identità, e soprattutto le persone che già stanno sul nostro territorio. Proprio come Alì.

Con la terza puntata, che hai chiamato “Il capolavoro”, dove ci porterai?

Torno a Caivano dalla preside Eugenia Carfora. Abbiamo raccontato quello che è accaduto lontano dai riflettori della cronaca nera, dalla sovraesposizione mediatica, che aveva fatto diventare quel luogo un set cinematografico. Sono andato alla ricerca dei ragazzi che incontrai otto anni fa ed è nato un viaggio incredibile. E poi ci spostiamo al Nord, vicino Modena… Dopo la puntata “Come figli miei” un imprenditore chiamò Eugenia e offrì dei posti di lavoro ad alcuni studenti, che oggi abbiamo ritrovato lì.

Cosa hai scoperto di quei ragazzi?

L’emancipazione, la bellezza di chi si è salvato attraverso il lavoro. L’idea che riconoscano ancora in quella preside un punto fermo.

Osservando da vicino il nostro Sud, cosa capiamo della nostra Italia?

Quando faccio questi viaggi porto con me un profondissimo rammarico per le risorse sprecate, umane, ambientali, ma anche speranze inaspettate. Ho bisogno di toccare queste storie per avere il termometro della situazione. La questione meridionale non è stata ancora risolta, il grande gap si vince con l’istruzione, con la formazione dei giovani.

Tra cuore e ragione, dove si colloca la tua narrazione?

Vivo sempre a metà strada, come se fossi una specie di Giano bifronte che guarda le due cose. Cerco di essere il più possibile coerente, di raccontare con obiettività. Mi ritengo un viaggiatore che racconta i fatti, non come giornalista, ma come testimone di quello che accade attorno a me.

Come è cambiato, negli anni, il tuo essere giornalista?

Non è mai cambiata la curiosità, è così anche oggi, con parecchi anni di lavoro sulle spalle. Voler ritornare sui luoghi, capire che cosa è accaduto, è anche frutto di questa curiosità. Il passato può darci una chiave di lettura moderna delle cose. Sono contento di farlo ancora una volta su Rai 3, quella che ritengo la mia casa, che mi ha permesso di raccontare il Paese.

Un viaggio, quello di “Che ci faccio qui”, che è passato anche dai palcoscenici dei teatri. Cosa ti ha insegnato l’incontro diretto con il pubblico?

C’è una sensazione diretta. Ho fatto cinquanta repliche, nei teatri di provincia, come in quelli delle grandi città. Il teatro è uno dei mezzi espressivi più liberi, non c’è mediazione, non c’è nulla di edulcorato. Non ci sono elementi che ti fanno essere diverso da quello che sei. Sei nudo e questo viene compreso dal pubblico. Questo abbraccio straordinariamente caldo mi ha ricaricato per poter raccontare meglio in televisione.

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