Scelgo le storie che mi parlano

ANTONIO FOLLETTO

La serie dedicata a Carlo Alberto dalla Chiesa “Il nostro Generale” è stata un successo su Rai 1 ed è disponibile su RaiPlay: «è stata un’avventura incredibile. Ci siamo letteralmente catapultati in una parte di storia che, almeno per me, ragazzo del 1988, era totalmente sconosciuta». In attesa di vederlo nella quarta stagione de “I Bastardi di Pizzofalcone”, della sua città l’attore dice: «Per me Napoli è uno stupore continuo, tutte le volte che torno è come un bagno di umiltà»

La Rai ha raccontato la vicenda umana e professionale del Generale Carlo Alberto dalla Chiesa. Che esperienza è stata?

Incredibile, ci siamo letteralmente catapultati in una parte di storia che, almeno per me, ragazzo del 1988, era totalmente sconosciuta. Con la serie abbiamo considerato gli anni dal ‘73 all’’82, affidandoci a un grandissimo lavoro di ricostruzione storica, dalla sceneggiatura ai costumi di Gaia Calderone, al trucco e il parrucco.

Un lavoro incredibile…

È stata fondamentale la consulenza storica di Giovanni Bianconi, ma soprattutto il confronto con quelli che allora furono i ragazzi del Nucleo del Generale dalla Chiesa. Abbiamo trascorso con loro una bellissima mattinata, ascoltando i loro racconti, entrando nella loro psicologia. Mi ha colpito molto la facilità con cui ci hanno reso partecipi della loro storia, ancora ricordo lo sguardo di Domenico di Petrillo nel ricordare il Generale. Gli occhi gli brillavano. O le parole piene di adrenalina di Luciano Seno nel ricordare il momento dell’arresto di Alberto Franceschini e Renato Curcio (due dei fondatori delle Brigate Rosse). Per tutti Carlo Alberto dalla Chiesa è stato come un padre.

Ma anche un innovatore…

Grazie a lui, il Nucleo è stato il primo a usufruire di mezzi all’avanguardia per le indagini, il primo ad avere le carte di credito grazie alle quali stare al passo delle Br, gruppi ben organizzati e ben finanziati.

Che riscontro ha avuto la serie tra i giovani?

Ho ricevuto molti messaggi di ragazzi che si sono appassionati alla vicenda, a quel periodo storico così avvolto nell’ombra e che, purtroppo, non si studia a scuola. Conoscerlo però è fondamentale per comprendere quello che siamo diventati oggi. Credo che la Rai con questa serie abbia offerto un grandissimo servizio pubblico.

Un racconto che non dà giudizi, ma scatta una fotografia. Cosa pensa di quegli anni?

Di quel periodo storico mi è rimasto impresso un fattore oggettivo, la straordinaria quantità di avvenimenti accaduti e le tantissime morti. Parlando con gli ex membri del Nucleo, ho chiesto se mai avessero messo in discussione il loro operato, se avessero mai cercato di comprendere le ragioni di quel che accadeva nel Paese. La loro risposta è stata netta: mai. Credevano nei loro valori, si fidavano del Generale, dello Stato e della democrazia.

Cosa rappresenta umanamente per lei il Generale dalla Chiesa?

Ho incontrato Rita e Nando, i suoi figli, durante la presentazione della serie, ed è stato molto emozionante. Il loro sacrificio non può passare inosservato. Per me dalla Chiesa è stato un eroe, un uomo che ha lottato per la democrazia.

Dove cerca i punti di riferimento nella sua vita?

L’esempio arriva dalla famiglia, dall’educazione ricevuta: rispettare se stessi, il prossimo, dare valore a quello che si fa, farlo con passione. Credo che sia una buona base di partenza, nella speranza di migliorare.

Alle spalle il teatro, tanto cinema e tv. Qual è la sua ambizione?

È difficile rispondere, mi auguro di poter fare sempre questo mestiere nella maniera più libera possibile.

Ci racconta di quando ha scoperto la passione per la recitazione?

Ho iniziato a vent’anni, ho frequentato a Roma una piccola scuola di teatro – Teatro Azione – e successivamente mi sono iscritto all’Accademia Silvio D’Amico. Nessuno della mia famiglia ha a che fare con questo mondo, l’amore però è scattato guardando con mio nonno i film di Totò, Troisi, Sordi, Mastroianni, attori e opere che mi hanno completamente rapito. Io volevo essere come i personaggi che ammiravo. Mi sono reso conto che quello dell’attore è un mestiere complesso, come dice Castellitto, “è un po’ come prendere i voti”.

Cosa deve scattare per farle accettare un progetto?

La storia, se questa mi parla, se il personaggio mi comunica subito qualcosa e io posso contribuire a farlo crescere, mi butto.

Ha terminato da poco le riprese della quarta stagione de “I Bastardi di Pizzofalcone”. Cosa rappresenta nella sua carriera questo progetto?

Sono molto legato ai Bastardi, un lavoro che mi ha permesso di collaborare con una squadra di attori fantastici, è stata un’avventura lunghissima, ormai si è creata una famiglia. Quando abbiamo iniziato conoscevamo la grande attenzione dello zoccolo duro dei lettori di Maurizio De Giovanni, questo poteva mettere anche un po’ di pressione, perché è un pubblico esigente. Ma è andato tutto bene. Sento l’affetto della gente, è un pezzo del mio cuore.

Non solo casi di risolvere, ma una squadra…

… che esprime la sua forza nello stare insieme, nel supportarsi. Al di là delle indagini, che sono le linee guida di ogni episodio, mi sono reso conto che, i lettori prima, gli spettatori poi, si sono affezionati alle vicende personali di ciascun personaggio.

Un napoletano che vive la propria città anche nella professione…

Per me Napoli è uno stupore continuo, tutte le volte che torno è come un bagno di umiltà. Eduardo De Filippo diceva che questa città “è un teatro a cielo aperto”, è luce. Colpisce ogni volta il meraviglioso modo in cui un napoletano affronta una giornata, nonostante tutte le difficoltà. Sorrido pensando a una battuta di Troisi in “Scusate il ritardo”, alla frase “’a vita s’adda piglià comme vene!”, risponde “Io ’a piglia comme vene, ma guardacaso a mme vene sempe ’na chiavica, guarda ’a combinazione!”. Questo esorcizzare anche le sfortune quotidiane, gli inciampi della vita è una possibile, bella filosofia di vita.

Come gestisce l’affetto del pubblico, la popolarità?

Cerco di ricambiare dando tutto me stesso, facendo al massimo delle mie possibilità il mio lavoro. Quando qualcuno si interessa a ciò che faccio, sono felice perché è un atto di stima. Ce la metto tutta a non tradire il pubblico (ride). Le critiche non mi spaventano, provo a rimanere con i piedi per terra di fronte ai complimenti, non mi abbatto quando i giudizi su di me sono meno esaltanti. Una volta all’Accademia, Sergio Castellitto disse che la vita di un attore è fatta a scale, c’è un periodo in cui si sale e nemmeno ci si accorge, momenti di stallo e altri in cui si scende. È per questo che si deve provare a tenere i piedi per terra, non per falsa umiltà, ma per salvaguardare proprio il mestiere.

Ha mai pensato di fare il regista?

In questo momento no, è un lavoro di troppe responsabilità, preferisco essere diretto. Non sono bravo a comandare (ride). Ci sono delle storie personali che mi piacerebbe raccontare, ma è ancora troppo presto.

In quali progetti sarà impegnato prossimamente?

Quasi contemporaneamente a “I Bastardi di Pizzofalcone” ho girato la seconda stagione della serie di Gabriele Muccino, ho dei progetti di cui ancora non posso parlare. Nel futuro imminente c’è stare insieme alla mia famiglia, anche perché nell’ultimo anno ho lavorato molto: ho finito di girare a marzo “Il nostro Generale” e a maggio ero sul set di “Shukran” di Piero Malegori con Syrus Shahid. Ora è arrivato il momento di fermarsi per ricaricare le energie.

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