Paolo Mieli
Tra emergenza e speranza
Paolo Mieli scatta una fotografia all’Italia alla vigilia della Festa della Repubblica: “Sarà il 2 giugno che più assomiglierà a quello del 1946”. “C’è stato un momento forte di unità nazionale all’inizio del lockdown, quando ci siamo chiusi in casa, perché quel comportamento l’abbiamo osservato e rispettato tutti, dalla Valle d’Aosta fino alle valli più remote della Sicilia – afferma – Siamo un popolo capace di affrontare grandi emergenze, ma non un popolo unito”. Il giornalista conduce “Passato e presente” dal lunedì al venerdì alle 13.15 su Rai3
Che due giugno sarà quello di quest’anno?
Se le cose continuano come si sono messe sarà di grande letizia. Non tutto è risolto, ma il 2 giugno segnerà il giorno della totale riapertura, dell’inizio di un’estate che, se gli italiani continueranno a osservare le norme prescritte dagli scienziati e dalla politica, potrà essere di festa e di libertà. In qualche modo sarà il 2 giugno che più assomiglierà a quello del 1946, quando si sentiva nell’aria l’alba di un periodo nuovo, l’alba di un periodo in cui ci si gettava alle spalle un passato terribile, che aveva causato lutti e danni particolari, quello della Seconda guerra mondiale, e ci si riaffacciava alla vita. Ben inteso, oggi, però, con un senso di ansia che per mesi e mesi continuerà ad esserci, non sapremo infatti se ce lo saremo definitivamente messo alle spalle il passato del Covid-19. Ma attenzione a non fare l’errore di confondere il clima di allora con quello che è stato raccontato successivamente.
In che senso?
Anche nel 1946 non si era del tutto convinti che la guerra fosse finita per sempre. È vero che fascisti e nazisti erano stati battuti una volta per tutte, però in quel periodo iniziava la guerra fredda, c’era il rischio di un conflitto nucleare e c’era anche allora l’apprensione che si potesse ripresentare uno scenario di guerra anche peggiore di quello precedente, perché con le armi atomiche sarebbe stato un conflitto di cui l’anticipazione si era vista a Hiroshima e Nagasaki nell’agosto del 1945. Oggi tendiamo a idealizzare lo stato d’animo di quel momento perché sappiamo come sono andate le cose dopo. Sappiamo che, a parte la guerra di Corea, tra il 1950 e il 1953, in cui il mondo fu di nuovo sull’orlo di un baratro, ma che fu un conflitto molto lontano che non ebbe riflesso su di noi, anche allora fu l’inizio di un’estate gioiosa con qualche apprensione nell’anima. Le analogie sono molte di più delle cose che sono ovviamente diverse, perché diverso era il clima del 1946 rispetto a quello di oggi.
La storia ci racconta di tante epidemie, ci sono differenze tra quelle del passato e quella che stiamo vivendo?
Le epidemie del passato sono state tante, dalla peste di Atene nel V secolo avanti Cristo alla peste antonina, dalla famosissima peste nera del Trecento alla peste manzoniana del 1630, fino alla spagnola, subito dopo la Prima guerra mondiale. Ma allora non sapevamo né come fossero arrivate, né come se ne sarebbero andate, erano semplicemente epidemie, probabilmente di vaiolo o di morbillo. Il rimedio fu anche allora quello dell’isolamento. Quelle ondate pestilenziali ebbero più fasi, si ripresentarono per vari appuntamenti finché alla fine, dopo avere ucciso anche metà della popolazione, milioni di persone, sparirono del tutto, si creò l’immunità di gregge. Poi arrivarono altri virus a distanza di cinquanta o cento anni. Adesso ne sappiamo molto di più, ma questo non significa sapere tutto, molte cose del virus attuale rimangono oscure.