QUANTE VITE IN UN ATTORE

MASSIMO GHINI

Nella serie diretta da Fausto Brizzi il popolare attore romano è Manlio De Vitis, temutissimo agente delle dive e manager di Gloria. Il RadiocorriereTv incontra l’artista che insieme a Sabrina Ferilli ricrea una delle coppie cinematografiche più amate dal pubblico. Lunedì 26 e martedì 27 febbraio in prima serata su Rai 1

Cosa ha pensato dopo avere letto il copione di “Gloria”?

Sono subito rimasto colpito dal racconto, da una narrazione nuova rispetto a tutto quello a cui eravamo abituati nella serialità. E poi c’era la possibilità di tornare finalmente a lavorare con Sabrina Ferilli. Siamo stati sempre una coppia positiva, non voglio dire vincente per scaramanzia sportiva. All’inizio ho pensato a uno scherzo, ma fortunatamente non lo è stato. Lavoro con l’attrice con la quale ho recitato di più nella mia carriera mentre il regista Fausto Brizzi è come se fosse un fratello.

Con “Gloria” si ride e si riflette. Con quale spirito affrontate vizi e virtù del “dietro le quinte” del mondo dello spettacolo?

Entriamo un po’ a gamba tesa ed è tutto molto politicamente scorretto. E io dico, vivaddio che è politicamente scorretto (sorride). Facciamoci due risate con le battute di Gloria, con il suo cinismo. Sono felice della scelta della Rai di realizzare questa serie, c’è un coraggio che porta ad aumentare una sorta di provocazione costruttiva. Parliamo dell’ambiente del cinema, spesso conosciuto male, spero che “Gloria” porti attenzione verso problematiche che sono universali.

Quanta verità c’è in questa storia?

Non è che nel nostro ambiente avvenga esattamente questo (sorride). Però c’è certamente qualcosa che riporta a una realtà che è legata, più in generale, all’idea del successo. Quali sono i mezzi per raggiungerlo? Cosa accade quando viene meno? È una riflessione più in generale su un meccanismo che vale sia nel mondo dell’arte che in quello della politica, della medicina, per qualunque tipo di attività.

Che cosa deve fare un attore per sfondare e resistere nel tempo?

Studiare ed essere determinato. A 19 anni venni bocciato all’esame d’ammissione all’Accademia nazionale d’arte drammatica e per me fu un grande dolore. Sono cresciuto autodidatta, la mia scuola è stata il lavoro. Debuttai a Parigi al teatro Odéon con il “Re Lear” di Shakespeare e la regia di Giorgio Strehler. Alla fine dello spettacolo telefonai a mia madre e le dissi: qui qualcuno si è sbagliato. O l’Accademia o Strehler (sorride). Se vuoi durare nel tempo ti devi applicare come un medico, un chirurgo, un professore. Servono una totale dedizione e spirito di sacrificio.

All’Accademia si è invece diplomato suo figlio Leonardo…

Un bel giorno ho scoperto che era passato da Totti a Čechov. Leonardo mi ha fatto un bel regalo, mi ha dato una grande soddisfazione. Spesso tra i giovani che vogliono intraprendere la carriera d’attore c’è confusione, si pensa al risultato facile. Ma per diventare attori serve altro.

Sono oltre cento i film e le serie a cui ha preso parte…

Ma se devo dire la verità non sono mai stato molto amato dalla critica. Per molti anni mi è dispiaciuto, mi facevano sembrare uno che aveva sbagliato le proprie scelte. Quando iniziai, secondo una mentalità sbagliatissima, tutta italiana, ero considerato fisicamente non adatto. Venivo da Strehler, Gassmann, Zeffirelli, dal teatro. I critici dicevano che avrei dovuto fare i b-movie, i film d’azione, ma io vedevo la mia anima che era tutt’altro. Sono arrivato alla commedia che ero un attore maturo, con molte decine di film alle spalle, e non parliamo di cinepanettoni. Una giornalista, in televisione, mi disse che non riusciva a capire come facessi a passare da Strehler a Pietro Garinei al Sistina, da Francesco Rosi a Neri Parenti. Risposi che evidentemente, se mi chiamavano a fare Shakespeare, a fare la commedia musicale, mi consideravano all’altezza. Credo proprio che sia importante per tutti gli attori non essere monotematici. Ho questa carriera molto lunga perché ho avuto dalla mia parte il pubblico.

Che la seguì anche quando si aprì alla televisione…

Dopo anni di cinema fui uno dei primi a fare la Tv, nonostante le critiche di chi vedeva la televisione come un mondo di serie “b”. Accadde con la miniserie “Come l’America” con Sabrina Ferilli, che fece 11 milioni di telespettatori.

Tante maschere e tanti personaggi nella sua valigia, ha mai avuto timore di mettersi in gioco?

Ho sempre amato l’idea di trasformarmi, di non fare ogni volta me stesso. Amo dovermi cambiare, che sia un trucco, un vestito, una parrucca, ma anche cambiare interpretazione, personaggi. Non farlo, per un attore, significa rinunciare a molto. Anche nei cinepanettoni io e Christian (De Sica) abbiamo dato vita a tanti duetti, scegliendo di essere personaggi e non maschere, era un po’ come fare un doppio al tennis.

Teatro, televisione, il suo inverno è pieno di lavoro…

Ho girato tre film ed è ricominciata la tournée di “Quasi Amici” con Paolo Ruffini, che stiamo portando in giro con un successo devo dire pazzesco, in tutta Italia. Io sono il tetraplegico che sta sulla sedia a rotelle, colto e ricco, lui è il politicamente scorrettissimo, maleducato e ignorante: i due si incontrano e si scambiano in qualche maniera le loro storie. Il sold out dei teatri mi conforta tantissimo, in sala c’è un pubblico trasversale, con giovani e adulti.

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