Malinconico? Suona come una chitarra
DIEGO DE SILVA
Lo scrittore e sceneggiatore napoletano parla del suo avvocato d’insuccesso, protagonista della nuova serie di Rai 1: «Si ride addosso, e ride del mondo. E piace alle donne perché inciampa da fermo»
Le vicende di Vincenzo Malinconico arrivano in Tv, cosa prova lo scrittore De Silva?
Sono molto contento, è stato un lungo percorso. Abbiamo lavorato tre anni alla sceneggiatura e poi c’è stato l’incontro con il regista Alessandro Angelini, che ha fatto un lavoro egregio, e con Massimiliano Gallo…
… che ha dato volto, anche nella sua mente, al personaggio…
… sono uno scrittore che non descrive mai né i suoi personaggi né i luoghi, perché secondo me la descrizione imbriglia l’immaginazione del lettore. Così per cinque libri non sapevo chi fosse Malinconico, non avevo idea delle sue fattezze estetiche. Ora, anche per me, il volto dell’avvocato Malinconico è quello di Massimiliano Gallo e non potevo essere più fortunato. Lui è una persona deliziosa e un attore con una pluralità di registri che controlla perfettamente, è riuscito a rendere il personaggio in tutte le sue variazioni umorali.
Quando inventò Malinconico immaginava che avrebbe ottenuto un consenso letterario così ampio?
È stata una sorpresa. Era tra l’altro la prima volta che scrivevo in prima persona e mi prendevo delle libertà che in terza persona non mi consentivo. Quando scrivi in terza devi raccontare l’essenziale, ciò che è funzionale alla storia, scrivendo in prima mi rendevo conto di essere più libero, innanzitutto nella digressione (sorride). Nei libri di Malinconico sono fortemente digressivo, perché io stesso ho quel tipo di carattere. Quando mi faccio prendere da una congettura difficilmente cambio strada, e rimango continuamente attratto da altre cose che capitano. Mi accadeva anche ai tempi della scuola.
Con il rischio di andare fuori tema…
L’insegnante di filosofia mi diceva che andare fuori tema non avrebbe rappresentato un problema se avessi portassi la narrazione in un posto in cui valesse la pena andare. Questo è rimasto il mio faro.
Definisce il suo Malinconico un “perdente” e non un “fallito”. Che differenza c’è?
La figura del loser, come la chiamano in America, ha una sua poesia. La grande narrativa, anche comica, è piena di perdenti. Per quanto ci riguarda, da un punto di vista sia editoriale che culturale penso a Massimo Troisi, la sua figura è quella del perdente, ma nessuno di noi penserebbe a lui e al suo ruolo, come a dei falliti. Era semplicemente un uomo a disagio che affrontava la vita con tutti i suoi limiti. Malinconico è uno di noi. È uno che si sente a disagio nei ruoli che la vita gli assegna di volta in volta: è a disagio come avvocato, come genitore, come amante, come ex marito. Fa la battaglia che facciamo tutti per mantenerci in vita con dignità e possibilmente cercando di farci amare. Malinconico riesce a essere amato, anche se poi le donne lo lasciano e non è che gli vada molto bene nella vita. È una persona che non deve vincere per essere felice, questo credo che sia anche un bel messaggio.
Il suo è un entusiasmo quasi fanciullesco…
Che nasce dal trovare la vita sempre incantevole, ossia in grado di provocare incanti. Questo soprattutto per una ragione che più che poetica è filosofica: la vita è incomprensibile, ed essendo tale, l’unico modo che abbiamo per cercare di chiuderla in uno schema logico è raccontarla, o almeno, cercare di farlo.
Ha mai provato, da scrittore, la paura di rimanere intrappolato in un suo personaggio?
Sicuramente sì, è un problema che ti poni proprio quando un personaggio funziona. Ma Malinconico per me è una voce, è come suonare uno strumento su cui mi trovo particolarmente bene, è un modo attraverso il quale penso, e questo mi facilita moltissimo la scrittura. La sua voce mi viene naturale, ha una sua autenticità, è una sorta di sdoppiamento della mia mente come se io parlassi con me stesso, e attraverso la voce di Malinconico trovassi la realtà, sempre un po’ ridicola. Malinconico si ride addosso, e ride del mondo, essendo sempre parte della scena ridicola. Non ridicolizza mai nessuno, e se accade parte sempre da sé. Questo è anche un principio della migliore comicità, che non è mai quella che deride qualcuno. I grandissimi comici sono sempre i primi a tirarsi da soli i pomodori in faccia.
Ha parlato di Malinconico come di uno strumento, a quale si riferisce?
La chitarra, che è il mio strumento. Ai tempi dell’università avevo anche una band. Non ho più il tempo di suonare ma mi circondo ugualmente di chitarre, la musica è importante, è presente nei miei romanzi, ne parlo spessissimo. Malinconico è una chitarra, il più femminile degli strumenti, anche dal punto di vista della forma, della corporeità. Tutti gli strumenti sono erotici e sensuali, la chitarra ha una forma, una sensualità, molto femminile.
Malinconico come vede le donne?
Ha un rapporto di grandissima devozione, ma è anche per un fatto generazionale. Siamo cresciuti nell’ammirazione quasi biologica del femminile. L’idea che una donna potesse mettere gli occhi addosso a te, potesse degnarti della sua attenzione, del suo amore, era un dono immenso, come se quest’essere alieno e meravigliosamente bello potesse posare gli occhi su un terrestre. Lui non è un adone, non è un seduttore, ma riesce a sedurre proprio con il suo senso del limite, con il suo sentirsi inadatto. La cifra di autenticità e fragilità attira una donna sensibile. Mi diverto sempre a dire che Malinconico forse piace alle donne perché è il tipo di uomo che inciampa da fermo, la mia opinione è che alle donne piacciono gli uomini che inciampano da fermi (sorride).
Quali sono stati i paletti al di fuori dei quali ha chiesto che la serie non andasse?
Quando si parla di una trasposizione bisogna sempre essere disponibili e non difendere stupidamente e ostinatamente il testo dal quale si parte. Nel momento in cui accetti devi capire che nell’altro settore ci sono altre regole, altri principi e altri obiettivi. Mi piace molto considerare il mio mestiere come artigianato, se scrivo un libro, una commedia, un articolo di giornale, una sceneggiatura, faccio cose diverse. La scrittura si muove a seconda degli ambiti in cui la eserciti. La cosa fondamentale è che si rispetti la complessità del personaggio, Malinconico è un personaggio molto facile da macchiettizzare, se vuoi semplificare puoi anche far ridere, ed è un po’ il problema di molta commedia fatta male, ma è un errore. Ridere per ridere non ha senso, bisogna costruire un ragionamento, un’opinione, una prospettiva sul mondo che possa incontrare la sensibilità del lettore e dello spettatore. Devi attirare l’attenzione e lo fai attraverso una scrittura molto affilata, una recitazione alta, e la mente di un regista, in modo da organizzare la scena e dare un’ottima direzione. Devo dire che in questo sono stato molto fortunato.
Malinconico molto racconta del nostro Sud, ha mai pensato a come se la caverebbe a Milano?
Malinconico a Milano? Non è male (sorride). Ci starebbe con molto disagio perché è difficile trovarsi in una realtà in cui tutto funziona. È come se una persona abituata a vivere in una città molto piovosa si trasferisse a Napoli, ecco, la prima settimana sarebbe rincoglionito dal sole.
Al suo Malinconico ha dedicato un libro di “massime”, o meglio, di “minime” (“Le minime di Malinconico”, Einaudi), ce ne regala una?
Una che amo moltissimo è “dicono che la felicità si trova nelle piccole cose, sapeste l’infelicità!”
Un’altra ancora…
“Le volte in cui mi capita di avere ragione sono sempre solo”. Hai un’illuminazione rispetto a una discussione avvenuta tempo prima e ti dici: se avessi potuto dire questa cosa al momento giusto! È un po’ il problema della vita, che ti coglie impreparato. Spesso la letteratura serve a dare la risposta giusta quando non serve più.