LORENZA INDOVINA
Il fascino dell’umano
Nella nuova stagione di “Rocco Schiavone” – il mercoledì su Rai 2 – è Michela, commissario della scientifica molto preparato alle prese con la riscoperta della sua femminilità. L’attrice romana è anche a teatro con la commedia “Perfetti sconosciuti” e al lavoro di un documentario sul disastro aereo del 1972 a Punta Raisi in Sicilia, dove perse la vita suo padre
Rocco Schiavone è un personaggio che il pubblico ritrova sempre con piacere. Ma cosa rende questa serie così epica e imprescindibile?
I motivi sono molteplici. Il primo è sicuramente la qualità dei romanzi da cui è tratta, scritti con grande maestria, in cui i personaggi sono tridimensionali, ricchi di sfaccettature e profondamente umani. In secondo luogo, il protagonista è una figura unica nel panorama televisivo: un poliziotto burbero, segnato da un dolore profondo, ma al tempo stesso empatico, umano e incredibilmente affascinante. Marco Giallini lo interpreta in maniera straordinaria, rendendolo ancora più autentico e coinvolgente. Il fascino del personaggio risiede proprio nel suo lato oscuro, nel buio che porta dentro di sé. Inoltre, la serie è curata nei minimi dettagli, dalla regia impeccabile alle suggestive ambientazioni innevate, che contribuiscono a creare un’atmosfera intensa e avvolgente.
E poi c’è una squadra di lavoro consolidata…
Ormai siamo una famiglia. Ci conosciamo da anni e ci ritroviamo a lavorare insieme con entusiasmo ogni volta che la serie riparte. Antonio Manzini, autore dei romanzi, aggiunge sempre nuove sfide, costringendoci a essere più attenti e coinvolti (ride).
Quali sono state le difficoltà da affrontare in questa nuova stagione?
Per quanto riguarda il mio personaggio, mi sono sentita abbastanza serena, ma la sfida più grande è pronunciare termini in latino piuttosto complessi, tanto da dovermeli scrivere sulla mano per ricordarli! Inoltre, in una puntata ci siamo trovati ad affrontare il delicato tema della pedofilia, un caso particolarmente forte dal punto di vista emotivo e molto inusuale per la serie. Trovare il giusto equilibrio è stato difficile, perché il mio personaggio oscilla costantemente tra il grottesco e il realistico. Lavorare sulla verità emotiva, dunque, ha rappresentato un valore aggiunto per il ruolo.
A di là dei casi di puntata, quali sono in questa stagione le colonne portanti di questa stagione?
Rocco Schiavone resta il fulcro di tutto, ma all’interno della serie si intrecciano altre storie: la mia relazione con Alberto, nuove dinamiche sentimentali e, soprattutto, la parte romana, che acquisterà maggiore rilievo nell’ultima puntata, quando il gruppo degli amici partirà per l’estero. La serie continua a mantenere le linee orizzontali dei protagonisti, che si inseriscono nel racconto giallo e quello legato al protagonista.
Cosa rende un personaggio interessante?
Un personaggio deve essere ben costruito, con lati chiari e oscuri, con elementi emotivi forti che lo spingano a compiere scelte anche destabilizzanti. Per me è fondamentale la qualità della scrittura e dei dialoghi: se un attore ha battute poco credibili, far emergere il personaggio diventa difficile. Più un ruolo è lontano dalla mia esperienza, più mi diverte interpretarlo, perché rappresenta una sfida stimolante.
Qual è stato il rapporto con Antonio Manzini?
Antonio è un caro amico da tanti anni, sin da quando era attore prima di diventare scrittore. Ho la fortuna di poterlo contattare per chiedere consigli o confrontarmi con lui, così come con il regista Simone Spada, il “comandante della nave”. Quando il mio personaggio è stato introdotto nella seconda stagione, ho chiesto a Manzini quale tono adottare: avrebbe potuto essere interpretato in maniera grottesca, ma lui mi ha chiesto di mantenere misura, senza perdere l’ironia. Con il tempo, il mio personaggio ha vissuto una piccola evoluzione, scoprendo la propria femminilità dopo l’incontro con Alberto e lasciandosi alle spalle l’immagine trasandata di un tempo (ride).
Riflettendo sul personaggio di Schiavone. Il vicequestore a un certo punto spegne la sigaretta, infila le mani nel loden, va e si butta nel mondo. Cosa serve, invece, a Lorenza Indovina per buttarsi nel mondo?
Per quanto mi riguarda, per lanciarmi in qualcosa ho bisogno di credere in un progetto. Ne parlavo con una giovane attrice che mi diceva di non avere più aspettative, e io le ho risposto che gli stimoli sono fondamentali: ci aiutano a dare senso a ciò che facciamo. Non necessariamente nel mondo, ma nella nostra vita. L’importante è trovare qualcosa che ci arricchisca e ci faccia sentire utili. Una delle esperienze più gratificanti per me è stata il coaching nella serie “Anna” di Niccolò Ammaniti: confrontarmi con i dubbi, le fragilità e la generosità dei ragazzi mi ha illuminato la vita. Tutto questo mi ha illuminato la vita.
Qual è, secondo lei, il ruolo dell’artista oggi?
Viviamo in un’epoca buia dal punto di vista culturale. L’asticella si sta abbassando drasticamente, si inseguono solo algoritmi e l’intelligenza artificiale incombe, cosa che mi spaventa molto. L’altro giorno usavo un programma di scrittura e, evidenziando una frase, si è aperta una finestra con suggerimenti su come riscriverla. Ma la cultura richiede fatica, pensiero, impegno e attenzione. Oggi tutto è una sintesi e si rischia di non allenare più il cervello. Anche nel mio lavoro, con i tempi di produzione sempre più stretti, si punta più sulla quantità che sulla qualità. Il rischio è quello di ottenere un prodotto standardizzato, senza una propria personalità. Dobbiamo fare di più per mantenere viva l’arte, che è fondamentale per la crescita umana e la creatività.
Cosa fa, anche attraverso il suo lavoro, per contrastare questo tipo di tendenza?
Oggi sono ancora più selettiva: non partecipo a progetti in cui non credo, indipendentemente dal ruolo. Per esempio, in “Tutto chiede salvezza” di Francesco Bruni avevo un ruolo piccolo, ma ero felice di farne parte. Ora lavoro a teatro con “Perfetti sconosciuti” e mi sento viva, parte di un gruppo affiatato con un testo ben scritto. In generale, cerco di preservare la mia mente dalle cose brutte (ride). Una mia amica direttrice la fotografia ai suoi allievi dice: “Guardateli i film di oggi, ma dopo il primo compensa con tre classici” per riequilibrare le cose.
In cosa è impegnata oggi?
Sto lavorando a un documentario come regista, mossa da un gruppo di persone che mi sono venute a chiedere di raccontare una storia, per me emotivamente molto coinvolgente, nella quale c’è dentro una parte importante della mia vita. Affronto il tema di un incidente aereo avvenuto nel 1972, dove è morto mio padre, quando avevo sei anni. Non è un racconto investigativo, ma lo affronto dal punto di vista umano, perché questo incidente ha lasciato 98 orfani, tutti molto piccoli. Mi sono concentrata sul come si possa crescere con un vuoto di questo genere, con questa mancanza, con il senso del ricordo e dell’immaginazione. Per me è stato fondamentale indagare il senso della verità, che in questi anni si è perso.
È più ottimista o pessimista?
Io dico sempre che sono una ottimista che vede il bicchiere mezzo pieno, perché poi il resto lo bevo (ride).
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