L’arte di non vedere

VINCENZO MOLLICA

Una confessione al pubblico del cronista e dell’uomo. Un viaggio di emozioni che attraverso i racconti della musica, del cinema e dello spettacolo, fotografa la nostra storia più recente. A pochi giorni dal debutto a teatro, il popolare giornalista incontra il direttore del RadiocorriereTv Fabrizio Casinelli

Come nasce l’idea di questo racconto teatrale?

Ci sono la mia vita e il mio lavoro. L’ho intitolato “L’arte di non vedere” perché è la condizione attuale, dato che non vedo più niente. Fin da quando ero piccolo ho sempre visto solo dall’occhio destro. Ho vissuto insieme la vita da vedente e quella da non vedente. Per cui quando volevo capire com’era la vita di un cieco bastava tapparmi l’occhio destro. Ma con quell’occhio lì sono riuscito a lavorare una vita intera, fino a cinque anni fa. E in tutto questo si intrecciano il mio lavoro, le persone che ho incontrato. Ho avuto la fortuna di stare quarant’anni al Tg1 che considero la mia seconda casa, la mia famiglia. Ho sempre voluto lavorare per la mia testata, senza mai chiedere un distacco, sempre fedele. Per me il Tg1 significa Rai, servizio pubblico in cui ho sempre creduto e mai smetterò di credere.

Hai detto una cosa bellissima: io sono un cronista. Di cronache ne hai raccontato tante e hai realizzato interviste straordinarie…

È la verità. Sono nato cronista. Sono un cercatore di storie che cerca di ascoltare le persone che incontra. Sono uno che si è emozionato tanto e che racconta, con il sentimento più vero, ciò che ha scoperto. Cronista è una parola immensa, straordinaria. Far bene il lavoro da cronista non significa rispondere alle domande “chi, come, dove, quando e perché”, ma narrare il sentimento che una storia porta con sé. Se sai raccontarla bene, lascia il segno.

Qual è stata l’intervista più bella che hai fatto e quale quella che avresti voluto fare?

L’intervista più bella che ho potuto fare è quella che ogni volta mi sono ritrovato a fare con Federico Fellini. Lui è stato il più grande artista e la più grande persona che ho conosciuto nella mia vita. Era soprannominato “il faro” perché dentro di sé aveva una luce che trasmetteva. Credo che tutte le volte che l’ho intervistato, alla fine, ero migliore di quanto fossi all’inizio. Il desiderio senza tempo è invece l’intervista che avrei voluto fare a Charlotte, non a Charlie Chaplin, ma a quel vagabondo che ci ha spiegato la vita meglio di qualunque altro personaggio che abbia attraversato la storia del cinema. E ancora oggi, le sue comiche sono portatrici di qualcosa che ci aiuta a capire il senso della vita. E se posso esprimerne un altro, scelgo Walt Disney. 

Infatti, sei diventato anche un personaggio di Topolino.

Ho avuto la fortuna di diventare Vincenzo Paperica, grazie alla matita di Giorgio Cavazzano. Una gioia grande. Come Vincenzo Paperica ho seguito lo stesso percorso di Vincenzo Mollica. Come umano andavo al Festival di Sanremo, a Cannes, agli Oscar, al Nobel. Quando tornavo facevo le cronache per il Tg1 e poi iniziavo quelle per Topolino. Abbiamo fatto tante storie, lui è stato un mio compagno di viaggio. Spesso, nelle storie di Vincenzo Paperica, ho messo quello che non mettevo in Vincenzo Mollica.

Sei riuscito, anche attraverso il disegno, a comunicare diverse sfaccettature del cronista…

Disegnavo da quando ero piccolo. La cosa che mi manca di più oggi che non ci vedo, è quella di scarabocchiare, di usare i colori. E mi sono inventato, quando ancora ci vedevo, due movimenti artistici, totalmente finti chiaramente. Uno si chiamava Puppismo che ho fatto disegnare da grandi pittori e fumettisti, il secondo è il Poldismo, ispirato al personaggio Poldo che fa i panini a Braccio di Ferro, un grande filosofo che ha espresso attraverso il suo silenzio tante sottolineature della vita che mi hanno fatto compagnia e tanto ridere. Di solito, nei personaggi dei fumetti, a Superman con l’ultravista, ho preferito Clark Kent che ci vedeva poco. A Topolino ho preferito Pippo con la sua faccia lunare.

Forse perché ti immedesimavi in personaggi che non erano di primo piano, come il cronista che fa il passo indietro…

Il vero cronista fa sempre un passo indietro per ascoltare e capire. Non è necessario essere invadenti o talmente narcisisti da mettere se stessi in evidenza rispetto alla storia o alla persona da intervistare. Per ascoltare e capire bisogna sempre fare un passo indietro, capire quello che c’è intorno, capire come quella storia è nata, intorno a che cosa. Bisogna coltivare le storie come dei fiori, cercarle, trovare le sementa, capirle, farle crescere e viverle. E solo poi, con la scrittura, la televisione con le immagini, la radio con le parole e i suoni, saperle raccontare.

Se ti trovassi su un’isola deserta, potendo portare un disco, un libro e un film, cosa porterebbe con sé Vincenzo Mollica?

Sicuramente porterei “Tempi moderni” di Charlie Chaplin e “La Strada” di Federico Fellini. Ne porto due! Per i dischi ne porterei uno di Paolo Conte, “Un gelato al limon”. Se dovessi portare un altro disco sceglierei Leonard Cohen. Per quanto riguarda i libri io sono appassionato di uno scrittore che si chiama Daniele Del Giudice. Mi porterei “Nel museo di Reims”. È un libro piccolo, che vale più di un romanzo. Racconta la storia di uno che sta per perdere la vista e che va nel museo di Reims per vedere il quadro che ha amato di più nella sua vita e lì incontra una donna. Ecco, questa storia è quella che mi commuove di più oggi e che porterei su un’isola deserta. 

“DoReCiakGulp” è stato il modo più intelligente e giusto, oltre che televisivamente parlando il modo più veloce, per raccontare quello che accadeva nella musica e nel cinema. Com’è nata l’idea?

Nasce dall’idea di una rubrica che si chiamava Prisma di Gianni Raviele, condotta da Lello Bersani che ho iniziato a condurre anch’io. Quando Prisma ha chiuso, ad un certo punto mi chiesero di fare una rubrica dentro al Tg1 di 3 minuti. Nel ’95 nacque quindi “DoReCiakGulp”, il cui direttore era Marcello Sorgi. Da allora in 3 minuti ho cercato di raccontare, ogni sabato, qualcosa che aveva a che fare con il cinema, il teatro, la letteratura. Inizialmente pensavo che in tre minuti non si potesse raccontare nulla, invece, si può raccontare il mondo intero. La sigla era fatta da personaggi che dicevano DoReCiakGulp. L’ho fatto dire a Spielberg, Woody Allen, Fiorello, Benigni…

A proposito di Benigni, Fiorello e aggiungo Vasco Rossi…

Tre nomi bellissimi. Aggiungerei Adriano Celentano. Quattro nomi straordinari, fondamentali nella mia vita, importantissimi. Il primo è stato Celentano, cronologicamente parlando. Ho seguito le sue storie da ragazzo, il suo essere ribelle, non convenzionale, così lanciato verso il futuro. Lui ha sempre cercato di capire, non di cavalcare. Roberto Benigni è sempre stato un poeta della comicità. Una persona di grande cultura, di passione per il cinema. Ci conosciamo da più di quarant’anni. Mi ha regalato una delle gioie più belle che è quella degli Oscar. Assistere ai suoi Oscar per “La Vita è Bella” a Los Angeles è stata una cosa meravigliosa. Mi ha regalato una delle frasi più belle che io abbia mai sentito. Al mio microfono ha detto: “lo scienziato apre gli occhi e guarda, il poeta chiude gli occhi e canta”. Fiorello è un maestro dell’arte della sorpresa. Ogni mattina se ne inventa una. Tutto quello che semina fiorisce, come dire, diventa a misura sua. Qualsiasi persona deve combinare qualcosa con lui, diventa colorata e si impossessa del suo sentimento contagioso. Incontrarlo è una festa della vita. Vasco Rossi lo amo infinitamente. È un grande artista, un poeta che ha scritto canzoni memorabili, che hanno segnato la nostra vita, che uniscono, che hanno la voglia di farsi cantare da tutti in uno stadio. Lui esprime i nostri sentimenti in maniera molto limpida, perché ha una caratteristica, un cuore sincero.

Parlo al cronista, ad un collega… 

Ti ho sempre considerato un grande collega, ho sempre visto il sentimento con cui lavori. Questo lavoro, si fa con un sentimento e dobbiamo farlo vivere, innaffiarlo. Ti ho visto lavorare con la mia stessa passione e siamo uniti dalla voglia di raccontare bene la storia che stiamo vivendo. E questo non lo tagliare.

Grazie Vincenzo. Sei una delle poche persone a cui tutti vogliono bene e per un cronista è uno dei traguardi più belli che si possano raggiungere.

Me ne sto accorgendo da quando sono andato in pensione tre anni fa, dopo il festival di Sanremo. Quando lavoravo non me ne accorgevo. Adesso incontro tante persone che si ricordano tutti i servizi che ho fatto. C’è tanto affetto che non pensavo di avere. I miei settant’anni mi hanno regalato questo: l’affetto della gente.

Hai lavorato con grandi giornalisti come Emilio Rossi, Nuccio Fava, Enzo Biagi, Albino Longhi, Alberto Maccari, che hanno scritto pagine importanti della nostra storia. Com’era lavorare con queste persone?

Era come lavorare in un transatlantico, che era poi il Tg1. Navigava in tutti i mari e li sapeva raccontare. Il primo direttore del Tg1 è quello che mi ha assunto, Emilio Rossi, insieme a Nuccio Fava vicedirettore. Mi hanno insegnato il senso vero del servizio pubblico che non è qualcosa di finto, ma di concreto, di reale che si misura quotidianamente con tutto quello che noi facciamo come giornalisti Rai. Albino Longhi ha vissuto su questa scia come Alberto Maccari. Persone che mi sono care e sicuramente forse il più grande è stato Enzo Biagi con cui ho avuto la fortuna di lavorare e di essere suo amico fino alla fine della sua vita. Un signore di una grandezza umana. Bastava guardare come muoveva un sopracciglio. Gli ho visto fare delle interviste meravigliose con Benigni, Indro Montanelli, degli incontri pazzeschi con tanti personaggi, come Marcello Mastroianni. Ma Biagi era uno che sapeva ascoltare e mi ha insegnato l’arte di fare domande senza che queste vengano preparate, perché devono essere figlie di una conversazione. Solo ascoltando e capendo quello che uno dice, si possono fare altre domande.

“Di questa chiacchierata taglia quello che vuoi, ma non il mio pensiero su di te, perché sei un grande professionista, un amico e un cronista vero”.  A queste parole non nascondo che una lacrima sia scesa sul mio viso e quella che doveva essere una chiacchierata di auguri natalizi è diventata qualcosa di più, anche perché l’11 gennaio, in teatro, Vincenzo Mollica si racconterà.

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