La tv nel pozzo
Il documentario diretto da Andrea Porporati racconta quello che i media costruirono attorno alla tragedia del piccolo Alfredino Rampi, un bambino di 6 anni caduto in un pozzo artesiano a Vermicino il 10 giugno 1981. Un evento che non ebbe un lieto fine raccontato in diretta tv a reti unificate, inseguito per tre giorni nel suo dramma così personale e umano… Fu la cronaca di una morte in diretta. L’inizio di quella che oggi chiamiamo “la tv del dolore”. In onda sabato 21 settembre alle 21.20 su Rai 3
La foto di un bambino che sorride, con una maglietta a righe. All’inizio è solo una istantanea di famiglia conservata su di un mobile nel soggiorno di una casa di Roma. Quella stessa foto finisce sulla prima pagina di un giornale, poi di tutti i giornali. Riempie lo schermo alle spalle dei conduttori dei Tg nazionali. Quarant’anni dopo la ritroviamo su una lapide, imbrattata da una svastica. Oggi lo stesso bambino della foto, con la maglietta a righe sorride ai passanti dalla facciata di un palazzo alto venti metri. È un murales realizzato nel quartiere romano della Garbatella. Il bambino nella foto è Alfredo Rampi ma questo documentario non vuole raccontare la cronaca della sua storia, ma piuttosto chi l’ha raccontata. Vuole raccontare i media, che hanno fatto loro la storia di Alfredo Rampi e che l’hanno elaborato, e ne sono stati elaborati, distaccandola dal fatto e dalle persone reali, trasformandola in un punto cardine della coscienza collettiva. Attraverso il materiale di repertorio della più lunga diretta della storia della tv italiana e attraverso il ricordo di chi all’epoca ne è stato spettatore, o protagonista: giornalisti, ex soccorritori, psicologi, semplici testimoni, tutti coinvolti dal trauma collettivo che ha scosso la coscienza del paese e di chi anche a distanza di anni ha elaborato lo choc di quei tre giorni di giugno scrivendo libri, canzoni, graphic novel o realizzando quel murale. Dal cantautore Francesco Bianconi dei Baustelle al romanziere Giuseppe Genna, al regista Marco Pontecorvo, allo scrittore e autore tv Massimo Gamba, ai giornalisti RAI che parteciparono alla diretta Rai, Piero Badaloni, Pierluigi Camilli, Andrea Melodia, come a quelli della carta stampata, Fabrizio Paladini e Massimo Lugli. Ad accompagnare il racconto, la voce di Fabrizio Gifuni.
Il commento del regista Andrea Porporati
Quello che un film documentario si propone è per definizione il racconto del reale. Ma in questo caso si vuole raccontare un tipo particolare di “realtà”, quella che i media hanno costruito attorno alla tragedia svoltasi nel 1981 a Vermicino, un sobborgo di Roma, trasformando la cronaca di un bambino caduto in un pozzo artesiano in una favola che si voleva a lieto fine e che invece è divenuta una tragedia senza sbocchi. Vuole raccontare la diretta tv a reti unificate che per ore e giorni ha inseguito la realtà di quel fatto così drammatico, personale, umano, facendola sfuggire tra le dita e incastrando un popolo di milioni di spettatori in un circolo vizioso di vita e di morte. Il linguaggio del documentario mescolerà le lingue delle infinite incarnazioni che i Media hanno prodotto a partire dalla storia di Vermicino, televisive innanzitutto, ma anche letterarie, musicali, poetiche: da romanzi a canzoni e serie tv, da graphic novel a murales dipinti sui palazzi di Roma. La scommessa è capovolgere il punto di vista, puntare l’obiettivo non sulla storia di “Alfredino”, ma sui Media che hanno preteso di raccontarla, usando le telecamere o l’inchiostro delle rotative come la bacchetta magica di un apprendista stregone e venendone travolti, assieme a milioni di spettatori. Umberto Eco in un suo saggio ha definito il racconto della tragedia di Vermicino come la fine della possibilità di raccontare la realtà. E ha sottolineato come questo allontanamento dalla verità, avvenisse proprio nel momento in cui, usando per la prima volta la diretta senza limiti di tempo e senza il condizionamento di una regia, di un montaggio, la televisione immaginava di “diventare” realtà, di incarnarla. E invece la strumentalizzava e ne veniva a sua volta strumentalizzata. Perché la realtà non ha linguaggio, non ha regole, semmai ha un destino. E non può che travolgere o fare impazzire chi cerca di intrappolarla, domarla, costringerla nello spazio di uno schermo.