La nera per capire chi siamo e chi siamo stati
GIANCARLO DE CATALDO
Il lunedì, in seconda serata su Rai 1, uno dei più amati giallisti italiani ci porta alla scoperta di “Cronache criminali”: «La mia idea non è tanto raccontare un caso, o una collezione di casi, ma il contesto in cui questi si inseriscono»
Scrittore, sceneggiatore, drammaturgo e ora anche narratore televisivo, come sta vivendo l’esperienza di “Cronache criminali”?
Una magnifica avventura. In realtà nel 2013 avevo già fatto un programma televisivo, un talent sulla scrittura, “Masterpiece”, ma questa è una cosa diversa. Sono solo nella conduzione, ma accompagnato da uno squadrone nella preparazione, perché la televisione è un’opera collettiva. “Cronache criminali” è un’esperienza nuova e molto coinvolgente, cerco di mantenere il sangue freddo.
Come ha scelto le storie raccontate dal programma?
La mia idea non è tanto raccontare un caso, o una collezione di casi, ma il contesto in cui questi si inseriscono. Per due motivi: il primo è perché i casi che ci affascinano e ci turbano non lo fanno casualmente, ma perché ci sono domande molto precise che entrano in risonanza con le nostre paure, i nostri dubbi, i nostri terrori, i nostri sentimenti più profondi. La seconda è che ogni delitto può essere una chiave d’interpretazione di un’epoca. È questo che ci interessa raccontare. C’è sicuramente il racconto dell’accaduto, ma questo non è il programma che deve buttare tutto all’aria per dire “adesso dico io la verità”. “Cronache criminali” vuole dire perché è avvenuto un determinato fatto, come è stato vissuto dall’epoca in cui accadeva, e come lo possiamo interpretare adesso, ad anni di distanza.
Una fotografia della società del tempo…
Della società del tempo, ma anche delle nostre reazioni, di come siamo cambiati. Alcuni delitti sono paradigmatici. Il delitto del Circeo, ad esempio, cambia il modo di raccontare lo stupro e la violenza sulle donne.
Quanto c’è della sua esperienza in magistratura nel De Cataldo scrittore e narratore?
Nel De Cataldo scrittore e narratore c’è questo grande campionario umano che si osserva nei processi nei Tribunali. Lì si vedono gli esseri umani sotto stress, uomini e donne, si colgono reazioni immediate. Non sono tanto le storie a colpirti quanto i loro protagonisti, le vittime e i colpevoli, gli avvocati. Un’enorme palestra umana a cielo aperto che è il processo. In questo programma la sapienza tecnica, la conoscenza dei meccanismi, mi permettono anche di indirizzare la narrazione, questo è almeno il tentativo, in modo non tendenzioso. A volte nelle trasmissioni che si occupano di cronaca le parti prendono la parola per portare acqua al proprio mulino. A me, naturalmente, questo non interessa: sto raccontando delle storie inserite in un tempo ben preciso.
Come nasce il suo interesse per l’inchiesta, per i fatti di criminalità?
Sono sempre stato molto affascinato dalla storia con la esse maiuscola. E uno dei modi per conoscerla, attraverso i tempi, è la cronaca nera. Anche la nera antica, anche i delitti antichi. Del resto, credo che non esista nessun racconto, a partire dalla Bibbia, in cui non ci sia un rapporto con il male di chi narra e di chi vive. La nostra cultura occidentale nasce con la cacciata dal Paradiso terrestre e prosegue con il fratricidio di Caino e Abele. Caino viene cacciato e che cosa fa? Fonda una città. Siamo un po’, diceva un sociologo francese, la stirpe di Caino. Credo che guardare al male, al delitto, sia un modo per guardare anche dentro se stessi e cercare di analizzare le proprie pulsioni e le proprie paure. A me piacciono anche le storie d’amore, i fumetti, i racconti per bambini, ma se passa una settimana senza che abbia letto un giallo o un crime mi sento un po’ privato di qualcosa.
Cosa deve avere una storia, un caso di cronaca, per attrarre la sua attenzione?
Deve rispondere ai due requisiti essenziali che sono anche quelli della trasmissione. Deve essere una storia che pone delle domande, degli interrogativi profondi, anche quelli a cui arrivare con un attimo di attenzione in più. Le stragi della Uno bianca ci colpiscono perché ci dicono che chi è pagato per difendere l’ordine pubblico e la nostra sicurezza, cioè i poliziotti, a volte può sbagliare. Che non significa dire che la polizia sbaglia, ma che in quel caso alcuni poliziotti erano mele marce. Questo ci fa riflettere molto perché ci spiazza. Una madre che uccide un figlio, o un figlio che uccide i genitori, sono fatti che ci colpiscono perché vanno contro l’ordine naturale delle cose. E questo entra in risonanza con i nostri terrori, le nostre angosce. L’altra condizione è che ci sia un legame con il tempo. L’omicidio di Pierpaolo Pasolini, altro caso di cui ci occuperemo, racconta un passaggio epocale. Finiscono gli anni Settanta delle grandi riforme sociali e iniziano quelli che ci porteranno agli anni di piombo. Alcuni delitti non avvengono a caso.
Il suo ultimo romanzo, “Dolce vita, dolce morte”, ci riporta al caso di Christa Wanninger, siamo negli anni Sessanta…
È anche il caso più antico che raccontiamo nel programma, è avvenuto a Roma nel 1963. Io, ragazzo di provincia, arrivavo nella Capitale in quell’anno e guardavo con occhi incantati questa città, uno sguardo che in parte non mi ha mai abbandonato. La dolce vita l’ho conosciuta dai film di Federico Fellini, ero troppo piccolo per farlo direttamente. Sono legato agli anni Settanta perché sono quelli della mia formazione, avevo vent’anni, ma già verso gli Ottanta avevo una diffidenza maggiore. I Sessanta li vedo come un periodo in cui è cambiato il costume, si è conosciuta la liberazione sessuale, l’arte ha prodotto le ultime grandi avanguardie del Novecento, Roma era la città in cui c’erano i divi del cinema e le avanguardie, Franco Angeli, Carmelo Bene, Schifano. Era una città in cui stava accadendo qualcosa e si percepiva nell’aria. Era un tempo in cui anche la cultura aveva un valore enorme e questo mi manca.
Lei è un uomo di cultura, di legge, se dovesse descriversi in un tweet quali parole userebbe?
È proprio per evitare questo tipo di descrizione che sono fuori da tutti i social.
Cosa la diverte nella vita di tutti i giorni?
Mi diverte, ma anche mi sconsola, il ripetersi di certe situazioni. Il fatto che noi esseri umani cadiamo inevitabilmente nelle stesse trappole, volta per volta, di continuo. Lei ha usato giustamente la parola “diverte”, quando uno ha la capacità di cogliere il lato umoristico delle cose, vive meglio. Ogni volta che mi imbatto in un film di Totò continuo ad ammazzarmi di risate, non riesco a farne a meno (sorride).
… impossibile vivere senza ironia…
Assolutamente sconsigliabile, fa male alla salute.