La farfalla impazzita
L’urgenza di non dimenticare
«Era come cristallizzata, congelata in quel dolore profondo, in quel passato dal quale non riusciva a liberarsi» racconta Elena Sofia Ricci, protagonista de “La farfalla impazzita”, la vera storia di Giulia Spizzichino, ebrea romana, segnata dalle deportazioni e dalla strage delle Fosse Ardeatine, in cui vennero uccisi ben ventisei dei suoi familiari. Per tutta la sua vita, Giulia ha sbattuto incessantemente le sue ali, senza riuscire a trovare pace e un luogo dove posarsi. Liberamente tratto dall’omonimo libro di Giulia Spizzichino e Roberto Riccardi (Casa Editrice Giuntina), il Film Tv di Kiko Rosati sarà trasmesso in prima serata Rai 1 il 29 gennaio. La sua distribuzione internazionale è affidata a Rai Com
La “farfalla impazzita”: così i familiari e gli amici più intimi chiamavano Giulia Spizzichino, ebrea romana, segnata dalle deportazioni e dalla strage delle Fosse Ardeatine, in cui vennero uccisi ben ventisei dei suoi familiari. In tutta la sua vita, che si è conclusa il 13 dicembre del 2016 a 90 anni, Giulia è stata proprio come quella farfalla che sbatte incessantemente le ali, senza riuscire a trovare pace e un luogo dove posarsi. All’epoca della retata al Ghetto di Roma, il 16 ottobre 1943, Giulia che aveva solo diciassette anni, fu testimone degli arresti del nonno, degli zii e dei cugini. A quel tragico giorno, ne seguirono altri terribili, segnati delle persecuzioni e delle fughe con la sua famiglia, fino alla prima metà del ’44. Quando finalmente la guerra finì, fu impossibile per lei dimenticare e vivere una giovinezza spensierata fatta di balli, amiche, primi amori. Fu impossibile anche, più avanti negli anni, amare davvero un uomo fino in fondo, costruire con lui una famiglia. Mezzo secolo più tardi, i fantasmi di un passato mai dimenticato, torneranno a chiederle giustizia. È il 1994: Giulia Spizzichino, vede scorrere la foto della mamma, morta da poco, in un filmato in onda nel corso del programma Rai “Combat Film”. La madre, in quelle immagini di repertorio, stava riconoscendo le salme dei suoi parenti uccisi nell’eccidio delle Fosse Ardeatine del marzo ’44 attraverso i pezzetti di stoffa dei loro vestiti, tanto erano aggrovigliati e irriconoscibili i corpi di tutte le vittime. Giulia pochi giorni dopo si convince con difficoltà a presentarsi nello stesso studio televisivo, riaprendo una voragine del suo passato e ricordare tutto. Piange e dice che non può esserci perdono, ma che deve esserci giustizia. La contatta allora l’avvocato Restelli, rappresentante della Comunità ebraica romana: le autorità italiane stanno chiedendo l’estradizione dall’Argentina di Erich Priebke, il criminale nazista che aveva eseguito l’ordine di fucilazione alle Fosse Ardeatine. Restelli, nonostante l’iniziale reticenza di Giulia, la convince a partire con lui per Bariloche, la cittadina andina dove Priebke si è ricostruito una vita, nell’intento di mobilitare l’opinione pubblica in favore dell’estradizione. A Bariloche Giulia trova inaspettatamente, una donna con cui percepisce molte affinità e che le dà la forza che non pensava di avere: è Elena, una delle Madri di Plaza de Mayo, l’associazione che riunisce le madri dei desaparecidos. Grazie all’amicizia speciale che si instaura tra loro, Giulia trova il coraggio di reagire e si fa portavoce dell’istanza di giustizia, in un discorso pubblico a Buenos Aires che smuove gli animi: “Perché le vittime sono tutte uguali, come lo sono i carnefici”. È il maggio 1994: la missione riesce, ma è solo la prima tappa di un’altra lunga storia, quella del processo a Priebke che si svolgerà poi a Roma. Nonostante il dolore sopito per tanti anni, Giulia troverà qui la forza di testimoniare, riaprendo una ferita dolorosissima. E lo farà per una necessità: alimentare la Memoria, perché non si ripeta mai più l’orrore della Shoah, che le aveva portato via in un colpo solo, tre generazioni di uomini e donne della sua famiglia.
ELENA SOFIA RICCI
GIULIA SPIZZICHINO
Ebrea romana, era solo una ragazzina quando nel 1944 perse ventisei dei suoi parenti, rastrellati dai nazisti e portati a morire ad Auschwitz e alle Fosse Ardeatine. Cinquant’anni dopo, quando l’esecutore materiale di quella strage, Erich Priebke, viene ritrovato in Argentina e potrebbe essere processato, Giulia è una donna aspra e dura, resa pietra e ghiaccio dalla tragedia che non riesce a dimenticare. Vive con i morti – le rimprovera il figlio – e non si accorge dei vivi, di quei vivi che, come lui, le vogliono bene. Quel distacco traumatico e crudele dalle tante persone della sua famiglia – il nonno, gli zii e le zie, ma soprattutto il suo cuginetto Marco di soli cinque anni – l’hanno resa una donna fredda e distaccata, incapace di lasciarsi andare a un sentimento d’amore, anche con il figlio, il marito e la nipotina. La decisione di partecipare al risveglio dell’opinione pubblica per chiedere l’estradizione di Priebke dall’Argentina e quella poi di testimoniare al processo proprio di fronte a lui, riaprono in lei quelle ferite che, con l’armatura che si era costruita negli anni, teneva nascoste, ma che sono ancora aperte e dolorose. Ma solo così Giulia per non potendo dimenticare, riuscirà almeno a sentirsi più libera.
Come ha vissuto questa esperienza?
Questi sono film importanti, e quando mi è stato proposto ho tremato. Non è la prima volta che interpreto una donna realmente vissuta, e non è mai facile, ma nel caso di Giulia Spizzichino la responsabilità che ho avvertito era immensa. Ho studiato molto: ho letto il libro, recuperato tantissime sue interviste per comprendere non solo il suo modo di parlare, le pause, ma soprattutto l’enormità del suo dolore. Quello che più mi ha colpito di Giulia è stato il suo sguardo: non guardava mai in basso, raramente fissava l’interlocutore. Era come cristallizzata, congelata in quel dolore profondo, in quel passato dal quale non riusciva a liberarsi.
Cosa direbbe oggi Giulia Spizzichino a questa nostra umanità?
Credo che sarebbe molto arrabbiata. Stiamo assistendo al ritorno di dinamiche che somigliano spaventosamente a quelle di ottant’anni fa. Giulia cercava giustizia, non voleva che Priebke fosse condannato a pene esemplari o morisse in carcere, ma desiderava che fosse ritenuto colpevole, e questo è ciò che dovremmo volere tutti: giustizia. La strage delle Fosse Ardeatine ci ricorda che non furono uccisi solo ebrei, ma anche partigiani e persone comuni. L’esperienza di Giulia ci insegna è che il rispetto per l’altro – sia esso un popolo, una religione, o qualunque altra realtà – deve essere il fondamento della convivenza. Non si può sopraffare, invadere o calpestare nessuno. Se oggi ci dimentichiamo tutto questo, allora a cosa sono serviti tutti quei morti? È un orrore.
Qual è secondo lei il messaggio più potente di questa storia?
Nel film mi sono concessa una piccola licenza, ispirandomi a un pensiero del maestro Camilleri, che ho usato durante la scena della conferenza in Argentina. Questo potrebbe essere il sottotitolo del film: “Tutti i carnefici sono carnefici, tutte le vittime sono vittime, in ogni tempo e in ogni luogo.” Questa frase dovrebbe risuonare forte e chiara dentro ciascuno di noi, ogni giorno. Come ricorda anche Giulia nel film, gli uomini capaci di tali orrori non sono come le bestie: sono peggiori. Le bestie uccidono per paura, per fame. Gli uomini, invece, uccidono per gelosia, rivalità, potere, denaro. Ed è proprio questo che li rende colpevoli. E noi oggi siamo colpevoli: continuiamo a ripetere gli errori del passato.
Come ha vissuto Giulia da “farfalla impazzita”?
Raccontare quel congelamento emotivo che Giulia si era imposta per sopravvivere al dolore è stato estremamente difficile. La perdita di ventisei familiari, tra Auschwitz e le Fosse Ardeatine, l’aveva segnata profondamente. Era come bloccata, incapace di vivere pienamente il presente, di amare il marito, il figlio e le persone a lei vicine come avrebbe voluto. Anche godersi la vita, quella che le era stata risparmiata, le risultava impossibile. Giulia era una sopravvissuta, ma viveva con il senso di colpa per essere rimasta viva, e questo senso di colpa le ha impedito di vivere appieno.
Dopo il Giorno della Memoria…
Non basta un solo Giorno della Memoria, dovremmo arrivare a 335 Giorni della Memoria, così come dovremmo avere 365 giorni dedicati alla lotta contro la violenza sulle donne e tutte le discriminazioni. Non dobbiamo mai dimenticare il nostro passato, il nostro orribile passato. Non dobbiamo mai dimenticare che le donne devono essere rispettate e che, insieme, possono fare moltissimo. Nel film “La farfalla impazzita”, Giulia ci fa un grande regalo raccontando la sua esperienza in Argentina, dove si è unita alle madri dei desaparecidos. Le tragedie e le perdite si intrecciano: le storie di persecuzioni diverse viaggiano sullo stesso binario. Questo è un film importante, capace di parlare a tutti noi, soprattutto alle nostre coscienze.
MASSIMO WERTMÜLLER
UMBERTO
Marito e compagno di vita di Giulia. Ha un carattere molto diverso da lei, più bonario, aperto e solare. Pur non essendo ebreo ha vissuto la stessa tragedia di Giulia, ha sempre saputo starle vicino, rispettando il suo dolore e anche sopportando la sua corazza emotiva. Nel corso della storia, diventa una spalla importante per lei: la spinge ad affrontare questa nuova dolorosa avventura del processo e fa da contraltare all’atteggiamento del figlio, con il quale finisce anche per scontrarsi.
Una storia che viene dal passato, che svela però tutta la sua contemporaneità…
La pagina della Shoah rappresenta, a mio avviso, una delle più commoventi della storia umana, proprio perché è anche una delle più orribili. Certo, ci sono state altre tragedie immense, come quella di Francisco Pizarro, quella della schiavitù e, purtroppo, molte altre che testimoniano come l’essere umano sia, spesso, l’animale più pericoloso sulla Terra. E oggi questi orrori non solo ritornano, ma qualcuno arriva persino a provarne nostalgia. Stiamo vivendo un momento storico mondiale in cui la parola “memoria” sembra scritta sulle nostre coscienze con la lettera minuscola: la nostra memoria collettiva appare breve, insufficiente, fragile. Per questo, credo che sia necessario introdurre obbligatoriamente nelle scuole una nuova materia: la memoria. Tre ore alla settimana dedicate a ricordare, a riflettere, a capire.
Interessante…
Se penso, per esempio, a un personaggio storico come Gengis Khan, possiamo definirlo universalmente un uomo crudele, ma lo facciamo “sulla fiducia”, perché non esistevano cineprese che potessero documentare le sue atrocità. Nel caso della Seconda guerra mondiale e della Shoah, invece, abbiamo una mole di testimonianze dirette: dai filmati di John Ford a quelli dell’Istituto Luce. Non abbiamo alibi per non ricordare l’orrore di cui stiamo parlando. Per questo motivo ritengo che lo studio della memoria debba diventare obbligatorio. Altrimenti continueremo a vedere persone che scherzano con parole come guerra, che le banalizzano, magari giocando a fare gli eroi dietro una tastiera. E invece dobbiamo sapere bene cos’è una guerra. Un film come questo è, senza dubbio, urgente, necessario, importante, utile, prezioso.
Nel film interpreta il marito di Giulia Spizzichino. Quanto è stato complesso stare accanto alla sofferenza di questa donna?
Mi sono concentrato molto su questo aspetto, su come raccontare la figura di un marito che, pur non essendo ebreo, si è caricato del dolore della moglie per amore. Un uomo che ha saputo restare accanto a lei con discrezione, dolcezza e grazia, sostenendola nel silenzio mentre affrontava i fantasmi del passato. Umberto ha aiutato Giulia a combattere le sue battaglie, come quella per denunciare Priebke e affrontare il processo in tribunale. A differenza del figlio, che le chiedeva di fermarsi per non soffrire oltre, abbiamo immaginato un uomo capace di farsi motore della sua ricerca di giustizia. È un personaggio che vive nell’ombra, ma la sua forza e il suo amore sono stati essenziali per darle il coraggio di andare avanti.
Il regista Kiko Rosati racconta
«Approcciare un film come “La Farfalla Impazzita” non è cosa facile: si porta sullo schermo una storia importante, che parla della nostra Storia e si va quindi, oltre l’intrattenimento. Giulia Spizzichino racconta come l’orrore della guerra travolga spesso vittime innocenti, bambini, anziani, e questo racconto lo fa attraverso i suoi occhi, quelli di una ragazza di diciassette anni che vede rastrellare tutta la sua famiglia, tutte le persone a cui vuole bene, che non rivedrà più: un’immagine indelebile che vive nella memoria di Giulia ormai grande, madre e nonna. Questa storia trae poi la sua potenza anche dall’accostamento della storia di Giulia a quella di tante altre vittime, di ogni tempo e ogni luogo, non solo quelle ebree della Seconda Guerra Mondiale. Questo accade attraverso il confronto con il personaggio di Elena, una delle Abuelas di Plaza de Mayo, l’associazione delle donne che in Argentina lotta ancora oggi per scoprire la verità sui loro figli e nipoti desaparesidos, scomparsi, e chiedere giustizia. Giulia Spizzichino ascolta con gli occhi lucidi la storia di questa donna, che in fondo non è diversa dalla sua, e da lei prende la forza di continuare la sua battaglia. Le vittime sono vittime e i carnefici sono carnefici, ovunque e sempre. Questo è ciò che la storia di Giulia Spizzichino ha l’urgenza di portare sullo schermo. Raccontare questo dramma non è cosa facile, è una storia che ha avuto bisogno di tutto l’impegno possibile, impegno che ho visto anche e soprattutto, negli occhi di Elena Sofia Ricci quando entrava in scena e portava davanti la macchina da presa il personaggio di Giulia, con la sua sofferenza. Non nascondo che lavorare con Elena Sofia Ricci è stato per me un grande piacere e mi ha facilitato il compito di raccontare questa storia: Elena Sofia ha preso per mano il personaggio, l’ha fatto suo e l’ha accompagnato per tutto l’arco narrativo del film. Non da meno sono stati tutti gli altri attori che abbiamo scelto: tutti hanno dato il massimo, consapevoli che la storia che stavamo raccontando andava trattata con il massimo rispetto e la più grande dedizione. Un altro aspetto del lavoro fatto su questo film che mi piace sottolineare, è la cura e l’attenzione con cui sono stati ricostruiti gli anni Quaranta e gli anni Novanta. Grazie al lavoro della costumista Sara Fanelli e dello scenografo Massimiliano Sturiale, lo spettatore viene trasportato in un’ambientazione autentica e realistica, che contribuisce a immergerlo nella narrazione e ad agganciarlo emotivamente. In conclusione, “La Farfalla Impazzita” rappresenta un importante contributo alla memoria storica e alla riflessione sulla violenza e sul dolore causati dalla guerra. Grazie al contributo di tutti i miei collaboratori e alla bravura degli attori che ho diretto, il film riesce a trasmettere con forza l’urgenza di non dimenticare le atrocità del passato e di lottare anche oggi per la giustizia e la verità.»
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