Io, che vivo in un bel mondo
ROMANO REGGIANI
Ne “Il nostro Generale” in onda su Rai 1 veste i panni di Funzionario, uno dei componenti della squadra di carabinieri che combatté il terrorismo sotto la guida di Carlo Alberto dalla Chiesa. Dal teatro scoperto in oratorio alle serie televisive, al cinema d’autore con Pupi Avati. «Non sono uno che frequenta i salotti, l’ambiente dello spettacolo. Lavoro, e poi voglio avere la mia vita, un po’ provinciale, proletaria, insieme agli amici di sempre»: l’attore bolognese (e musicista per passione) si racconta al RadiocorriereTvI
Il cinema e le serie Tv con ruoli sempre più importanti, l’affetto del pubblico e l’attenzione della critica crescenti, cosa sta succedendo in questo momento della sua carriera?
Non noto niente di diverso da quello che c’era prima (sorride), sono giunti semplicemente a compimento alcuni progetti faticosi che ho realizzato in questo ultimo periodo, ed è una cosa gratificante. Sono lavori in cui ho un ruolo centrale: in “Lamborghini” (Lamborghini – The man behind the legend) sono protagonista, ne “Il nostro Generale” faccio parte della squadra di Carlo Alberto dalla Chiesa. Sono molto contento di questa serie, che è il primo prodotto di Rai 1 costruito in un modo corale. Una dimensione di scrittura che parla del gruppo, della comunità, che non si focalizza solamente sul singolo. Ed è la prima volta che mi ritrovo a fare un ruolo tecnicamente molto operativo. Devo dire che anche questo è stato molto divertente.
Riavvolgiamo il nastro, da dove parte la sua corsa verso lo schermo e il palcoscenico…
Sono sempre stato appassionato di recitazione, per quanto riguarda il cinema anche a livello registico. Il mio approccio a questo mestiere è avvenuto all’oratorio, a Bologna, dove ancora ragazzino ho cominciato a frequentare i corsi di teatro. Ed è proprio lì che ho conosciuto Paolo Bertuzzi, responsabile dei corsi e grande appassionato di questo mondo. Come un nonno mi ha dato la spinta, mi ha trasmesso l’entusiasmo che veniva dal suo cuore, mi ha fatto pensare che potevo davvero fare questo lavoro, di essere portato.
E in famiglia come sono andate le cose?
La mia famiglia, così come Paolo, mi hanno spinto a perseverare. Invece di regalarmi il motorino, i miei genitori mi hanno comprato una videocamera con cui ho iniziato a realizzare dei cortometraggi con gli amici. A un certo punto ho deciso di sottopormi alla prova, un po’ complicata, del Centro Sperimentale di Cinematografia, dove è nato tutto. Non è un fatto di presunzione, ma penso che ognuno di noi debba capire quale sia il proprio talento, che sia essere un bravo meccanico o un bravo chef. Ognuno deve capire che cosa sa fare. Io, crescendo, ho capito che questa cosa la so fare.
Il primo ruolo che ricorda con particolare affetto?
Nel 2015. Un ruolo secondario, ma molto bello, nel film di Marco Pontecorvo “Tempo instabile con probabili schiarite”. Un’esperienza che mi ha fatto capire di avere qualcosa sulla quale potevo lavorare.
Dopo il Centro Sperimentale ha lasciato Roma, capitale italiana del cinema, per tornare nella sua Bologna. Che cosa è accaduto?
Una cosa semplice e che comunque, ancora, indirettamente pago e pagherò: ho fatto una scelta di vita. Non sono la persona che ama frequentare i salotti, non sono quell’attore che va alla ricerca di situazioni in cui parlare con questo o con quello, in poche parole non sono quella persona che vive il proprio ambiente (sorride). Io lavoro, e poi voglio avere la mia vita, che non ha niente a che vedere con il mio lavoro. Nulla. Bologna è una città che artisticamente mi ha sempre dato molto di più di Roma, dove mi sentivo un po’ incastrato. Stavo facendo un percorso e scelte di vita molto superficiali e così sono tornato a casa. Con i pochi risparmi che avevo ho aperto un music club, che ho avuto per due anni e che è andato anche molto bene. A Bologna c’è la mia fidanzata, ci sono i miei amici veri, quelli d’infanzia. Sono sempre stato legato alle relazioni, siamo lo stesso gruppo di quando avevamo dieci anni. La mia vita è più provinciale, proletaria, insieme ad amici che fanno lavori totalmente differenti dal mio.
Come vedono questo Romano che lavora al cinema e in Tv ma che è rimasto uno di loro?
Mi prendono sempre molto in giro, certo, rispettandomi. Uno di loro, che fa l’operaio, mi dice simpaticamente: “Tu vivi in un bel mondo”. Hanno imparato a comprendere che si tratta effettivamente di un lavoro (sorride). Loro non si capacitano ma io vivo di questo. Credo che sia anche il mio ambiente a farmi rimanere nella vita vera. Vivo del mio lavoro proprio come lo fa il mio amico operaio, con la differenza che lui ha un posto fisso, io, invece, ogni volta sono qui ad arrabattarmi, a capire chi mi prenderà, cosa succederà.
Cosa le ha lasciato l’esperienza de “Il nostro Generale”?
Grazie alla fiducia ricevuta dalla Stand By Me (società di produzione della serie con Rai Fiction) ho potuto condividere quest’avventura con un cast d’eccellenza, recitando con colleghi che ho sempre stimato. Anche Sergio (Castellitto) si è trovato bene con noi, c’è stato un clima inaspettato e oggi c’è un po’ di malinconia, è stato un lavoro molto sincero.
Come si è preparato al set?
È stato emozionante avere a fianco le persone che hanno lavorato con il Generale dalla Chiesa, le stesse che non hanno avuto una vita per quindici anni, che hanno vissuto sotto copertura con nomi inventati. In un certo senso abbiamo reso onore a un periodo. La domanda “chi sono le persone che lavoravano al fianco del Generale?” ha ora una risposta. Poter parlare con i carabinieri Domenico Di Petrillo e Luciano Seno, con il loro capitano Gian Paolo Sechi, è stato incredibile. Ci hanno fatto capire come approcciarci al Generale: era un mondo sotto copertura, non un ambiente di caserma nudo e crudo, ma di famiglia, in cui questa gente non stava in uniforme. La frase che più mi ha colpito del loro racconto è stata: “Eravamo persone normali ma eravamo militari”.
Tra le sue esperienze recenti anche “Dante” di Pupi Avati, nel quale ha vestito i panni di Guido Cavalcanti. Cosa ha scoperto del periodo in cui nascono la nostra lingua e la nostra letteratura, e che rapporto ha con la poesia?
Premetto, per quanto riguarda la poesia, di avere sempre odiato il periodo dantesco, di lotte socio-politiche tra Guelfi e Ghibellini. Ma un giorno, improvvisamente, è arrivata la proposta e mi sono messo a studiare.
Come ha affrontato la preparazione?
Ho scritto sui social che avrei interpretato Cavalcanti e sono stato contattato da una ragazza che mi ha detto di essersi laureata da poco con una tesi su di lui. Le ho chiesto di leggerla, e su quella ho costruito il personaggio.
Un avvicinamento atipico…
Una tesi di una difficoltà disarmante, ma tramite il lavoro di quella ragazza ho capito il legame d’amicizia tra Cavalcanti e Dante. Con Pupi, poi, c’è stato un lavoro di getto, l’unico modo per rendere veri i sentimenti. Credo che la forza di quel film sia la grande profondità emotiva. È molto interessante vedere come Pupi ha costruito i personaggi, che hanno tutti qualcosa di radicato nella cultura contadina, sociale. È un film molto vero anche da un punto di vista storico.
La macchina da presa ma anche la musica, come convivono in lei queste due anime?
In un modo molto semplice. L’attore è il mio lavoro, la musica è solo una passione. Certamente, la musica è vita, suono ogni giorno la chitarra, ho scritto canzoni, ogni tanto organizzo eventi. Ma non ho mai voluto che diventasse un lavoro, per lo meno oggi è così.
Quanta ironia c’è in Romano Reggiani?
A detta di tutti ce n’è, anche troppa. Mi diverto, dico un sacco di cavolate. Sono molto pungente.
Che cos’è la popolarità?
Non lo so perché non ce l’ho. Il concetto di popolarità si riduce al commerciale, io invece ho una popolarità molto intima, legata alle relazioni vere, alle persone che mi seguono perché faccio cose specifiche. Quei diecimila che mi seguono su Instagram, sapendo per di più che non sono social, sono persone che ci sono sempre. E questo mi dà gioia.
C’è un attore al quale si ispira?
Cinematograficamente a Ethan Hawke, lo amo tantissimo perché amo la sua carriera, apprezzo il fatto che sia sempre stato un attore dell’establishment ma fuori dal giro, che sceglie progetti particolari, che si vende ogni tanto ma non sempre. È bello pensare che lavori con la Marvel e che poi vada a Cannes con un film in cui ha un ruolo secondario e in cui dice quattro battute. Un attore che si mette al servizio di quello che vuole fare in un determinato momento. E poi scrive, ha fatto romanzi bellissimi che mi hanno appassionato.
Le capita di pensarsi fra dieci anni?
Se ci devo davvero pensare mi mette un po’ paura. Sono felice della mia vita di oggi, e lo dico con grande sincerità. Fra dieci anni mi basterebbe che tutto fosse ancora così. Non ho pretese.