Il mio racconto (slow)

PINO STRABIOLI

Il teatro, il cinema, i libri e la musica raccontati in Tv nella nuova stagione de “Il caffè”. «Certe volte mi sento anacronistico, un po’ poco al passo con certi linguaggi, anche della televisione. Al tempo stesso vorrei continuare questa resistenza, senza farmi tentare da altro» afferma il conduttore, che confida «con il lockdown ho sentito che il nostro mestiere poteva servire davvero a qualcosa». Il sabato alle 7.05 su Rai 1 e alle 17.25 su Rai 5

Su Rai 1 è tornato “Il caffè”, quali sono le novità di questa nuova stagione?

La prima è che siamo con la Direzione di Rai Cultura e abbiamo una replica anche su Rai 5 il sabato pomeriggio. Siamo in un nuovo studio, con una nuova scenografia, c’è una serie di nuove rubriche e ho la conduzione in solitaria. Non cambia invece il cuore de “Il caffè”, la nostra tradizione, il fatto che raccontiamo libri, teatro, cosa per me bellissima, cinema e musica.

Anche nel corso degli ultimi due anni così difficili sei sempre stato vicino al tuo pubblico, in radio come in televisione…

Ho sentito che il nostro mestiere poteva servire davvero a qualcosa. Siamo entrati nelle case attraverso la radio con Rai Radio 2 e attraverso “Il caffè” in Tv. Ho sentito il grazie degli ascoltatori, perché in qualche maniera siamo riusciti a consolare questo momento terribile, principalmente durante il lockdown. Per quanto riguarda il teatro, poter tornare a farlo dal vivo è stato invece rivivere le stesse emozioni di quando, ragazzo, iniziai a farlo. Da quando sono stati riaperti i teatri senti ancora più forte l’abbraccio della gente, la voglia di vedere le persone dal vivo che ti raccontano delle storie. Spero che questa curiosità culturale non vada disperdendosi.

In questo tempo nuovo com’è cambiato il tuo modo di vivere la cultura?

Nel periodo brutto ho ritagliato momenti in cui ho messo da parte la tecnologia. Sono riuscito a leggere in maniera più attenta, a essere più fedele alle mie passioni, alla lettura come alla scrittura. Nel corso della pandemia ho scritto lo spettacolo “Sempre fiori mai un fioraio” che nasceva da un libro fatto con Paolo Poli.

Le opere, i libri, gli autori, lo schermo tv, gli spettatori, e in mezzo ci siete tu e il tuo racconto. Come vivi il tuo ruolo di Virgilio televisivo?

Certe volte mi sento anacronistico, un po’ poco al passo con certi linguaggi, anche della Tv. Al tempo stesso vorrei continuare questa resistenza, senza farmi tentare da altro. Al di là dei numeri, che contano ma fino a un certo punto, è fondamentale coltivare la memoria, preservarla, facendo scoprire ai giovani un linguaggio e una lingua. Stiamo perdendo delle parole, bisogna lavorare per non lasciarsi fagocitare da nuovi linguaggi e dai tempi, dalla velocità.

Cosa deve avere un racconto per sedurti?

Deve essere autentico e allo stesso tempo anche immaginifico. Devo sentire l’autenticità di chi sta raccontando e non l’esibizione in un gioco di esposizione, di egocentrismo. Rifletto spesso sul ricordo. Noi non ricordiamo esattamente quello che abbiamo vissuto, ma in qualche maniera lo riviviamo. Se anche il ricordo, il racconto, sono conditi da qualche piccola invenzione di tenerezza, di superazione di un dolore, allora questo mi affascina. Mi affascinano gli sguardi, la narrazione, quando non distingui più tra il vero e il letterario.

Cosa devono avere invece una canzone, un brano musicale, per rimanerti dentro?

Fondamentali sono la voce e, banalmente, le parole. Tra questi due elementi ci deve essere un incontro. Quando nello spettacolo teatrale con Patty Pravo (“Minaccia bionda”) Patty canta “Se perdo te” o “Tutt’al più”, entro nelle parole e ritrovo il racconto. Adoro gli interpreti, non mi emozionano i virtuosismi, quelli troppo intonati. Ci deve essere la vita dentro.

Nella tua vita c’è tanto teatro… quanto ci può aiutare il palcoscenico a leggere la nostra contemporaneità?

Il palcoscenico, ce lo insegnano Shakespeare e il grande teatro greco, è universale, è sempre contemporaneo, sia che si parli d’amore, che di morte o di altro. Ha una funzione sociale fondamentale. Il teatro è un luogo in cui incontri te stesso sul palco, incontri il pubblico, il pubblico incontra te. C’è uno scambio spirituale.

Qual è il segreto per fare una buona intervista?

Essere davvero curiosi dell’altro, non partire con preconcetti o giudizi. Aprirsi e rendersi disponibili all’interlocutore, questo vale per un’intervista come per la vita. Bisogna saper ascoltare, stimolare e individuare punti deboli o forti di chi sta dall’altra parte.

C’è un ospite che vorresti avere al “caffè”?

Penso a Sophia Loren, non sono mai riuscito a intervistare Marcello Mastroianni per motivi anagrafici. Al tempo stesso mi piacerebbe che questa trasmissione fosse uno spazio libero dove chi vuol venire a dire delle cose possa farlo.

Cosa c’è in questo momento sul tuo comodino e nella tua playlist?

Sul mio comodino Mario Desiati, vincitore del Premio Strega, mi sta ispirando moltissimo. Sul giradischi Rino Gaetano, Franco Battiato. Di tanto in tanto Morgan mi manda sul cellulare delle canzoni che canta e che scrive, le ascolto molto volentieri.

Cosa ti rende felice?

Proprio oggi un’amica mi ha mandato una foto scattata durante uno spettacolo, dove rido come un pazzo. Mi ha scritto che lì mi vede felice. La domanda è difficilissima, fondamentalmente mi dà gioia sapere che le persone a cui voglio bene stanno bene. Franca Valeri, che è stata una mia amica, diceva di essere felice quando il suo cane Roro faceva una bella cacchetta, per dire che le davano gioia le piccole cose.

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