Il gioco più bello
FIORENZA PIERI
In “Che Dio ci aiuti” è suor Teresa, la nuova madre superiora del Convento degli Angeli Custodi. L’attrice toscana si racconta al RadiocorriereTv: «Vengo da tanti anni di teatro di prosa, ho recitato in grandi drammi e grandi tragedie. Sono morta in scena infinite volte e ora sono felice di giocare con la commedia»
Com’è stato l’incontro con suor Teresa?
Partiamo da quando mi è stata presentata per il provino. Come proposta è stata abbastanza spiazzante, mi chiedevo come potessi entrare nella serie come nuova madre superiora quando Elena Sofia Ricci era la madre superiora, quando Suor Angela era “Che Dio ci aiuti”. Ho pensato che fosse una scommessa azzardata, sia da parte degli autori, che nell’eventualità di prendere il personaggio.
Ma il personaggio le è stato affidato e lei è entrata in scena…
Mi ha affascinato da subito il fatto che “Che Dio ci aiuti” sia un mondo raccontato un po’ sopra le righe, nel quale c’è un po’ la sospensione dell’incredulità. Non è un mondo naturalistico, realistico, ma uno in cui i personaggi sono abbastanza caratterizzati, le cose che succedono sono a volte un po’ paradossali. E questo permette di recitare. La recitazione ti fa andare incontro al personaggio, ti fa costruire una personalità contaminata da quello che tu sei ma che è anche a sé stante. Il mondo della serie è pennellato un gradino sopra, nella direzione della commedia. Ti consente di creare un personaggio, di trovarne i tic, il modo di muoversi, di guardare, di parlare, di relazionarsi con gli altri, questo è stato molto divertente.
A proposito del genere della commedia, come se lo sente addosso?
La cosa divertente di questo lavoro è che si possono sperimentare un po’ tutti i registri. Vengo da tanti anni di teatro di prosa, ho recitato in grandi drammi e grandi tragedie. Sono morta in scena infinite volte, da Shakespeare a Čechov, ero abbastanza avvezza a un linguaggio più alto, poetico, letterario, quasi sempre nella direzione del dramma. Da qualche anno ho avuto modo di giocare con la commedia, che è una cosa divertente e in questo il sostegno della scrittura è indispensabile. L’interpretazione sulla commedia deve essere calibrata sul tempo-ritmo delle battute, in modo che ci sia un effetto di risata. Se la scrittura non ti sostiene, e una cosa non fa ridere, non fa ridere. Credo che gli autori siano molto rodati sul linguaggio di questa serie, ho trovato copioni e sceneggiature che sostengono molto la possibilità di trovare effetti comici. In questo ho osservato moltissimo Francesca Chillemi che alla sua settima stagione, aveva grande famigliarità con questo linguaggio. Ci siamo molto divertite insieme.
Per un’attrice cosa significa vestire i panni di una religiosa?
Si può dire che sia un personaggio come un altro, che si porta dietro una costruzione di atteggiamento esteriore e di emotività interiore, e poi c’è un abito che regala l’immagine del suo personaggio. È chiaro che se devo fare una madre, una sorella, una moglie, i vestiti sono di solito più moderni e allora si può giocare sul colorire lo stile, che con Suor Teresa era già dettato dall’abito. Come professionista era molto comodo avere un unico costume di scena, dal punto di vista interpretativo invece non è facile sacrificare completamente la parte di vanità. Non che io abbia mai puntato troppo su quella, perché la mia preparazione è molto più culturale-intellettuale, sono un po’ una nerd da questo punto di vista. Mi è sempre piaciuto di più lo studio “matto e disperatissimo” sui libri che non l’esibizione di me stessa. Però è anche vero che nel momento in cui ti vengono proposti dei costumi di scena speri sempre che ti stiano bene, la tonaca invece è quella che è. Le scarpe sono dei mocassini bassi che non metterei mai (sorride).
C’è qualcosa che accomuna Fiorenza a Suor Teresa?
All’inizio pensavo non ci fosse nulla in comune, la vedevo come un personaggio costruito in un altro universo con una forte rigidità. Ma le maschere, i personaggi pennellati in modo deciso, spesso sono l’esagerazione di espressioni comuni che vediamo nel mondo. In questo senso la mia suor Teresa ha atteggiamenti di rigidità, si è costruita una fortezza per schermare la sua parte emotiva, il suo passato, e questa penso sia una caratteristica abbastanza comune. Lei è molto chiusa emotivamente, si sbottona solo con il piccolo Elia. Non che io sia una persona particolarmente chiusa o rigida, ma di sicuro mi sono costruita degli alti muri per proteggere le parti più fragili ed esposte del mio animo. Insegno da anni recitazione teatrale e cinematografico e dico sempre ai miei allievi che il giro di boa di questo mestiere arriva nel momento in cui si riesce a mettere a disposizione il proprio vissuto, la propria emotività, con la maggiore emotività possibile ma senza farsi male. Impedendo agli altri di saccheggiare ciò che di autentico si mette in gioco. Credo che questa sia la soglia del professionismo.
La sua popolarità televisiva è giunta negli ultimi anni, ma la sua carriera ha avuto inizio molto prima. Come è cambiato il suo essere attrice?
In questo momento c’è un accesso a una visibilità maggiore, qualche volta mi è capitato di essere riconosciuta per strada o al supermercato ma la mia vita non è cambiata molto. Da una parte sono grata di essere arrivata a una responsabilità professionale importante nel momento in cui sento di avere gli strumenti per farlo. Penso che difficilmente la popolarità possa darmi alla testa. Dall’altra mi sarebbe piaciuto ottenere una visibilità come questa a vent’anni, quando ero molto più sicura del mio aspetto (sorride). Nella vita quotidiana sono talmente impegnata tra lavoro e famiglia che non c’è il tempo da dedicare a questa apparente notorietà.
Come nasce la sua passione per la recitazione?
Ai tempi del liceo facevo un corso di teatro a Firenze ed era il mio gioco preferito. Scoprii che immedesimandosi il più possibile nelle vicende di un personaggio, dimenticandosi completamente di aspetti esteriori, andando incontro a una immedesimazione vera, c’erano momenti di viaggio: vivi per un attimo un’altra vita e questo è divertentissimo. Un po’ come un sogno. Il personaggio ti può far porre delle domande, su ciò che sei, sulle dinamiche della società. Il teatro nasce per far vedere all’uomo se stesso e permettergli di migliorare. “Che Dio ci aiuti” è un intrattenimento ma contiene contenuti di amicizia, supporto, giustizia, verità, una serie di valori.
Dove trova le energie?
Non me lo sono mai chiesta. Ho sempre pensato di essere una persona molto pigra, ma se guardo i fatti non sono mai ferma. Nella mia vita ho preso tanti treni da non poterli contare (sorride). Le mie energie vengono dal piacere di fare questa professione: la recitazione diventa brutta e meccanica quando ci si dimentica quanto sia bello giocare a quel gioco.