È la complessità, bellezza

FRANCESCO GIORGINO

Un viaggio nel mondo e nei mondi, un giornalismo che racconta ciò che siamo per restituirci la proiezione di ciò che saremo. Perché, in “XXI SECOLO, quando il presente diventa futuro”, alto e pop si incontrano e convivono in una narrazione non scontata e accessibile. Da lunedì 20 novembre in seconda serata su Rai 1

“XXI SECOLO, quando il presente diventa futuro”, un programma che vuole raccontare la contemporaneità con lo sguardo rivolto al futuro. Un obiettivo che può apparire ambizioso, da dove si parte?

È ambizioso perché bisogna cambiare sicuramente il metodo di analisi delle notizie e dei fatti, però è doveroso, soprattutto per il Servizio Pubblico radiotelevisivo, ed è sfidante farlo sulla prima rete generalista. Siamo incoraggiati dal fatto che è sicuramente l’attualità il punto di partenza di ogni ragionamento, non è semplicemente la delineazione di scenari futuri, possibili o probabili che siano, né è soltanto la forza dell’anticipazione degli eventi. C’è anche una forza che deriva dal radicamento ai fatti, così come si sviluppano nell’ambito dell’attualità quotidiana, italiana e internazionale, in più generi, dalla politica agli esteri, dall’economia alla cronaca, alla società, all’ambiente.

Con una forte sensibilità verso i dati empirici…

È sfidante, sicuramente ambizioso, ma partiremo sempre dalla realtà: da evidenze manifestate. Useremo i dati, le statistiche per spiegare temi, fenomeni, i dati più autorevoli, accertati, in modo da non sbagliare nella segnalazione dei trend. Mi avvarrò sempre della collaborazione di esperti per inquadrare il tema. Ci sarà spazio per la parte dell’analisi, per quella dell’opinione e dell’interlocuzione con i decision-maker, coloro che hanno la responsabilità della gestione dei temi, prevalentemente rappresentanti del mondo politico-istituzionale.

Il mondo e la nostra vita stanno cambiando con una velocità eccezionale, cosa deve fare l’informazione per rimanere al passo?

Deve munirsi di chiavi interpretative nuove, che sappiano osare ed essere interdisciplinari dal punto di vista metodologico. L’era post-moderna, come dicono gli studiosi di scienze sociali, è quella della iper comunicazione, ma è anche l’era della iper complessità. La complessità dei fenomeni, dei temi, non la affronti con chiavi interpretative vecchie, del passato, ragionando per settori che non riescono a essere interconnessi tra loro. Devi collegare i puntini.

La complessità non deve fare paura…

Io aggiungo, è dovere del Servizio Pubblico raccontarla. La sfida di questo programma, oltre che anticipare possibili sviluppi dei fatti, è quella di spiegare in modo molto semplice questioni che sono oggettivamente complesse, che non possono essere ridotte alla logica tipica della comunicazione post-moderna che è quella della polarizzazione, del bianco e nero. Tra il bianco e il nero c’è il grigio, c’è la complessità e noi dobbiamo provare a raccontarla. Utilizzeremo tre linguaggi: i dati, il talk in modalità one to one, e i reportage sul campo.

Negli ultimi anni abbiamo capito ancora di più come ciò che accade fuori dai nostri confini ci riguardi da vicino, pensiamo al covid, ai conflitti alle porte dell’Europa. Di ciò che accade sul Pianeta conosciamo solo una minima parte, c’è il rischio di altre brutte sorprese?

Dobbiamo andare oltre. Fermarci in superficie ci fa comprendere soltanto una parte minima della complessità a cui facevo riferimento. Abbiamo due guerre che non sono slegate tra loro, che vanno lette in una logica di correlazione reciproca. Abbiamo una geopolitica che impatta sulla geoeconomia e abbiamo una geoeconomia che condiziona in modo sensibile, forte, la stabilità o la destabilizzazione del quadro politico internazionale. Il tema del conflitto va letto in chiave politica, economica, sociale, religiosa, culturale. Normalmente il giornalismo d’approfondimento, quello dei telegiornali, del web si incentra sulla prima e sulla seconda domanda: Che cosa sta accadendo? Perché sta accadendo? Qui invece si vuole provare a raccontare gli sviluppi avventurandosi su percorsi, sentieri che sono chiaramente probabilistici o possibilistici, ma sempre partendo da quelli che sono i dati della realtà. Tutto questo con il linguaggio e i tempi della televisione. La contaminazione di linguaggi è il modo migliore per tenere insieme l’esigenza dell’approfondimento e l’essere pop, popolari. A volte diamo per scontato che il pubblico conosca il significato di alcune definizioni, credo che si debba cominciare dall’inizio, soprattutto da termini che entrano a far parte del linguaggio corrente ma di cui non si conosce il significato vero e proprio.

Hai scelto la formula del faccia a faccia, forse non ti piacciono i salotti rumorosi?

Diciamo che ce ne sono troppi (sorride). Non avrebbe avuto senso rifare le stesse cose che fanno gli altri, peraltro dalla mattina alla sera tardi. Provo a far parlare ospiti che hanno la responsabilità del tema: politici di livello elevato, anche dal punto di vista istituzionale, rappresentanti del governo, dell’opposizione, amministratori delegati delle grandi aziende, esponenti della società civile, del mondo della cultura, dell’arte, dello sport. Soprattutto quando questi ultimi hanno delle storie di futuro da raccontare. Vorrei provare, nel mio piccolissimo, a cambiare un po’ la narrazione su questo Paese. Ci sono molte più cose positive di quanto noi non pensiamo e bisogna aiutare il pubblico a capire quello che sta avvenendo. Il punto di ricaduta sarà sempre il racconto dei temi, ma immaginando le conseguenze di questi sulla vita dei cittadini.

Come nasce una buona intervista?

Con tantissimo studio, preparazione. Bisogna sapere quasi tutto della persona che vai a intervistare. Se è un politico di primo piano devi rileggerti tutte le sue dichiarazioni, le sue interviste, e quando cominci a buttar giù le domande devi sempre porti nell’ottica di chi ti ascolta e chiederti: se il pubblico fosse stato al mio posto cosa avrebbe chiesto a quel ministro, a quel personaggio? Facendo questo sei in linea con la competenza specifica del soggetto rispetto al tema e anche con le aspettative della gente.

Il giornalista rimane ancora il cane da guardia della democrazia?

Credo moltissimo nella logica del giornalista come watchdog, però dobbiamo prendere atto di una cosa, e ti do una suggestione, come organizzazione professionale non siamo più gli unici a intermediare tra la realtà rappresentabile e il pubblico. Accanto a noi ci sono tanti soggetti che non sono riconducibili all’organizzazione professionale giornalistica e che comunque producono contenuti che spesso vengono fruiti, a torto o a ragione, come se fossero contenuti informativi. Perché il giornalismo serve ancora, a maggior ragione di fronte alla complessità dei nostri tempi? Perché si fonda su competenze tematiche, relazionali, su competenze tecnico-espressive e deontologiche. Più aumenta la complessità più servono dei soggetti mediatori, preparati, tra realtà e pubblico. L’equilibrio nasce anche dalla competenza tematica. Poi, per quanto ci riguarda, lo dico anche come direttore dell’Ufficio studi della Rai, la bussola è il pluralismo, parola che va declinata non solo in senso politico, ma anche valoriale, culturale, sociale e soprattutto territoriale. Ed è questa la nostra forza, avere occhi e orecchie un po’ in tutto il mondo, con i nostri colleghi, corrispondenti, è così sul territorio nazionale con la Testata giornalistica regionale, ci diversifichiamo per mezzi, per linguaggi, per tipologie di pubblico. Questa è già la garanzia del pluralismo, avendo sempre nel Contratto di servizio la bussola del nostro agire quotidiano.

Da giornalista e da docente ti confronti quotidianamente con le nuove generazioni. Come si devono approcciare alla lettura della contemporaneità?

Li sto abituando lentamente a capire che è vero che in questo nostro tempo così incontinente, è molto facile accedere ai contenuti, alla conoscenza attraverso fonti informali, come le piattaforme, ma questo deve solo innescare in loro la curiosità, che non è sufficiente se non è suffragata da un grande bisogno di studio e di analisi, mettendo a confronto le fonti più diverse. Altra cosa che provo sempre a trasferire è il contrasto al cosiddetto information disorder, alle fake news se vogliamo semplificare. Alleno i miei studenti allo sguardo comparativo tra i vari contenuti, a individuare le fonti più qualificate, a non fermarsi in superficie, a sottoporre sempre a un processo di verifica ciò che ti viene detto.

Cosa ti insegnano i giovani, i tuoi studenti?

A considerare l’attenzione come la vera risorsa di questo nostro tempo. Loro ti dicono: non ti ascolto a prescindere, ma solo se tu riesci a colpire la mia attenzione. Vale nell’accademia, in televisione, nella vita. Loro sono curiosi e al tempo stesso impietosi. Per cui è un allenamento straordinario a dire le cose giuste ma nel modo giusto. Ho lavorato scientificamente sulla dicotomia interesse vs importanza. Non è vero che si devono dare in televisione solo le cose che interessano tutti, si possono dare anche quelle che interessano gruppi meno consistenti di pubblico, l’importante è farlo in un modo che sia compatibile con la fruizione del contenuto. Non ci sono argomenti tabù per la televisione, la differenza la fa il modo in cui li racconti.

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