Dolcemente spietato
«È grazie a personaggi come lui che nella testa si è inserito il germe della comicità» racconta l’attore ligure al RadiocorriereTv che non nasconde l’emozione del debutto: «Sono molto agitato e allo stesso tempo curioso di vedere l’effetto che farà il film sul pubblico». “Com’è umano lui”, biopic diretto da Luca Manfredi dedicato a Paolo Villaggio, in onda il 30 maggio su Rai 1
A pochi giorni dal debutto su Rai 1, come si sente?
Sono molto agitato e allo stesso tempo curioso di vedere l’effetto che farà il film sul pubblico. C’è molta emozione, devo dire la verità.
Cosa rappresenta per lei Paolo Villaggio?
Un inizio. È uno dei ricordi più antichi della mia infanzia, sono io che lo imito prima di andare a scuola o che lo guardo in televisione e rido. Erano dei momenti di felicità. È grazie a personaggi come lui che nella testa si è inserito il germe della comicità.
Anche lei come molti comici è cresciuto a “pane e Villaggio”?
Non solo lui, nel mio percorso artistico ci sono tanti modelli di riferimento, penso anche ai comici romani, ma Villaggio, essendo ligure come me, ha certamente lasciato un imprinting forte. Il suo stile è, in qualche modo, passato in tutti gli artisti comici, anche nei più giovani che, con il loro modo aggressivo, ignorano che lui è stato il primo a portare tutto questo in scena in un’epoca in cui i presentatori entravano nelle case degli italiani con formalità. Poi arriva Villaggio e stravolge tutte le regole, facendo scuola. Al di là del fatto che rappresenta uno dei miei comici preferiti, ha lasciato un segno indelebile nella comicità italiana.
Entrambi genovesi…
Siamo degli introversi, chiusi, si fa fatica a entrare e uscire persino dalla città, per questo siamo un pochino isolati. Da commerciali, abbiamo una bella dose di cinismo, siamo abituati ad avere a che fare coi conti, con la concretezza. Dal cinismo si passa in un attimo all’autoironia. Prima di farmi prendere per il culo da qualcuno, lo faccio da solo (ride).
Da dove è partito per entrare dentro la vita di questo artista? Ha cercato la contaminazione tra la sua personale esperienza emotiva, artistica e quella di Villaggio, o ha indossato la “sua” maschera?
Ho cercato di mediare tra le due cose, seguendo il suggerimento della figlia Elisabetta e del regista Luca Manfredi, ovvero che Paolo Villaggio nella vita non era Fantozzi, ma l’esatto opposto: una persona sicura di sé, estremamente colta, un vincente… Questo è stato un ottimo punto di partenza, non ho voluto restituire l’imitazione vocale, piuttosto un modo di essere. Siamo partiti da un momento poco conosciuto della sua vita, la gioventù e i primi passi nel mondo dello spettacolo. Pochi sanno che Villaggio era una persona estremamente timida e, per questo, non avendo avuto la possibilità di conoscerlo nel suo privato, ho cercato di contaminare il personaggio con la mia timidezza.
I figli di Villaggio, Elisabetta e Piero, hanno partecipato alla sceneggiatura del film…
Il loro contributo è stato fondamentale, sono gli unici eredi del suo privato, ci hanno aiutato a impreziosire la storia con una aneddotica speciale.
Villaggio e De André, due amici, due fannulloni di successo (e senza tempo). Qual è il segreto dell’immortalità artistica?
Fannulloni che non si dedicavano al lavoro fisso, il sogno del medio borghese. Loro erano liberi, a partire dal loro immaginario. Rispetto all’oggi, possedevano una cosa meravigliosa: il tempo di pensare, di riflettere. Per scrivere quelle canzoni, quelle pagine immense dedicate, per esempio, a Fantozzi, per riflettere sul mondo della comicità e capire come stravolgerlo, non si deve avere fretta. Non erano distratti dalla società e, sebbene fossero chiaramente concentrati su se stessi e sulle loro carriere, avevano voglia di dire qualcosa, di partecipare nella società. Paolo Villaggio è stato un grande intellettuale, aveva un occhio molto critico, pur essendo immerso nella sua contemporaneità, io lo paragono a Pasolini. Ci sono delle interviste meravigliose nelle quali parla di mercato, del libero consumo e di quanto possa influire negativamente sulla felicità dell’uomo. Era una mente calata nella sua contemporaneità, ma con la grande capacità di vivisezionare i fatti.
Il personaggio di Fantozzi ne è la prova…
Ha descritto il mondo impiegatizio con estrema spietatezza, ma con una oggettività necessaria per raccontare una storia e far ridere.
Oggi che fatichiamo a esercitare la riflessione, abbiamo perso anche la capacità di sognare?
Sono contento di questa domanda… mi è capitato di fare un incontro con dei liceali ai quali chiedevo quale fosse il loro sogno. Avevano tra i 15 e i 16 anni e non riuscivano a rispondere, mentre chiedendo quale fosse stato il loro sogno da bambini davano risposte più concrete, più realizzabili: il cuoco, l’avvocato… Non voglio essere banale, retorico, ma forse questi social distraggono, riempiono troppo il nostro tempo e ci impediscono di pensare.
Social rischiosi anche per i giovani attori attratti dal “successo” degli influencer?
Spero di no, sarebbe terrificante, perché quello della recitazione è un lavoro che permette di raccontare delle storie in tempi abbastanza lunghi, rendendo protagonista l’umanità, magari utilizzando uno degli strumenti migliori che abbiamo a disposizione: il teatro. Il teatro è lo specchio di una società, io capisco qualcosa di me se qualcuno mi fa vedere come sono. Per questo è importante la piazza, uscire, incontrare persone. Vengo identificato come essere umano se sono in contatto con gli altri, che possono aggiungere qualcosa nel racconto della vita di ciascuno di noi. Questo, sinceramente, sui social io non lo vedo… Anche quella è narrazione, per carità, ma questi due minuti sono molto più assimilabile a una barzelletta che a uno specchio dell’essere umano.
Cosa la incuriosisce, o spaventa, della nostra contemporaneità?
In generale mi spaventa l’indifferenza. A meno che uno non abbia, come artista, una mente come Paolo Villaggio, capace di assumersi la responsabilità di raccontare la propria epoca, facendo un passo laterale per osservarla meglio. Spero di appartenere, anche in minima parte, a questa tipologia umana, perché vedo troppe persone infastidite dall’altro. Siamo troppo divisi e, quando proviamo a metterci insieme, scoppiano troppi bordelli. Ho paura che ci sia troppo poca collettività.
Quale ruolo deve assumere oggi il cinema, il teatro, o la televisione?
Credo proprio quello di spingerci a stare insieme. Il bello di andare al cinema a vedere un film è, senza raggiungere gli eccessi fantozziani del “La corazzata Kotiomkin… è una cagata pazzesca!”, è parlarne dopo, magari seduti al bar. È questa la magia di una storia, capire qualcosa di più di noi o delle persone che ci stanno intorno. Al di là del genere, noi andiamo a vedere come si comportano le persone fra di loro, del film interessano i rapporti, se sono ben raccontati. Lo scopo del gioco è sempre la verità.
La sua carriera, come quella di Villaggio, è segnata dal teatro, dal cabaret…
Il cabaret era la mia passione da giovane… stare in scena è bello perché si crea una certa sospensione temporale, è come se il tempo si fermasse, soprattutto in teatro. Quando da attore hai la fortuna di creare un arco narrativo del personaggio completo, sei totalmente immerso in quel racconto, ci si mette al servizio di una storia. L’attore che mi piace è quello che riesce a sparire, che dona se stesso, senza mettersi in evidenza. È la storia che cambia gli uomini, non le performance.
La gavetta, il Teatro Stabile, il grande successo con “Blanca”, ma anche il cinema… come vive tutto questo?
Devo dire che i grandi cambiamenti artistici li ho avuti ora, in tarda età, anche se credo che le cose accadano quando si è pronto per affrontarle. Io continuo a seminare, ho voglia di raccontare storie, di andare avanti. Quando sei un attore non sogni la pensione perché speri di non finire mai. Rimanere in scena fino alla fine.
Qual è il dono più importante che Paolo Villaggio ha fatto a tutti noi, alla cultura?
Al di là di Fantozzi, il regalo più bello è averci trattato come esseri umani e non come dei cartonati. Lui è stato il primo a scrollare il pubblico da una sorta di ipnosi, quello che ci vorrebbe anche oggi per svegliarci.
Qual è la forza della comicità?
La verità. Il comico è l’unico a dire che ci sono gli elefanti nella stanza mentre tutti fanno finta che non ci siano. Quindi, evviva i comici che ci dicono la verità, fa piacere ascoltare quelli che ci raccontano le barzellette, perché è intrattenimento, ma solitamente chi passa veramente alla storia è quello che ci ha gridato in faccia “svegliati!” (ride).