DIEGO DALLA PALMA
Il valore dell’originalità
Prendersi cura dell’immagine è il suo lavoro, ma il racconto dell’anima è la sua passione più grande. Truccatore di fama mondiale, scrittore, amato personaggio televisivo, torna su Rai Premium con la quinta stagione di “Uniche”. Protagoniste Veronica Pivetti, Serena Bortone, Vittoria Schisano, Mirta Merlino, Paola Perego, Paola Saluzzi, Imma Battaglia e Tosca. Dal 28 aprile in seconda serata
Diego, come nascono le sue interviste?
Le mie non sono interviste, perché io non sono un conduttore (sorride). La mia disinvoltura è legata a un passato non facile. Ho imparato a essere ferocemente me stesso, e grazie a questo non ho più paura di nessuno e di niente. Ogni puntata di “Uniche” è un confronto fra persone doloranti, con tragitti umani difficili, percorsi sassosi, con storie talvolta laceranti, ma comunque sempre storie provanti. Quando mi metto in quell’angolo di luce, dove non vedo quasi i cameramen, la regista, nessuno, ho davanti a me solo gli occhi di una persona, il suo sguardo. Se parlo del suo dolore mi immedesimo nel mio.
Uno scambio di esperienze e di energie…
È accaduto recentemente con Tosca che mi ha raccontato di avere avuto, a sei anni, una malattia che le ha creato tanti problemi. Io a sei anni ho avuto una meningite che mi ha mandato in coma. Sento il mio di percorso prima che il loro, le lascio parlare e mi porto a casa una lezione di vita. Sono incontri che mi stimolano. Per entrare nella mente, nelle gioie, nel dolore, nelle conquiste, nelle sconfitte di un altro, non puoi essere un conduttore, un intervistatore. Mi pongo quattro o cinque domande basiche e su quelle costruisco la puntata.
Cosa le fa capire che una persona è autentica?
I dieci minuti che precedono l’inizio della puntata. Se sviluppa snobismi fuori luogo significa che l’ospite è venuto solo per il cachet.
Se accade come cambia il suo atteggiamento?
Mi subentra lo stimolo di sfida, pur senza attaccare le persone. Punto sul dialogo, sull’apertura reciproca, comincio a parlare della sua infanzia. Se paradossalmente tiri fuori qualcosa di positivo di quell’infanzia, se ti rendi conto che quel periodo ha lasciato dentro qualcosa di importante, da lì si parte.
C’è qualcosa che non chiederebbe mai a una sua intervistata?
Quanti soldi ha.
Per quale motivo?
Perché ho passato tanto di quel tempo a non averne, e tanto di quel tempo ad averne, che so quanto si soffre quando non si hanno e quanto si è cretini quando si hanno. Le persone che hanno soldi e si beano, si convincono quotidianamente della loro ricchezza, sono fragili, molto spesso deficienti di qualcosa. Vedendo che questi meccanismi li ho vissuti entrambi, sia quello dell’agiatezza che quella dell’indigenza, non parlo di soldi. Non mi interessa.
Cosa ci rende, per davvero, unici?
Essere semplicemente diversi dagli altri, non essere omologati. L’unicità è paradossalmente anche ironizzare su se stessi. Le parla un uomo che l’ego l’ha coltivato all’inverosimile per un conflitto instaurato con mia madre. Viveva in una situazione di pastorizia insieme al babbo, dovevo farla riscattare, dovevo premiare questa donna che era scontenta della sua vita, avevo questa sfida. Era molto singolare rispetto alle sue sorelle, aveva un senso di libertà, quasi di insolenza, che la distingueva da tutti. Da lei ho cominciato a capire cosa fosse l’originalità.
Un percorso non sempre facile…
Non si può stare bene nei panni di un altro, ognuno di noi ha una propria particolarità. Si ha paura di metterla in gioco perché la gente è feroce, ci ghettizza, ci deride. Quando dico a una persona “che donna strana che sei” oppure “che uomo strano che sei”, è un complimento meraviglioso. La stranezza è molto spesso l’anticamera del fascino, del proprio stile.
Quando ha imparato ad ascoltare gli altri?
Mio padre mi diceva che non ascoltavo chi parlava con me, che interrompevo, che parlavo a voce troppo alta. Mi sembravano cavolate, poi, piano piano, ho capito che era vero, che interrompevo la gente, che non ascoltavo, che ero già proiettato sull’altra domanda che avrei dovuto fare, e che non avevo grande interesse per ciò che mi veniva detto. Quello di mio padre era un insegnamento tutt’altro che retorico o stupido. Sto imparando a non fare questo errore.
Come riempie di bellezza la sua vita?
Scrutando, a volte scuotendo la testa, l’enorme quantità di bruttezza umana che c’è in giro. Confrontandomi con questa mi salvo, perché mi dico: “Dei, mai così! Destino, mai così!”. Mi confronto con la bruttezza e mi sento una mongolfiera che prende il volo, che va in mezzo alla natura. Perché è la natura a darmi tutte le risposte immaginabili, da sempre. La bellezza la trovo anche nell’arte, nella musica, nella melodia.
Un equilibrio e una sintesi virtuosi…
Sa qual è la mia forza? Essere innamorato della vita e avere grande rispetto per la morte. È una formula che ti porta verso una vita piena, bella, priva di sorprese eccessivamente amare, è un buon tragitto.
Nel corso della sua carriera ha incontrato grandi personaggi, ce n’è uno che le è rimasto per davvero nel cuore?
In assoluto, la persona che mi ha ammaliato, stregato, affascinato, sconvolto per femminilità, mistero, sapienza espressiva, magia, è Amalia Rodrigues, la regina del fado portoghese. Aveva qualcosa di esoterico che andava oltre i confini della vita e della morte, di indefinibile, che condizionava non le persone, ma l’etere. Questo al femminile, al maschile cito due uomini che mi hanno affascinato in maniera totale, perché avevano la stessa identica dote, parlo di Giorgio Strehler e Demis Roussos. Lavoravo per il teatro alla Scala, stavamo aspettando Strehler. Eravamo in 52 dentro la sala prove, c’era un brusio generale, tutti chiacchieravano, ma a un certo punto ci zittimmo naturalmente. Dopo una quindicina di secondi si aprì la porta e lui entrò. Come facevamo a sapere che sarebbe arrivato in quell’istante? Demis Roussos, aveva gli occhi con dentro il mare, gli abissi, l’Egeo e il Mediterraneo. Lucio Dalla non era bello, ma aveva la potente dote di trasporto, presente nell’etere. Amalia era una donna minuta, ma quando saliva sul palcoscenico sembrava una donna di tre metri.