Amo giocare (e vincere)
PAOLO CONTICINI
Dal lunedì al venerdì alle 19.50 conduce “Una scatola al giorno”, il preserale di Rai 2. «È un giochetto pazzo – dice il conduttore – servono intuizione e fantasia, ma la strategia è solo una, quella del divertimento»
Una grande scatola a sorpresa e un gioco tutto nuovo nel preserale di Rai 2, come sta andando?
Benissimo! È una scatola che ha in sé tante sorprese, al suo interno ci sono un oggetto o una persona conosciuta. La scatola ci fornisce ogni sera cinque indizi e io e il mio ospite dobbiamo indovinarne il contenuto. Ad aiutarci, o forse meglio a complicarci simpaticamente la vita, c’è il comitato tecnico-scientifico formato da Francesca Manzini e Marco Marzocca.
Conduttore e al tempo stesso concorrente, ha capito quale strategia adottare per vincere?
È un giochetto pazzo che mi diverte tanto e spero che diverta anche il pubblico che ci segue da casa. Servono intuizione e fantasia, ma la strategia è solo una, quella del divertimento. Puoi indovinare oppure perdere, ma devi assolutamente divertirti.
Che rapporto ha con il gioco?
Da sempre bellissimo, amo il gioco inteso come sport, a partire dal calcio, così come i giochi da tavolo. Mi piacciono il Risiko, il Monopoli, Indovina Chi, un po’ meno i giochi di carte, anche se non mi sottraggo mai a una partita con gli amici. Al di là del gioco che fai, l’aspetto importante è l’aggregazione, lo stare insieme.
Quando gioca è competitivo?
Da morire. Voglio vincere sempre, anche se gioco a “tappini”, altrimenti che si gioca a fare (sorride)?
Se va male, per così dire… “rosica”?
Dipende, se ho l’avversario che mi prende in giro rosico eccome (sorride). L’ultima volta che ho giocato è stato questa estate sulla spiaggia di San Rossore in Toscana. Io e alcuni amici, coetanei, abbiamo fatto una gara con le biglie di plastica, quelle che all’interno hanno le immagini dei ciclisti.
Chi ha vinto?
Io, ma agli ultimi due tocchi. È stato in testa un amico per tutta la gara, sul finire l’ho superato e ho vinto.
Che figurina c’era all’interno della biglia?
Gianbattista Baronchelli, correva negli anni Settanta e Ottanta. Ricordo che da bambino giocavo con la biglia raffigurante Miro Panizza, sempre in maglia nera. La sfida era quella di portarlo alla vittoria.
C’è un gioco della storia della televisione che ricorda con affetto?
Non era propriamente un gioco ma uno dei programmi più amati della Tv, parlo di “Portobello”. Venivano presentati oggetti curiosi, ma l’impresa vera e propria era quella di fare parlare il pappagallo (sorride).
Alle otto di sera, quando non lavora, cosa è solito fare?
Se non vado in palestra sono a casa. Esco sempre di meno, forse sto invecchiando (sorride). Mi piace stare nella mia dimensione, leggere, stare al computer, disegnare…
Passione per il disegno?
Ho fatto la scuola d’arte, abbandonata al terzo anno e ripresa a 28 anni per prendere la maturità. Il disegno è sempre stato la mia passione.
Cosa disegna?
I cavalli, le loro teste con le criniere. Mi piace moltissimo.
Come alimenta la sua curiosità?
Non ho un modo in particolare ma sono curiosissimo, osservo le persone, le cose. È un modo per acchiappare la vita, fa parte un po’ del mio carattere. Mio nonno mi chiamava “arruffamondo”, colui che mette in confusione il mondo, perché facevo tutto e non portavo a termine niente. Non finivo le cose, ma ero consapevole di saperle fare. Faccio il conduttore, il teatro, la fiction, mi piace ancora far tutto. Non so dire se faccio bene o male, ma sento che la strada mi appaga.
Cosa le piace della Tv che cambia?
Accetto i cambiamenti delle mode, tutto quello che ai giovani piace, altrimenti si rischia di diventare come i nostri nonni, che dicevano “noi, ai nostri tempi”, anche se non è che avessero poi tutti i torti (sorride)…
Vive il passato con nostalgia?
Accolgo tutto quello che viene dal presente, ma guardo con nostalgia il passato. Mi sono sempre piaciute le cose dei grandi. Nel mio spettacolo “La prima volta” c’è un episodio in cui dico che da ragazzo guardavo gli adulti perché i miei coetanei mi annoiavano, andavano a suonare i campanelli, tiravano i sassi sui vetri, io, invece, ascoltavo e guardavo mio nonno e mio padre. Sono sempre stato un pochino vecchio, ma non avevo poi così torto. Se penso alla musica del passato, degli anni Quaranta, Cinquanta come dei Sessanta o Settanta, rimane ancora oggi. E’ eterna. Quella di oggi, invece, è un pochino usa e getta.