45 anni di Festival, una vita per la fotografia
MAURIZIO D’AVANZO
Da 45 anni fotoreporter al Festival di Sanremo, nell’edizione 2024 ha ricevuto un premio fortemente voluto dal direttore Fabrizio Casinelli e da tutto l’Ufficio stampa e dall’organizzazione del Festival per la sua lunga attività. Il racconto di un uomo che ha fatto della fotografia la propria vita e nel quale le star del cinema, della tv e dello spettacolo hanno riposto fiducia. Non ama le finzioni nella vita come nella fotografia e definisce il premio ricevuto “una super sorpresa”. E sullo scatto che gli manca risponde: «Vorrei documentare una giornata normale del Santo Padre, sarebbe un sogno»
A Sanremo 2024 ha ricevuto un riconoscimento in sala stampa per i suoi 45 anni di Festival. Una sorpresa?
Una super sorpresa che mi ha fatto estremo piacere. Quando ho sentito che avrebbero premiato un fotografo, ho pensato a qualcuno da ricordare, una targa alla memoria. Invece, quando è stata spiegata la motivazione dell’attribuzione del premio, legata ai 45 anni di Festival, allora ho capito che si trattava di me. In quel momento non sapevo che fare e se non mi avessero chiamato Amadeus, Fiorello e Fabrizio Casinelli, non sarei mai salito.
Ricorda il suo primo Sanremo?
Fu nel 1979, quando vinse Mino Vergnaghi, un Festival molto diverso da quelli di oggi. I cantanti si esibivano in playback e noi fotografi li avevamo a disposizione ogni giorno. Li andavamo a cercare in albergo, li bloccavamo, gli parlavamo. Riuscivamo a scattare foto anche in piscina. Oggi questo non è possibile perché gli artisti non escono più per paura di ammalarsi, dato che cantano dal vivo. Inoltre, per le foto, vengono avvantaggiati i social e per noi fotografi, che lavoriamo per i settimanali cartacei, l’immediatezza dello scatto resta solo per i vincitori. All’epoca delle mie prime edizioni non c’erano i social e non veniva bruciato tutto e subito.
Il Festival di Sanremo per lei ha ancora un effetto sorpresa?
Sanremo è per me un punto fermo. Sono tra l’altro ligure e mi ci riconosco molto. Si tratta di una tappa che affronto come se tornassi a casa, in maniera più familiare e meno carico di sorprese.
Quale edizione è rimasta per lei indimenticabile?
Ogni edizione mi lascia emozioni nuove. Ognuna ha un suo vissuto, una sua storia e scavalca quella precedente che in un certo senso viene archiviata. Ci sono invece degli episodi che hanno segnato i vari festival e che ricordo perfettamente, come ad esempio le edizioni in cui Claudio Cecchetto ha dato il via alla dinastia dei bodyguard che seguivano i personaggi, o quella in cui la spallina di Patsy Kensit cadde improvvisamente sul palco. Non dimenticherò l’edizione segnata dalla morte di Claudio Villa che colpì moltissimo tutti noi. Sanremo è una macchina organizzativa incredibile e dietro c’è un lavoro imponente, con persone qualificatissime. Anche questo aspetto segna ogni anno il Festival.
Qual è il maggiore fascino del Festival?
Entrare dove sono stati i grandi della musica internazionale. Ed è per questo che il Festival deve restare al Teatro Ariston, che è la storia.
Ha mai azzeccato un vincitore?
Mai. Non ci sono mai riuscito (sorride).
Miss Italia, Taormina Film Festival, Festival di Venezia e tantissimi altri, sono eventi irrinunciabili nella sua carriera. In queste kermesse, cosa è cambiato negli anni?
Il nostro modo di lavorare. Noi fotografi abbiamo una grandissima concorrenza da parte dei social. Purtroppo l’ottanta per cento dei giornali scarica le foto da lì e noi non abbiamo più una vendita sicura. Un danno nei nostri confronti dettato dalla fretta nel fare le cose, perché avviene tutto in tempo reale. Ormai conosco tutto di questi eventi e molte cose nel tempo sono rimaste simili, soprattutto nel meccanismo dell’organizzazione e nelle abitudini.
Perché le star hanno riposto in lei tanta fiducia?
Ritengo di essermi sempre comportato onestamente. Però adesso mi sento ripagato da questo mio modo di essere. Mi conoscono un po’ tutti e sanno che sono sempre stato una persona seria nel mio lavoro. Sono un fotogiornalista ma faccio anche posati concordati.
Non ama i “trucchi” nella vita e neanche nella post produzione fotografica…
Non la amo molto, ma oggi è molto richiesta da uomini e donne. Secondo me dovrebbe essere fatta solo per piccoli ritocchi, per il resto si dovrebbe giocare solo con la luce e con il ritratto. Ai ragazzi che vogliono imparare, dico spesso che è meglio che seguano prima una scuola di grafica e che poi studino da fotografi. Perché ormai è basato tutto sulla grafica. Anche in passato esistevano dei filtri che venivano messi davanti agli obiettivi come ad esempio le calze nere da donna che ammorbidivano i volti. Oggi le post produzioni sono esagerate e stravolgono completamente le persone. Non sono fotografie, sono la costruzione di qualcosa.
Il servizio fotografico più difficile della sua vita qual è stato?
Lo sono un po’ tutti. Dal personaggio più piccolo al più grande ci metto l’anima. Per me sono tutti uguali e la difficoltà dipende da come riusciamo ad amalgamarci. C’è chi ad esempio è più ostico, che si pone in chiusura. Poi ci sono i servizi proprio difficili da organizzare. Ho fotografato il maestro Valentino nel suo atelier a Roma e quelle foto vennero pubblicate dappertutto perché fui tra i pochissimi che riuscirono ad entrare in quel luogo per un posato. Fu molto complicato perché mi trovai di fronte a un mostro sacro, in un mondo diverso da quello dello spettacolo che frequento solitamente. Una cosa che ricordo invece con una grande impressione è stato l’incontro con il Dalai Lama che emanava una sensazione unica, un’emozione strana che non avevo mai provato. Andai ad incontrarlo con un giornalista, nell’occasione in cui ci fu anche la presenza di Richard Gere.
A una proposta di lavoro ha mai detto di no?
Penso di no, perché cerco di portare sempre il lavoro a casa. Mi piace mettermi in gioco per qualsiasi cosa. A volte mi “maledico” perché penso di avere accettato un incarico molto complicato, ma alla fine ce la faccio sempre.
Quando ha capito che la fotografia sarebbe stata la sua vita?
Una passione vera, nata da ragazzino. Iniziai a collaborare con il quotidiano “Il Secolo XIX” per il quale facevo foto giornalistiche. Dopo la scuola ero in redazione, a volte marinavo anche le lezioni pur di documentare fatti di cronaca come incidenti, rapine, ma anche consigli comunali e altri eventi.
Lei ha sempre un grande slancio, cosa la emoziona ancora del suo lavoro?
Tutto. In qualsiasi momento, anche se sembra banale dirlo, sento la carica di sempre, nonostante l’esperienza mi alleggerisca il peso. Per qualsiasi servizi, ho lo stesso slancio che avevo da ragazzino. C’è chi mi chiede quando mi ritirerò…
Noi non gliela facciamo questa domanda…
Tanto la risposta è mai (sorride)
È partito da zero. Si sente di ringraziare qualcuno per il suo straordinario percorso?
Devo sempre ringraziare tre persone. Una è Maurizio Costanzo, perché i primi servizi li facevo con lui che realizzava interviste per il giornale Tele Bolero. Una persona molto molto carina nei miei confronti. Un’altra a cui dire grazie è proprio il direttore di Tele Bolero, Lillo Tombolini, che mi dava fiducia. L’altra persona è il mitico Pippo Baudo. Non mi ha mai ostacolato e mai mi ha detto un no, come non ha mai fatto con nessuno. Ricordo tutti e tre con grande affetto.
C’è ancora un ritratto che le manca e che vorrebbe fare?
Vorrei tanto poter passare una giornata con il Santo Padre e documentare la sua quotidianità. Una cosa impensabile e irrealizzabile, lo so. Penso ad esempio al suo risveglio, alla colazione, alla Santa Messa della mattina, insomma, immagino di raccontare, attraverso la fotografia, una sua giornata normale. Un sogno ovviamente.