PINO INSEGNO
Oltre quarant’anni di intesa vincente
Dall’esordio televisivo con Bramieri a inizi anni Ottanta sulla Rai alla conduzione di uno dei game più amati della televisione,“Reazione a catena” (ritorna l’8 giugno su Rai 1). La Tv, il cinema, il doppiaggio, il teatro, quello dell’attore romano è un successo che dura da quattro decadi
Un’estate al lavoro, domenica 8 giugno alle 18.45 torna “Reazione a catena”…
Questo è il mio sesto anno di “Reazione a catena”, quattro più due, sembra uno sconto al supermercato (sorride). Abbiamo rinfrescato tantissimo, una scena nuova, due giochi nuovi, un ritmo pimpante giusto per questi tempi, è una figata. Grazie al lavoro di tutti gli autori, di tutti i tecnici, qui a Napoli c’è un’atmosfera bellissima. È una famiglia.
Cosa le ha insegnato, negli anni, questo programma?
Prima di tutto come si conduce un game, cosa completamente diversa dall’essere un attore, un doppiatore, un presentatore e basta. Il fatto di essere un po’ tutte queste cose mi arricchisce molto e può arricchire anche il programma, è un po’ il mio valore aggiunto al programma. Quando sento che c’è bisogno della battuta, la trovo, quando c’è bisogno di essere empatici, lo sono, come quando c’è bisogno di essere solo una voce, nella fase finale, e accompagno l’ultima catena, l’ultima parola, come se si trattasse di una voce fuori campo. “Reazione a catena” mi ha insegnato anche a fare dei passi indietro per valorizzare sempre di più i concorrenti, i protagonisti sono loro e non sei tu. È un game bellissimo che non ha rivali, dentro c’è tutto: il divertimento, la goliardia, l’approfondimento culturale, la filologia delle parole, i vari significati. Questo fa bene a tutti.
Come sono cambiati, nel tempo, i concorrenti?
Ci sono squadre forti, anche se è sempre più difficile trovare persone che abbiano tempi, ritmi. Il telefonino ha un po’ distrutto tutto, anche la voglia di pensare. Se non ti viene in mente una cosa clicchi su un motore di ricerca, se non ti ricordi una strada metti il navigatore, e questo spegne un po’ la curiosità, la mente. “Reazione a catena” invece accende la mente.
Quale valore dà alla parola “squadra”?
La parola squadra è il segreto, non è solo uno strumento geometrico. Il segreto è far sentire, se ci fosse mai un ultimo, primo. Fare sentire parte di una squadra anche una persona che tende un cavo è fondamentale, deve sentirsi parte di un successo come di un insuccesso. Tutti devono remare nella stessa direzione.
E alla parola “successo”?
Il successo bisogna saperlo interpretare e gestire. L’ho capito sin dall’inizio, quando cominciai a essere riconosciuto per le strade tra il 1985 e il 1986 con “Pronto chi gioca?”. All’inizio fu un po’ una febbre, andavo in macchina la sera con la luce accesa per farmi riconoscere. L’anno successivo l’attenzione della gente calò un po’ e cominciai a chiedermi cosa volessi fare da grande: essere riconosciuto o fare questo mestiere? Per esserci nel tempo devi avere rispetto degli altri e di te stesso. Se vivi così, non sarai mai solo. Vivo ogni esperienza come se fosse il primo giorno: il primo doppiaggio, il primo film che faccio, la prima puntata che conduco.
La parola che nella sua vita non può mancare?
Sono due, amicizia e rispetto.
Che cosa significa trovare nella vita un’intesa vincente?
È il segreto della vita stessa ma è complicatissimo (sorride), è la ricerca del sacro Graal. Esiste, devi saperla gestire, mantenere, un po’ come il successo. Il rischio è di perderla, parlo dell’amicizia come dell’amore, in tutto. Bisogna saperla annaffiare, gestire, perché l’intesa vincente non è un sempreverde.
Si sente più analogico o digitale?
Analogico tutta la vita. Digitale solo quando serve, certo, ti aiuta, ma se perdi il telefonino è finita. Io sono un LP, non un CD, e come vede gli LP sono tornati di moda. Gli anni Settanta non moriranno mai.
Fa parte della generazione del “Tuttocittà” in auto…
… quello ci ha allungato la vita. Facevamo la tournée con la Premiata Ditta chiedendo la strada… fortunatamente veniamo da quegli anni.
Ci regala un ricordo incancellabile dei suoi esordi?
A teatro con l’Allegra Brigata, dieci ragazzi che sono poi diventati grandi, eravamo al Teatro Testaccio di Roma con “Giulio Cesare è… ma non lo dite a Shakerspeare”. Lì incontrammo Massimo Cinque, poi Bramieri e Garinei che ci portarono su Rai 1. Era il 1982, facemmo tre edizioni di “G.B. Show” il sabato in prima serata.
Un pensiero (e una promessa) al pubblico che le vuole bene da quarant’anni…
Torna la parola “rispetto”, che ho avuto sempre nei confronti di tutti. Per me le persone non sono un gruppo informe senza un nome, senza un cognome, senza una storia, non sono genericamente il pubblico. Ho sempre rinverdito questo rapporto, mettendomi sempre in gioco, con educazione, la gente riconosce i valori veri. Quando cammino per strada, anche a costo di metterci dieci minuti per fare cento metri io mi fermo con tutti. Mia moglie mi dice che mi fermo anche con chi la foto non me l’ha chiesta. E io a quel punto rispondo: ma me la stava per chiedere (sorride).
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