Gli umani al centro

Parole e musica per superare l’emergenza del deserto emotivo. Dal lunedì al venerdì alle 20.20 su Rai 3 c’è “Riserva Indiana”

Una riserva indiana in cui le emozioni sono le vere protagoniste, cosa l’ha portata a questo progetto?

Constatare che l’umanità è diventata il tassello mancante, l’anello debole della catena. Oggi ragioniamo soltanto di numeri, di sondaggi, di statistiche, di algoritmi, di intelligenza artificiale. L’elemento caldo, quello dell’umanità, è sempre più assente, è un elemento che si basa per gran parte sui racconti, sulle storie, sull’intensità di un’arte antica come quella del narrare, che da sempre è stata la mia vita. Insieme a essa c’è la musica, quella dal vivo, non quella fatta con gli effetti campionati o con la voce di qualcuno che viene ricreato in laboratorio. L’idea è quella di fare una riserva indiana con al centro gli umani, dove tutto è rimesso all’arte antica del narrare, del cantare dal vivo.

Parla di emozioni impolverate, sopite dalla contemporaneità, quale scenario vede nella società attuale?

Un grande equivoco: il fatto che quando parli di sentimenti, di emozioni e di stati d’animo si intende qualcosa di privato che non riguarda sempre anche il nostro rapporto con gli altri. In qualche modo il dolore, la rabbia, l’irritazione, la denuncia sono tutte cose che nascono davanti a ingiustizie perpetrate dagli altri, non sono mai sentimenti privati. Ecco perché in questa trasmissione parliamo della dimensione pubblica dei sentimenti e delle emozioni. Continuando la metafora della riserva indiana, parliamo di quello che ha a che fare con la tribù, con la collettività. Parliamo della rabbia che nasce da grandi ingiustizie sociali, come morire sul lavoro, la mancanza di diritti. Parliamo di memoria, di proiezione del futuro, di possibilità di inserirsi in una società che è sempre più marcatamente respingente. Parliamo di possibilità che non vengono date a tutti quanti.

Condividere ciò che siamo, ciò che sentiamo, perché si ha tanta paura?

Perché le emozioni sono quella parte di noi che ci racconta davvero per come siamo. Dove non possiamo bluffare, controllare le cose. Nelle emozioni c’è la parte di noi più vera, più pura, più umana. Ed è la parte in cui siamo più autenticamente noi stessi in rapporto con gli altri. “Riserva indiana” è una trasmissione che cerca di puntare all’anima di chi ascolta, alle sue emozioni.

Dove posiziona il confine tra il suo essere “personaggio pubblico” e il suo privato?

Una linea che sento molto necessaria perché ognuno di noi ha bisogno anche di una sfera sua. Ma sono anche del parere che abbiamo troppe volte assolutizzato la dimensione del privato contro quella del pubblico, abbiamo confuso molte volte i confini, abbiamo trasformato le nostre feste di compleanno o festività natalizie in qualcosa di pubblico perché sentivamo il bisogno di pubblicarle sui social, come per candidarle in un grande concorso a premi. Però abbiamo fatto anche l’opposto, abbiamo pensato, per esempio, che tutto quello che ha a che fare con i mondi del lavoro, della politica, dei diritti, con il dibattito che riguarda il mondo circostante, avesse a che fare solo con la nostra dimensione privata. Sono invece sempre fatti di tutti.

Che rapporto ha con la parola?

Fondamentale. È lo strumento più bello e più forte che abbiamo per comunicare agli altri, lo strumento più vivo e che ci rende profondamente capaci di comunicare le sfumature di noi stessi agli altri. Non dovremmo mai abdicare o fare un passo indietro rispetto all’uso della parola. Un loro uso consapevole è sempre qualcosa che ci fa vivere meglio. Guai a pensare che siano qualcosa che riguardi solo gli intellettuali, gli scrittori, i poeti. Riguardano tutti, e parlare meglio significa vivere meglio.

Parole sempre accostate al suono, alla musica…

Le mie collaborazioni con la musica non nascono con “Riserva indiana” ma sono antiche e riguardano una passione che ho nei confronti di questo modo apparentemente lontano dal mio, che provengo dal teatro, ma in realtà così vicino e limitrofo. Non c’è teatro senza musica e non c’è musica senza teatro.

Come ha scelto i suoi compagni di viaggio?

Volevo avere al mio fianco qualcuno di cui mi fidassi. Sono personaggi che hanno una lunga storia di frequentazione con in pubblico, come Luca Barbarossa o Piero Pelù, ma ci sono anche giovani come Motta, i Comacose. C’è una possibilità di penetrare i vari mondi musicali non solo dal punto di vista dei ritmi e di chi li usa, ma anche dal punto di vista del pubblico che li ascolta.

Una sua promessa al pubblico che la segue…

La cosa che per me è più importante di tutte. Non troveranno qualcosa che non c’entra nulla con ciò che ho fatto. Sono sempre stato un narratore, in teatro, nei libri, ho sempre raccontato delle storie con la passione grande di farlo. In “Riserva Indiana” riprendo il filo di quello che ho sempre fatto e di quello che è il linguaggio con il quale le persone mi hanno conosciuto in questi anni. Se invece qualcuno non mi ha mai seguito, troverà una persona che racconta delle storie e su queste costruisce tutto.

 

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