GIULIO CORSO
Artigiano delle emozioni
Le serie più popolari del piccolo schermo, il cinema, il teatro: è il giovane e fascinoso avvocato Corrado in “Che Dio ci aiuti” su Rai 1, è il primo ufficiale Starbuck nel “Moby Dick” di Melville in scena al Quirino a Roma. Nell’intervista al Radiocorriere Tv l’attore siciliano si racconta: «Sono schietto, sincero, passionale e scelgo i personaggi che non si lasciano schiacciare dagli eventi, anche a costo di sbagliare»
Lei e il suo Corrado siete tra le gradite novità dell’ottava stagione, come è stato l’incontro con “Che Dio ci aiuti”?
Sono stato accolto come un nuovo membro di questa bella famiglia e sono felice di averne fatto parte. Una gioia condivisa anche da mia mamma e da mia sorella (sorride), che hanno sempre sperato che potessi recitare nella serie, di cui sono grandi fan. Quando le ho informate erano entusiaste. Penso sia stata la notizia più bella che ho dato loro dopo quella della nascita di mio figlio.
Cosa continua a decretare il successo della serie?
Oltre alla scrittura e agli interpreti, persone di grande talento e umanità, è sicuramente la qualità del materiale umano, dal regista a tutta la produzione.
Quando ha conosciuto Corrado sul copione cosa ha pensato?
Sulle prime, quando si conosce un personaggio, capita che ci si lasci sopraffare dai nostri limiti, dalle nostre incertezze e debolezze, rischiando di non riuscire ad apprezzarne subito il potenziale. Con Corrado avevo capito che si trattava di un personaggio positivo, ricco, spesso, in cui ci si poteva divertire. Pian piano, con l’aiuto degli autori e del regista, ho cominciato a entrare nel suo mondo…
Si è trovato a suo agio?
È la storia di un ragazzo in carriera che attraverso la Casa del Sorriso si riconnette un po’ alle cose importanti, alle ragioni per cui aveva scelto di fare l’avvocato, ai suoi sogni, e anche alla bellezza di fare qualcosa per gli altri, di dare una mano al prossimo. Così come Corrado, penso anche io che se fai del tuo lavoro la tua passione, non avrai mai la sensazione di lavorare.
Cosa la spinge a scegliere un ruolo?
Quando leggo un nuovo testo e valuto se entrare in un personaggio mi chiedo da cosa sia mosso realmente, quali siano i suoi bisogni. Di lui sappiamo sempre da dove inizia a dove arriva, ma ciò che è veramente importante è il racconto del suo percorso, il cambiamento che compie. E poi credo che ogni attore scelga personaggi in cui possa riconoscersi. Sono una persona molto passionale, sincera, schietta, a volte un po’ irruenta nelle decisioni, questo mi porta a scegliere personaggi con i quali condivido questa natura delle cose, che non si lasciano schiacciare dagli eventi, anche a costo di sbagliare. Non c’è cosa più bella di raccontare le proprie fragilità.
Che scambio avviene con i personaggi a cui dà voce e volto, o anche quelli che incontra da spettatore?
Credo che la recitazione sia una chiave per capire meglio noi stessi: arrivi spesso a comprendere cose personali incontrando un testo, una storia, un personaggio. Per arrivare a fare un lavoro sincero è importante fare i conti con la propria umanità.
La sua carriera la porta ad alternare il cinema, la serialità televisiva, il teatro. Proprio sul palcoscenico teatrale ha debuttato in questi giorni in “Moby Dick” di Herman Melville…
Un’esperienza meravigliosa. L’adattamento del testo è di Micaela Maino, la regia del bravissimo Guglielmo Ferro. Abbiamo debuttato a Sulmona, dall’1 al 13 aprile saremo al Teatro Quirino di Roma. A interpretare il capitano Achab è uno straordinario Moni Ovadia che dà al personaggio di Melville tutta la sua energia e il suo carisma…
Lei veste i panni di Starbuck…
… che di Achab è l’alter ego. Se il capitano del Pequod è ossessionato dalla vendetta nei confronti di Moby Dick, Starbuck, primo ufficiale della baleniera, è la voce della prudenza, della coscienza. Il romanzo di Melville è un’impresa biblica, in ogni capitolo ci si può perdere.
Le è capitato?
Più volte, e sempre con grande emozione. Nel capitolo “Delle raffigurazioni mostruose di balene” Melville racconta ad esempio come i pittori suoi contemporanei dipingono il leviatano nelle loro opere. Ecco, mi sono trovato a cercare su Internet i dipinti citati. È bellissimo pensare come un testo scritto a metà Ottocento susciti ancora oggi un tale entusiasmo.
Come è nata la sua passione per il teatro?
Mi è accaduto da ragazzino, a Palermo. Il figlio di colleghi dei miei genitori mi propose di unirmi al gruppo con cui faceva musical. Ero attratto da quel mondo, ci provai e lo trovai naturale. Da lì ho cominciato ad approfondire l’argomento: il musical mi ha portato alla recitazione, che a sua volta mi ha portato a Roma, dove sono entrato all’Accademia nazionale di arte drammatica.
Ha avuto le idee chiare da subito…
Ai tempi della maturità non è che fossi il migliore degli studenti, ma sapevo quello che avrei voluto fare dopo. Quando un commissario d’esame mi chiese del mio futuro, risposi che avrei fatto l’attore. Lo dissi in maniera onesta, pura. Proprio come quando chiedi a un bambino cosa voglia fare da grande e lui risponde: farò il pompiere (sorride).
Cosa dà la sua Sicilia al suo essere attore?
Un attore è un artigiano, un artista, e proprio come i pittori ha una serie di strumenti a disposizione. La tela, fatta di un certo materiale, il telaio, i colori. Credo che la provenienza di un artigiano, di un artista, sia tutto quello che ha da raccontare. In me ci sono i luoghi in cui sono cresciuto, c’è Palermo, una città di mare, di porto, accogliente, che si dona. Lì ho la mia famiglia, il legame è ancora fortissimo. E poi quando si è ancora figli il vincolo con la terra d’origine rimane forte. Immagino che un giorno anche mio figlio, che non ha ancora tre anni, farà i conti con le origini del suo papà.
Nel confronto-scontro tra essere e apparire come si pone?
Con il passare del tempo, crescendo, credo che si rinunci più facilmente ad apparire perché si ha il coraggio di essere. Ci sono alcuni momenti della vita dell’artista in cui ci si convince che si debba apparire in un certo modo per essere agli occhi degli altri. Credo che purtroppo, in questo ambiente, si cerchi di corrispondere a modelli imposti dall’epoca in cui viviamo. Per il pubblico è più facile riconoscersi in qualcosa che è convenzionale piuttosto che in qualcosa di sfaccettato, sincero. Conosco tanti artisti di cui ho grande stima che hanno scelto di tirarsi fuori dalle etichette, e questa cosa mi piace molto, mi dà fiducia, penso che se lo hanno fatto loro forse potrò farlo anche io.
Che rapporto ha con il suo pubblico?
Accolgo con gioia le dimostrazioni d’affetto, di stima. Succede anche ora con “Che Dio ci aiuti”. Lo vivo con gratitudine. Al pubblico dobbiamo tutto, anche se credo che ci sia una sorta di scambio che soprattutto il teatro ti consente di vivere. A ogni rappresentazione gli attori scrivono una nuova pagina insieme a chi siede in platea.
Cosa la diverte fuori dal set?
Non sono uno spiritosone e passo tanto tempo a pensare. Sto bene nelle situazioni che mi consentono di essere me stesso, mi diverte stare con mio figlio, con mia moglie. Quello che riguarda il mio privato è davvero semplice. Recentemente ho passato una bella giornata giocando a tennis con un amico a Palermo: da ragazzi eravamo forti, oggi le nostre prestazioni non sono le stesse. Mi diverte ripensare come eravamo (sorride).
Un sogno nel cassetto, da aprire magari tra qualche tempo…
Mi penso in teatro. Vorrei tanto tornare a fare un musical grande, magari originale. Quando le musica e le parole si uniscono, si fa un sunto di quella che è la mia esperienza.