FEDERICO PALMAROLI

Quando la realtà copia la satira

 

Un distillato di satira tra politica, crisi globali e gaffe planetarie. Nelle librerie e negli store digitali è arrivato “Awanagana – Cronaca surreale di un mondo reale”, edito da Rai Libri. Con Palmaroli, alias #lepiùbellefrasidi Osho, immagini, battute e romanesco diventano una lente comica per capire, e sopravvivere, a un mondo che inciampa continuamente nella propria serietà. L’intervista del RadiocorriereTv

 

 

 

Il suo libro racconta un anno reale che sembra già satira. Qual è l’immagine, o la frase, che più di tutte incarna il 2025 così come lo ha vissuto e filtrato?

Se devo scegliere un’immagine, torno sempre a ciò che è accaduto dopo l’estate. Le cronache sono state dominate dalla questione Ucraina e dall’apertura del secondo fronte; in tutto questo, la vicenda dei dazi ha rappresentato un punto cardine. Poi la Flottiglia, altri episodi, alcuni anche spiacevoli. Non che i dazi non lo siano: per un’azienda sono un problema serio. Ma quel tira e molla di Donald Trump è stato iconico, così come l’incontro tra Trump e Putin. Quelle immagini hanno pesato moltissimo.

L’omaggio ad Alberto Sordi è dichiarato. Nel suo inglese maccheronico c’era un Paese che cercava di stare al passo. Oggi qual è la nostra struttura linguistica che la diverte o la preoccupa di più?

Quel mondo popolare lo richiamo volentieri, perché è parte della nostra identità culturale. Anche nel mio lavoro cerco di usare un linguaggio popolare, ma veloce, legato ai fatti, non alle nuove derive. L’Italia ha sempre avuto uno slang generazionale; ogni epoca ha prodotto parole e modi di dire. Oggi, invece, non vedo esperienze culturali davvero affascinanti nemmeno in quell’ambito. Per questo guardo a quel passato: è nostalgico, ma anche rassicurante.

La sua satira vive anche di rapidità. Quanto pesa il tempismo nel trasformare un fatto di cronaca in una battuta efficace?

Pesa tantissimo, soprattutto nell’ecosistema dei social. Oggi è quasi un obbligo. I mezzi sono aumentati e arrivare per primi è complicato. Con Forattini le vignette uscivano la mattina sul giornale e finiva lì: non c’era la diffusione capillare che abbiamo ora. Non tutti potevano esprimersi pubblicamente. Adesso invece ogni notizia arriva in tempo reale, la si consuma subito, si è bombardati. Prima, per leggerla, si aspettava l’edizione successiva o il giornale del giorno dopo. Oggi tutto è simultaneo, e per chi fa satira può essere alienante.

Il libro attraversa crisi globali, gaffe dei potenti, retorica digitale. Esiste un confine per la satira?

Il confine lo stabilisce la sensibilità personale. Non credo nei paletti oggettivi, né nelle punizioni per chi non rientra in quei paletti. La libertà deve essere la più ampia possibile, poi ciascuno si regola. Io, ad esempio, evito di fare ironia su morte e salute fisica. In un’epoca segnata da due conflitti è tutto più delicato: ci si muove come un elefante in una cristalleria. Ma anche lì si può cercare una chiave rispettosa che consenta comunque di parlare dei temi.

Molto del suo lavoro vive sulle immagini. Come sceglie la fotografia giusta, quella che parla prima del testo?

Con ricerca, tanta. Quando si trova la foto adatta la soddisfazione è enorme, anche se non sempre c’è ciò che servirebbe. A volte manca l’immagine di due persone insieme, e allora bisogna inventare dialoghi impossibili. In quei casi ricorro alla telefonata: risolve parecchi problemi. Non sapere disegnare mi spinge a usare le foto, che sono più rapide; chi disegna deve creare sia la battuta sia l’illustrazione. È un vantaggio, ma anche un limite: non sempre riesci a costruire esattamente la scena che hai in mente.

 

La sua pagina social è una comunità gigantesca. Quanto la condiziona sapere che ogni immagine diventa subito virale?

Un po’ mi condiziona, certo. È come affidare un messaggio in una bottiglia. All’inizio controllavo tutto, leggevo i commenti… ora non più: sia per mancanza di tempo sia per scelta. Lascio andare la vignetta e basta. Mi dà fastidio quando diventa un pretesto per insultare i protagonisti ritratti. Anche se non è rivolto a me, mi disturba. In quei casi blocco chi lo fa. Preferisco un insulto rivolto a me piuttosto che vedere qualcuno, magari inconsapevole, diventare bersaglio.

Nel libro alterna ironia e osservazione lucida. C’è stato un episodio di cronaca che l’ha messa in difficoltà proprio perché sembrava già una parodia?

Sì, quello di un deputato che entra alla Camera vestito da fantasma per protestare sul tema dei referendum. Vedere un fantasma in Parlamento è già satira allo stato puro. Una chiave la si trova sempre, ma lì il confine tra realtà e parodia era sottilissimo. E con l’intelligenza artificiale è ancora più complicato: tutto è così verosimile da sembrare reale. Serve un pubblico educato, capace di distinguere. Non solo chi crea contenuti, anche chi li riceve.

Guardando avanti: quale tema del 2026 teme di più, e quale invece non vede l’ora di smontare con una battuta?

Spero che la politica torni centrale. Con il referendum e la campagna elettorale ci sarà molto da raccontare, ed è l’ambito che preferisco. Negli ultimi anni la politica è stata presente, ma schiacciata dalle guerre. Io rimpiango molto il periodo del governo giallo-verde: per la satira era un parco giochi. Del 2026 temo poco: ciò che temevo è già accaduto. Sono venuti meno alcuni pilastri della mia satira, come Biden, che era un personaggio irresistibile dal punto di vista comico. Un desiderio? Mi piacerebbe rivedere Luigi Di Maio sulla scena politica.