FRANCESCA FIALDINI

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Appassionata delle vite degli altri

La curiosità e l’empatia, il desiderio di condivisione e la volontà di connettere persone di generazioni diverse. Con “Le Ragazze” (il martedì in prima serata su Rai 3) e “Da noi… a ruota libera” (la domenica pomeriggio su Rai 1), la conduttrice racconta la nostra vita e il Paese

“Le Ragazze”, Francesca Fialdini,2023

Un viaggio nell’universo femminile alla scoperta di storie, di vite, di emozioni. Cosa rappresenta per te “Le Ragazze” e come sta crescendo il tuo rapporto con la trasmissione?

“Le Ragazze” è un programma che parla dell’Italia e di come è cambiato il volto del Paese, grazie anche al piccolo-grande contributo che ciascuna delle nostre protagoniste ha dato a questo cambiamento. È una trasformazione che a volte è all’insegna dell’emancipazione femminile, perché ci sono delle donne che sono state protagoniste assolute, a volte apripista per altre nella battaglia per i diritti, ci sono donne invece che, semplicemente rimanendo nel proprio contesto familiare e locale, contribuendo a far sì che quel luogo dove sono nate e cresciute crescesse, si evolvesse grazie al loro lavoro, hanno lasciato un ricordo indelebile nelle generazioni della loro famiglia. Mettere insieme i racconti della ciambellaia di Sora, della pastora di Bagolino, a quelli di Elisabetta Canitano, una ginecologa che già negli anni Settanta si dedicava la legge 194, di Simona Marchini che conosciamo tutti per il grande talento comico, oppure  di Oriella Dorella, che è stata una étoile amata da tutti e che ha avvicinato gli italiani alla danza classica grazie al suo contributo televisivo – era una Bolle ante litteram – mettere insieme queste storie, questi racconti, significa tessere con ago e filo il volto femminile dell’Italia del nostro Paese. Per me, oltre a essere emozionante, è anche una grande lezione, un grande insegnamento. È come stare dentro un libro di storia.

“Le Ragazze” presenta donne tra loro anche molto diverse per storia, estrazione sociale, opinioni, c’è un tratto che le accomuna?

Forse sono delle linee immaginarie, i tratti che uniscono di volta in volta le storie li può trovare liberamente lo spettatore in base da ciò che viene colpito. C’è una puntata dove ci sono insieme la scrittrice Sveva Casati Modignani e una postina, una delle prime postine italiane, di Morcellina, in Veneto. Cosa le lega? Le parole scritte, il fatto che una le usi per scrivere romanzi di grande successo e che l’altra queste parole le consegni fisicamente dentro le case delle persone e le porti sotto forma di lettera, di cartolina. Potrebbero esserci anche altri elementi di contatto, a partire dal modo in cui hanno vissuto i sentimenti.

Come le ragazze di ieri parlano a quelle di oggi?

Si tratta di prendere atto che c’è una distanza abissale fra le donne del Novecento e le donne di adesso. C’è una distanza data ovviamente dal progresso sociale, da questi settant’anni di pace che ci dividono da quelle guerre mondiali che alcune di loro raccontano ancora con l’orrore negli occhi. Ma è dovuta anche al progresso tecnologico che ha separato le persone, ne ha unite tante a livello di connessioni digitali, ma tante altre ne ha separate. È cresciuto un forte individualismo, quindi le ragazze di oggi ascoltando le storie di allora, di queste nonne, di queste mamme, possono imparare che cosa significa stare dentro una società che conosce la collettività, il valore di fare le cose per gli altri e con gli altri. Cosa vuol dire fare delle battaglie sociali che possano cambiare non solo la propria vita ma anche quella di chi ci circonda, fare magari alle volte anche delle battaglie generazionali. E questo è importante perché l’individualismo ci sta allontanando anche dai sentimenti, purtroppo l’attualità ce lo racconta. Ascoltare la vita delle ragazze per me significa recuperare un po’ il senso della collettività, di una società che sapeva fare delle battaglie per il bene di tutti.

Che ragazza è Francesca Fialdini?

Appassionata delle vite degli altri, altrimenti avrei scelto un mestiere diverso. E sono una ragazza forse molto novecentesca, molto analogica. La distanza che in qualche maniera mi separa, da un punto di vista emotivo dalle nuove generazioni, mi fa guardare a loro con grande tenerezza, Tendo sempre ad assolvere le ragazze di adesso, perché in fondo siamo noi che abbiamo consegnato loro questo mondo frammentato e che conosce più divisioni che unità. In questo senso più che una ragazza mi sento una sorella maggiore, una mamma putativa, che con il suo lavoro può tentare quantomeno di destare un po’ d’attenzione.

Chi sono le ragazze della tua vita?

Mia nonna Giannina, che ha 97 anni e che è scampata più volte alle fucilazioni tedesche durante la Seconda guerra mondiale, e che ancora oggi quando mi vede mi dice: “Se sono ancora qui dopo tutto quello che ho patito, allora forse arrivo a cent’anni”. Lei è un po’ la memoria storica della nostra famiglia. E poi c’è la mia mamma, che è stata ed è ancora oggi una donna agli antipodi rispetto a mia nonna, perché è proprio una figlia del 1968. È stata prima segretaria della CGIL a Carrara, quindi una delle prime donne segretario di partito con i DS. Una donna impegnata nel sociale e in politica che ha cercato con grande fatica, e si fa fatica ancora oggi, a tenere insieme lavoro e famiglia. Devo ringraziare lei e tutte quelle donne che si sono spese per cambiare le nostre vite, anche se rimane ancora tanta strada da fare.

Prima il ritorno con “Da noi a ruota libera”, ora con “Le Ragazze”, come vivi questa fase della tua carriera?

Molto bene, perché sono molto felice dei programmi che faccio. Tutti portano qualcosa che per me è un tratto profondamente umano.

Sei un’esperta intervistatrice, come ti senti nel ruolo dell’intervistata?

A disagio, profondamente a disagio (sorride).

Ti chiedo per un istante di “sdoppiare” il tuo ruolo, c’è una domanda che faresti a Francesca Fialdini?

Sai mantenere le promesse?

Che risposta darebbe Francesca?

Mi impegno sempre molto per essere all’altezza della parola che do. E quando non ci riesco… mi dico: “Ritenta, riprova. Sarai più fortunata” (sorride). Mi autoassolvo. Ma sai perché? Quando ci sentiamo traditi nelle aspettative, in fondo l’errore più grande lo facciamo noi, che quelle aspettative le abbiamo nutrite come piantine. E invece bisogna imparare a vivere senza aspettarsi nulla in cambio.

La domenica pomeriggio ti vediamo spesso giocare con i tuoi ospiti, li vediamo divertirsi, cosa c’è che ti fa divertire, che ti fa stare bene?

Le vacanze, un tempo vissuto senza preoccupazioni, senza deadline, senza consegne immediate, dove ti puoi permettere una condivisione fatta anche di tanti silenzi. Il tempo è il lusso più grande che abbiamo, quando lo abbiamo, per scegliere a chi dedicarlo, come viverlo, come riempirlo, per dargli valore. Quindi per me le vacanze sono occasioni di scoperta di sé, degli altri, di condivisione, di fare esperienza insieme. Il tempo va usato bene.

La televisione sta cambiando insieme alla società, cosa ne pensi della Tv di oggi?

In questo momento la televisione, soprattutto quella generalista, non può che essere in forte difficoltà, vedendo la sfida epocale che sta attraversando con le nuove tecnologie. Ci stanno cambiando l’immaginario, l’arrivo dell’intelligenza artificiale renderà forse tutto così obsoleto, compreso il mio ruolo, che non può che essere un momento di passaggio. Credo che dobbiamo fare leva principalmente sulle risorse umane, finché hanno ancora un senso, affinché quello che di umano c’è nei nostri racconti possa essere preservato come valore. La televisione non è i social,  la televisione non è il web, quindi dovrebbe essere un pochino più fedele a se stessa per non farsi travolgere più velocemente di quanto già non stia accadendo dalla trasformazione tecnologica e valoriale che è in corso.

C’è un personaggio televisivo che ti ha fatto capire che il giornalismo e la televisione sarebbero stati la tua strada?

In realtà mi sono innamorata di questo mestiere quando ero piccolissima, perché nella mia testa di bambina di otto anni pensavo al lavoro di giornalista e di fotoreporter e che sarei stata proiettata in luoghi lontani e sarei andata a raccontarli a chi quei luoghi li aveva dimenticati. Da un punto di vista televisivo ho sempre apprezzato Lilli Gruber, che sta al giornalismo come Raffaella Carrà sta all’intrattenimento. Lilli ha portato la modernità, le minigonne, il chiodo, il caschetto rosso fuoco in prima serata, nel Tg della sera. Ed è stato un momento di rottura fortissimo, ha dato un’immagine di donna emancipata, indipendente, sicura di sé e autorevole. E così mi sono detta: quella è la strada, la direzione. Essere una donna, una conduttrice preparata, sicura di sé, è che deve studiare per essere autorevole, per guadagnarsi quello che la vita le insegna.

Il tuo augurio al Servizio Pubblico radiotelevisivo…

Di essere fedele al Servizio Pubblico radiotelevisivo.

 

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RENZO ARBORE

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Dagli anni Sessanta la sua storia di autore e conduttore rivoluzionario e quella della Rai vanno di pari passo. Il suo nome è sinonimo di creatività, ironia e fantasia, i suoi programmi hanno contribuito a una narrazione mai scontata della contemporaneità. Da “Bandiera Gialla” ad “Alto Gradimento”, da “L’altra domenica” a “Quelli della notte” e ancora “D.O.C.”, “Indietro tutta”, “Il caso Sanremo”, i suoi format radiofonici e televisivi hanno accompagnato l’evoluzione del Servizio Pubblico

 

Cosa fece accendere la sua passione per la radio?

L’ascolto, io ero solo un bambino. Costruii anche una radio a galena, che conservo ancora, che mi permetteva di ricevere emittenti da tutto il mondo, non si capiva nemmeno da dove venissero (sorride). La ascoltavo con le cuffie che avevano lasciato gli americani. Sentivamo anche la radio della Rai, quella dei “I quattro moschettieri”, il più grande successo nella storia di Radio Rai insieme ad “Alto Gradimento”  (programma di Arbore, Gianni Boncompagni, Giorgio Bracardi e Mario Marenco). “I quattro moschettieri” fermava l’Italia, gli ascoltatori si divertivano a collezionare le figurine legate al concorso promosso dal programma, la più ricercata era quella del Feroce Saladino, e poi c’erano le canzoni, i dischi.

Com’era la radio prima di Renzo Arbore?

Una radio molto antica, annunciata da annunciatrici e annunciatori, non si parlava il linguaggio corrente, non era a disposizione del pubblico, come poi sarebbe diventata con “Chiamate Roma 3131”. Era una radio molto scritta e controllata dai direttori. Le canzoni dovevano essere scelte da una commissione d’ascolto di maestri programmatori, che era molto severa, non c’erano i dj, ma veri e propri presentatori. Io feci il concorso per maestro programmatore, arrivai al primo posto, è cominciato tutto cosi…

Il suo arrivo a Roma, il debutto. Che ricordo ha di quel 1965 quando varcò l’ingresso del palazzo di Via Asiago?

Ricordo un’emozione indescrivibile. Avevo mitizzato la radio, la sede di via Asiago, il primo ingresso fu straordinario. Quel luogo è stato una tappa importante per tantissimi personaggi che hanno fatto spettacolo, è stata una fucina di talenti straordinaria. Quando entrai c’erano ancora i tecnici in camice bianco, c’era l’intendente di palazzo, era una storia molto romantica su cui io e Boncompagni abbiamo scherzato molto. A quel palazzo sono molto legato.

Con il 1965 lei e Boncompagni inventaste “Bandiera Gialla”, che portò una vera e propria rivoluzione…

Fummo autorizzati da un gruppo di dirigenti, capitanati dal professor Leone Piccioni, un uomo modernissimo, a mettere la musica che ci piaceva, evitando il filtro della commissione di ascolto, fu un passo determinante per ringiovanire la radio. In seguito all’avvento della Tv nel decennio precedente la radio era decisamente invecchiata, veniva ascoltata da coloro che non avevano la televisione e non era diversa da quella che seguivo da bambino. “Bandiera Gialla”, grazie anche all’invenzione dei transistor che aveva fatto aumentare il numero degli apparecchi in uso, diventò appannaggio dei giovani. Da lì a poco mi fecero fare un programma giornaliero che si chiamava “Per voi giovani”, la prima occasione in cui alla radio si utilizzò la parola giovani per indicare la fascia d’età tra i ragazzi, quelli con i pantaloni corti, e gli uomini, con i pantaloni lunghi.

Nel 1969 con “Speciale per voi” la “rivoluzione” arrivò in Tv. Erano i giovani a intervistare i loro idoli…

Ho fatto un programma in cui tutti erano liberi di dire la loro, sulle canzoni, sugli artisti. Un incontro con la musica e i musicisti senza censure. È un’antologia meravigliosa dei personaggi dell’epoca, lì hanno debuttato Lucio Battisti, Patty Pravo, l’Equipe 84, ma anche Sergio Endrigo, Gino Paoli, Claudio Baglioni.

Come rispose il pubblico?

Non sono io a doverlo dire (sorride). Fummo accettati, fui annotato come grande esperto di musica pop, che andava dal jazz alle canzoni brasiliane, dalle canzoni beat a quelle napoletane, che in qualche maniera contrabbandavo per la passione che avevo. C’è un libro bellissimo di Massimo Emanuelli, “L’avventurosa storia della radio pubblica italiana” che ben racconta quel periodo, in cui alcuni di noi divennero idoli dei ragazzi. Decidevamo i cantanti, le mode, i dischi che si dovevano comprare.

Nel 1970 arrivò “Alto gradimento”, programma definito da molti uno spartiacque… come nascono le rivoluzioni?

Ero stato mandato via da “Per voi giovani”, programma che avevo inventato, perché non ero cattocomunista. In quegli anni la radio era molto politicizzata, come del resto tutta la vita. Andai a lamentarmi dal direttore di allora, Giuseppe Antonelli, che mi diede uno spazio all’ora di pranzo, dicendomi che potevo fare ciò che volevo. Chiamai Boncompagni, che era un po’ stufo di fare “Chiamate Roma 3131”, ottima trasmissione che coinvolgeva il pubblico da casa ma che raccontava spesso malanni, era un po’ un confessionale, e insieme pensammo di fare un programma che non avesse né capo né coda, un nuovo modo per parlare di dischi, di musica. Cominciammo con un disco di rumori, e piano piano diventò una trasmissione matta, completamente fuori ordinanza, rivoluzionaria, alla quale si sono ispirati tutti. Erano tutte invenzioni di fantasia, per merito anche di coautori come Giorgio Bracardi, che aveva inventato un uccellaccio curiosissimo, lo Scarpantibus, o Mario Marenco, che inventò il Comandante Raimundo Navarro (astronauta spagnolo dimenticato in orbita), tutte cose surreali. Oggi qualcosa di simile lo ascoltiamo nel programma di Lillo e Greg.

Era ed è più complesso innovare in radio o in tv?

Credo che in radio si possa innovare molto, è meno scrutata dai critici e dagli haters, poi la tecnologia consente di dialogare con facilità con il pubblico che ascolta. La tv è più pericolosa.

Ha spesso chiuso i suoi programmi quando erano nel pieno del successo, pensiamo a “Quelli della notte”, a “Indietro tutta”, perché?

Mi sono accorto adesso di non essere un autore televisivo tradizionale. L’autore fa una cosa e poi se la mantiene e se la porta avanti per tutta la vita. Io, invece, sono un regista, come un regista cinematografico. Faccio un film, ha successo, ho detto la mia con quel film radiofonico o televisivo, e poi passo a un’altra idea. Sono un ideatore di programmi. Lo dissi molti anni fa al primo talk show di Maurizio Costanzo, insieme a Pippo Baudo e a Corrado. Ho ideato 21 format alla tv, altri alla radio, calcolando anche il programma “Tagli, ritagli e frattaglie” con Luciano De Crescenzo, “D.O.C.”, “Telepatria International”, “Il Caso Sanremo”, con Lino Banfi e Michele Mirabella. Oggi faccio programmi come “Appresso alla musica” con Gegé Telesforo, su cose del passato che non vanno dimenticate. Dobbiamo conservare le cose eterne, non quelle usa e getta. Quelle che meritano di essere conservate servono per andare avanti, per imparare. Visto che pochi usano Internet come una grande palestra, è giusto che ci sia qualche palestra in radio e in televisione.

Lei e Gianni Boncompagni avete più volte sparigliato le carte e sempre con sorriso e ironia, come raccontereste, insieme in un programma, questo 2024, il nostro oggi?

No, lui era distruttivo. Direbbe “no, no. Per carità, è una bischerata”. Boncompagni era sempre molto critico, amava molto la tecnologia, era affascinato da Internet, lo avrebbe studiato sempre di più.

70 di tv, 100 di radio, il suo augurio al Servizio Pubblico…

Quello di avere altri 100 anni di successi e di fare molta attenzione alle cose che succedono. Ma anche di essere attento ai nuovi talenti, del giornalismo come dell’intrattenimento. Io ho fatto il talent scout, molti altri lo hanno fatto, penso ad esempio a Claudio Cecchetto. La Rai dovrebbe avere un’attenzione particolare ai nuovi talenti. Per la verità qualcosa si è mosso, penso a Stefano De Martino, al quale faccio molti auguri perché mi sembra un’ottima conquista.

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DETECTIVES

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Casi risolti e irrisolti, indagini in corso

È partita domenica in seconda serata Rai 3 la terza stagione del programma true crime di Rai Approfondimento condotto da Pino Rinaldi, realizzato in collaborazione con la Polizia di Stato. Protagonisti del racconto sono gli investigatori della Polizia di Stato, che hanno seguito in prima persona i casi più controversi e complessi di cronaca nera, analizzando i documenti delle indagini. “Casi risolti”, che hanno tenuto con il fiato sospeso gli italiani e “irrisolti”, che ancora aspettano di dare un volto all’assassino

Nella terza stagione è prevista la novità della presenza in studio di due eccellenze in ambito criminologico accademico, che analizzeranno i casi trattati: la professoressa Anna Maria Giannini (Criminologia Forense, Università Sapienza di Roma) ed il professor Arije Antinori (Criminologia e Sociologia della Devianza, Università Sapienza di Roma). Sei nuove puntate attraverso i “delitti della porta accanto”, con una trama narrativa avvincente, ripercorrendo le indagini attraverso i documenti originali, il racconto dei testimoni, la ricostruzione dei fatti, utilizzando materiali inediti audio, video, fotografici. Un racconto ancorato ai fatti, con la collaborazione della Polizia di Stato che rende il programma un’assoluta novità nel panorama della “crime tv” italiana: un viaggio nelle tenebre dei casi giudiziari e criminali più controversi, un’occasione per il pubblico, che avrà la possibilità di conoscere da vicino il lavoro dei poliziotti quotidianamente impegnati nella lotta al crimine.

Un racconto ancorato ai fatti…

Questo programma realizza un po’ quello che era il mio sogno quando lavoravo a “Chi l’ha visto?”, fare crime watch in Italia. Con “Detectives” ci sono riuscito perché è un progetto che la Polizia di Stato fa con la Rai, un connubio secondo me fondamentale per capire e far capire, per cercare di risolvere qualcosa che ancora non ha trovato una soluzione. Ha una potenzialità straordinaria, noi stiamo lavorando perché, nell’orizzonte dei programmi che si occupano di crime, potrebbe dare informazioni corrette e soprattutto fornire materiale straordinario che potrebbe effettivamente far capire meglio alle persone oltre al “cosa è accaduto”, il perché.

Giunto alla terza stagione, qual è la sfida principale?

Mantere sempre altissimo il livello qualitativo, raccogliere senza mezzi strumenti, senza furbate, l’interesse del grande pubblico.

Come si collabora con le Forze dell’Ordine?

Ho iniziato a lavorare tanti anni fa, a occuparmi di cronaca nera e all’epoca la Polizia e i Carabinieri parlavano ai giornalisti soltanto se c’era stata la brillante operazione. Già allora pensavo “così è troppo comodo” (sorride). Dopo tanti anni, sono riuscito a collaborare con le Forze dell’ordine in maniera proficua, la Polizia ha creduto in me e nel mio desiderio di far raccontare in tv i casi irrisolti, che per loro potevano anche essere letti come un fallimento. Nel tempo, quidni, la maturità della Polizia, di chi opera nelle squadre mobili o nella sezione omicidi in particolare, è cresciuta enormemente, è stato costruito un atteggiamento costruttivo, non legato a logiche di potere o di immagine. L’obiettivo per tutte queste persone è risolvere un caso, non fermarsi alle difficoltà, ma continuare a provarci, a raccogliere testimonianze, sfruttando al meglio lo sviluppo delle tecniche investigative, che all’epoca ci sognavamo. Recentemente ho scritto un libro sul Mostro di Firenze e posso tranquillamente dire che se agisse oggi, dopo il mezzo delitto sarebbe dentro, proprio perché la scienza ha dato un contributo fondamentale alle indagini.

Quale fotografia restituisce del nostro Paese la cronaca nera?

Un’immagine drammaticamente reale. Quello che mi dispiace è quando i mass media, alcune trasmissioni, alcuni giornalisti, producono una narrazione completamente falsa, abbracciando una tesi rispetto a un’altra, facendo i processi prima del dovuto, magari senza leggere le carte. Questo, secondo me, è un grandissimo limite perché si ha il dovere di informare le persone, che non hanno la nostra possibilità di arrivare ai documenti ufficiali, utilizzando esclusivamente dati reali.

 

Nelle prossime puntate…

 Il caso Lavinia Ailoaiei (domenica 6 ottobre)

L’8 settembre 2013 viene ritrovato il cadavere di una donna nuda nelle campagne di San Martino in Strada, attorno al collo due fascette autobloccanti. Si tratta di una giovane romena di diciotto anni, Lavinia Ailoaiei. Sul luogo del ritrovamento del corpo la prima traccia è un asciugamano con la sigla di un motel. Le indagini della Squadra Mobile di Lodi partono da questo elemento… Pino Rinaldi e il Dr. Alessandro Giuseppe Battista, Vice Questore della Polizia di Stato, ripercorreranno assieme le indagini che hanno portato alla cattura dell’omicida.

Il caso Francesca Moretti (domenica 13 ottobre)

Un intricato mistero che dura ormai da ventiquattro anni. Francesca Moretti vive a Roma insieme a due coinquiline in un appartamento nel quartiere di San Lorenzo. Da giorni è afflitta da una terribile lombosciatalgia, che la costringe a rimanere in casa. Il pomeriggio del 22 febbraio del 2000 le sue condizioni di salute precipitano e viene ricoverata d’urgenza in ospedale, dove morirà alcune ore più tardi. L’autopsia rivelerà che è stata avvelenata con una potente dose di cianuro. Indagini difficili. Al termine del processo la coinquilina, che secondo l’accusa aveva versato un veleno nella minestra, verrà assolta.

Il caso Roberto Klinger (domenica 20 ottobre)

Roberto Klinger, noto diabetologo e medico sociale della “Grande Inter” di Helenio Herrera, ha sessantasette anni quando viene freddato a colpi di pistola sotto casa, in via Muratori a Milano. È la mattina del 18 febbraio 1992. Le prime indagini si concentrano su un altro medico, che in qualità di paziente aveva avuto dei problemi con la clinica nella quale Klinger lavorava. Nel 1995 verrà prosciolto. Tante le ipotesi, ma l’unica cosa certa è che, ad oggi, quello del medico della “Grande Inter” resta un delitto insoluto.

Il caso Mahtab Savoji (domenica 27 ottobre)

Il 28 gennaio 2014 dalle acque del Lido di Venezia affiora il corpo senza vita di Mahtab Savoji, una ventisettenne di origine iraniana, studentessa all’Accademia di Brera, a Milano. La ragazza divideva un appartamento con una coppia. Dalle indagini emergono spostamenti sospetti, fatti proprio dai due fidanzati indiani il giorno precedente al ritrovamento del corpo. La coppia era stata ripresa dalle telecamere di diverse stazioni ferroviarie mentre trascinava un grande trolley nero. Un viaggio dell’orrore, alla ricerca di un luogo dove occultare il cadavere della giovane donna iraniana.

Il caso Giusy Potenza (domenica 3 novembre)

Il 13 novembre 2004, alle cinque del mattino, viene trovato il corpo senza vita di una giovane ragazza di quattordici anni sulla spiaggia di Manfredonia. I pantaloni sono abbassati, la testa fracassata. La ragazza si chiama Giusy Potenza, a ritrovare il corpo, dopo una notte di ricerche, sono i genitori aiutati da alcuni amici. Un mese dopo la polizia ferma un uomo con lo stesso cognome della vittima, un cugino del padre, Giovanni Potenza, che Giusy chiamava “zio”. L’uomo, confessa il delitto, l’ha uccisa perché voleva rivelare a sua moglie la loro storia. Nel 2006 Giovanni Potenza viene condannato a trenta anni di carcere.

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MARIA GIOVANNA ELMI

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Signore e Signori Buonasera

La popolare presentatrice e indimenticata “signorina buonasera”, sui teleschermi della Rai dal 1968, ripercorre con il Radiocorriere Tv, annuncio dopo annuncio, una carriera straordinaria nel segno del Servizio Pubblico

Un annuncio indimenticabile che la lega ai 70 anni della tv e ai 100 della radio?

Quello che farò tra poco al Radiocorriere Tv su queste date importantissime (disponibile anche sui social del nostro giornale). Davvero un’emozione. Nella mia vita ho fatto sempre annunci, anche a Natale e a Capodanno. Alla mezzanotte del 31 dicembre era bello condividere le lenticchie che portava uno dei tecnici o lo spumantino che ci dava la Rai per fare il brindisi e farci gli auguri.  Sono stati momenti belli, perché ho amato molto il mio lavoro.

Nel 1981 un sondaggio la incoronò “La più amata delle annunciatrici”. Come accolse quel risultato?

Con emozione e soddisfazione. Il sondaggio della Doxa per la trasmissione “Flash” condotta da Mike Bongiorno su Rai 1 mi attribuì un gradimento del 40 per cento. Risultato confermato qualche anno più tardi, nel 1986, dal sondaggio per la trasmissione “Pentatlon” di Mike Bongiorno su Canale 5. In quel caso venni definita “La più amata tra le annunciatrici della Rai e delle reti Fininvest”. Fu pazzesco, io fui contentissima. Poi, nel 1991, su Rai 1, Pippo Baudo, condusse la trasmissione “1 su 100” dove si cercavano i personaggi più amati dello spettacolo. All’ultima puntata, mi trovai tra i primi dieci nomi, unica donna insieme a Loretta Goggi. Questo mi lusingò, mi fece un immenso piacere perché era la dimostrazione del grande affetto che mi è sempre arrivato dal pubblico.

Lei ha amato anche tanto la radio…

Ricordo che mi affidarono il registratore portatile della Rai: il “NAGRA 3 ” e mi mandarono a fare interviste per vari programmi, riuscii a intervistare personaggi come Sammy Davis Jr., Gilbert Becaud, e Tony Curtis. Inoltre, mi chiesero di presentare in diretta da via Asiago, la trasmissione radio delle 6 del mattino.  Arrivavano lettere da parte del pubblico, in quantità industriale. Oggi sarebbero stati messaggi social ed e-mail. A scrivere erano le persone che si svegliavano molto presto per andare a lavorare, ed erano tantissime. Poi mi proposero, sempre per la radio, di condurre la trasmissione “Salve Ragazzi”. Si trattava di raggiungere le sedi militari dell’Aereonautica o della Marina o ancora degli alpini in cui i ragazzi svolgevano il loro servizio militare, in quegli anni obbligatorio. Sono stata a bordo di un incrociatore lanciamissili e di un sommergibile. Per salire a bordo degli aerei mi dissero che avrei dovuto superare una visita all’istituto di medicina legale. Lo feci e risultai idonea. Da quel momento riuscii a fare interviste sul Grumman Albatross (aereo anfibio), su di un elicottero, ma soprattutto su un Fiat G 91 T dell’Aeronautica militare dove ho potuto condividere “cabrate” ma anche un “looping”. Per questa occasione, nella base di Pratica di Mare, mi hanno dato la tuta “anti G” del Generale Remondino appena andato in pensione. Credo di essere stata la prima donna che ha volato su un reattore militare. Quando scesi tutti pensarono che fossi distrutta, invece ero pallida ma contenta. Era un fare radio dinamico, reale, anche coraggioso.

Nel 1972 lei fece direttamente il provino per lavorare alla televisione a colori. Come visse quel cambiamento?

Con molta curiosità. Il mio lavoro era lo stesso della tv in bianco e nero. Tecnicamente ci dicevano di non mettere abiti bianchi, perché “il bianco spara”. L’ho vissuta come una cosa bella davvero.

Quale annuncio le ha suscitato le emozioni più forti?

 

L’emozione non è mai mancata.  Imparavo tutto a memoria, per cui se c’erano i famosi “riassunti delle puntate precedenti”, io mi preparavo studiando ogni episodio del teleromanzo e riuscivo, per così dire, a raccontare il tutto.  Una volta sentii un gran rumore nello studio accanto, dal quale stava andando in onda la collega Rosanna Vaudetti sull’altra rete, e pensai che fosse caduta. Non era successo nulla ma temetti di perdere il filo del discorso. Emozione o spavento come al solito, solo miei. Infatti, non se ne accorse nessuno. Le emozioni sono state forti anche in occasione dei programmi televisivi che ho condotto da Sanremo nel 1977 con Mike Bongiorno, a Sanremo 1978 dove ho aperto la serata da sola; per i programmi per ragazzi come “il Dirigibile ” sia con Tony Santagata che con Mal e “Buonasera con .. Tarzan-Superman-La famiglia Adams-e-Atlas Ufo Robot”. Poi ancora i dieci anni di “Sereno Variabile” condotta insieme a Osvaldo Bevilacqua. Per questa trasmissione ho intervistato perfino Silvester Stallone nel deserto israeliano dove girava “Rambo 3”.

Com’era il rapporto con le altre annunciatrici della Rai?

Buonissimo. Con Roberta Gusti è stato bellissimo, non avendo figli eravamo molto più libere e nonostante i turni riuscivamo a vederci fuori dal lavoro. Ma il rapporto era ottimo anche con Nicoletta Orsomando, Mariolina Cannuli, Gabriella Farinon e Rosanna Vaudetti con la quale ho anche lavorato negli ultimi anni nella trasmissione di Pier Luigi Diaco “Bella Mà” su Rai 2, per lo spazio “La posta del cuore”. Un’altra bellissima esperienza in Rai. Quale sarà la prossima?

Ci annuncia l’evento del 6 ottobre di Rai 100?

Signore e signori, su Rai 1, in diretta dal Palazzo dei Congressi di Roma, Carlo Conti presenta “Cento”, una grande celebrazione televisiva dei 100 anni del Servizio Pubblico radiotelevisivo.

 

 

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Lo Stato delle Cose

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Massimo Giletti riparte conduce il nuovo programma di Rai Cultura, in onda da lunedì 30 settembre in prima serata su Rai 3

Lo Stato delle Cose” racconta la complessità dello spazio e del tempo in cui viviamo, per dare ai telespettatori la possibilità di leggere la realtà da una diversa prospettiva, per fare il punto su “lo stato delle cose” per quello che è e non per quello che appare. Lo stile del programma è firmato da Massimo Giletti. I fatti, le questioni e le storie che sono al centro del dibattito pubblico verranno sempre affrontati con ospiti, linguaggi e temperature diverse, mettendo sempre in contatto l’alto e il basso, la destra e la sinistra, il centro e la periferia del mondo. Tra “le cose” del programma i “faccia a faccia” del giornalista con i nomi più prestigiosi della scena politica e della società italiana: domande dirette, per informare e capire. Non solo “faccia a faccia” ma anche “confronti”. Alcuni protagonisti della nostra contemporaneità saranno chiamati a “sfidarsi” sui temi più urgenti dell’attualità, partendo ciascuno dal proprio punto di vista daranno vita ad un vero e proprio “duello” tra idee diverse e contrapposte visioni del mondo. Lo spettacolo, la musica, il cinema, la letteratura saranno sempre presenti all’interno del programma: cantanti, attori, scrittori entreranno in contrappunto rispetto ai temi affrontati, giocando un ruolo colto e leggero. Non mancheranno i collegamenti in diretta dalle piazze italiane e i racconti immersivi del nostro Paese. La realtà, anche quella locale erroneamente percepita come minore, conquisterà il primo piano del programma. Le notizie e i fatti saranno raccontati attraverso il modello narrativo del reportage, che vedrà protagonisti i cittadini che denunciano, chiedono risposte, vogliono partecipare attivamente alla vita pubblica.

 

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CENTO anni della nostra storia

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Uno show da sfogliare come un grande libro, composto dai capitoli fondamentali della storia della radio e della televisione. Domenica 6 ottobre in prima serata su Rai 1 Carlo Conti accompagnerà in diretta la grande platea televisiva in un viaggio straordinario

 

Dall’intuizione di Guglielmo Marconi a Sanremo, dal grande varietà agli sceneggiati, dallo sport all’informazione, dalla cultura al digitale. In una scenografia realizzata al Palazzo dei Congressi all’EUR a Roma, Carlo Conti condurrà gli spettatori dentro la costellazione di volti, programmi, eventi e curiosità che continuano ancora oggi a illuminare lo straordinario cammino del Servizio Pubblico. Un racconto collettivo che coincide con l’emancipazione, i cambiamenti, l’evoluzione del Paese. A dare lustro allo show, ospiti musicali, comici, personaggi iconici come Pippo Baudo e Renzo Arbore, un corpo di ballo e una platea composti per la maggior parte da donne e uomini che lavorano dietro le quinte dell’azienda radiotelevisiva. Le celebrazioni televisive del centenario del Servizio Pubblico saranno precedute dall’evento che si svolgerà il 5 ottobre nella Capitale, che vedrà il Concerto esclusivo dell’Orchestra Sinfonica Nazionale della Rai e la proiezione in anteprima del docufilm “Nato il 6 ottobre” diretto da Pupi Avati, racconto popolare che fa perno sulla storia di una famiglia italiana. Un secolo raccontato attraverso la vita di Umberto, nato il 6 ottobre del 1924, in coincidenza con la prima trasmissione radiofonica italiana. In questo numero il RadiocorriereTv festeggia la Rai con una serie di interviste e articoli per rivivere insieme a Renzo Arbore, tra i più grandi innovatori della radio e del piccolo schermo, le emozioni del suo primo ingresso negli studi di via Asiago nel lontano 1955, e con Maria Giovanna Elmi, fatina della Tv, il racconto di una vita dedicata ai telespettatori, annuncio dopo annuncio. Parola quindi a Marco Carrara, giornalista Rai autore del volume celebrativo “Tanti Auguri”.

 

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STEFANO BUTTAFUOCO

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Un inno alla vita

Torna su Rai 3 “Il Cacciatore di Sogni”, il programma dedicato all’inclusione e all’unicità. Il giornalista e conduttore racconta le novità della quarta stagione, in onda da domenica 29 settembre alle 13.00 per sei settimane

 

Che cos’è “Il cacciatore di sogni”?

È un viaggio tra tutte quelle persone che sono riuscite a fare dei loro punti di debolezza dei punti di forza, attraverso la loro determinazione, il loro coraggio e che sono stati capaci di raggiungere i loro obiettivi, di vivere una vita sognata, dando un messaggio di grande positività e di grande forza a tutti quanti noi. Non solo quindi a chi ha a che fare con condizioni particolari o che vive condizioni simili alle loro, perché “Il Cacciatore di Sogni” è un programma che si rivolge a tutti.

Parte con la quarta edizione…

Un ringraziamento alla Direzione Approfondimento, al direttore  Paolo Corsini e a Marco Caputo che è il vice direttore, perché hanno voluto dare continuità a questo programma e sappiamo quanto sia importante questo.  Un motivo di felicità, di orgoglio e soprattutto mi fa piacere che la Rai abbia questa attenzione verso i temi sociali, di inclusione.

Quali le novità di questa stagione?

Abbiamo calibrato il racconto dei nostri protagonisti alla diversa collocazione oraria. Non è più una seconda serata, ma andiamo in onda la domenica alle ore 13.00. In particolare, abbiamo voluto soffermarci sulle storie di molti atleti paraolimpici e alle loro storie legate allo sport come leva di riscatto, come stimolo a rialzare la testa e a realizzare i propri sogni. In questa edizione diamo ancora più forza agli ospiti che arrivano dal mondo dello spettacolo e della televisione e che hanno una particolare sensibilità legata al mondo dell’inclusione. Il nostro obiettivo è anche quello di far scoprire al pubblico un lato nascosto di tanti personaggi molto noti che, magari poche volte, hanno avuto occasione di parlare di queste tematiche.

I sogni si possono realizzare anche a dispetto del destino?

Al di là della nostra condizione si realizzano solamente se noi veramente ci crediamo, ci applichiamo e ci sacrifichiamo per raggiungerli. Paradossalmente persone che partono qualche metro indietro rispetto ad altre, hanno una forza maggiore. Questo è il motivo per cui il programma, attraverso il racconto di storie di persone che hanno una condizione particolare, vuole far bene a tutti. Nel raggiungimento di un obiettivo, bisogna mettersi in discussione, lottare con noi stessi, abituarci al fallimento, al valore della sconfitta. Io non userò mai la parola disabilità perché è una parola che a me non piace. Questo è il programma dell’unicità che supera il concetto di disabilità e anche il concetto di diversità.

Cosa ti lasciano questi incontri?

“Il Cacciatore di Sogni” è un programma molto faticoso, prima di tutto dal punto di vista produttivo, perché giriamo in esterna e con un taglio molto cinematografico in quanto vogliamo creare delle suggestioni attraverso le immagini. Tutto questo, gli incontri, le interviste, le storie, mi lasciano interiormente una grossa carica. Sento anche una grossa responsabilità nel fare in modo che la bellezza di queste storie sia raccontata nella giusta maniera. Sono storie a cui ci si affeziona, che si vivono intensamente conoscendo il protagonista prima di andare sul set. Spesso si entra proprio in confidenza con il suo mondo. Spero di poter esprimere la forza delle loro storie nella maniera più giusta.

 

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MILLY CARLUCCI

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Lunga vita al ballo!

Dodici grandi protagonisti, la gara, la musica dal vivo della band di Paolo Belli, tutto rigorosamente in diretta. Da sabato 28 settembre in prima serata su Rai 1 il grande show delle emozioni

 

Milly, siamo a 19. Che edizione sarà?

Di leggerezza e divertimento. Mi sembra ci siano le premesse, il cast ha elementi di novità, a partire dai sei nuovi maestri. Prendere maestri nuovi significa cambiare un po’ anche la prospettiva di ballo, e noi viviamo di ballo. Credo che sarà un’edizione di grande rinnovamento.

Cosa significa fare un programma che vive nella contemporaneità?

Significa che con i tuoi personaggi non vivi solo di ricordo del passato, di grande gloria, di rispetto per quello che hanno creato nel corso della loro bellissima carriera, ma devi immergerti nell’oggi, nelle tematiche contemporanee. Quest’anno lo facciamo attraverso due personaggi giovanissimi, che sono Tommaso Marini e Anna Lou Castoldi, che sia per la loro età che per il loro aspetto rappresentano la contemporaneità.

C’è una raccomandazione che non manca mai di fare al suo cast?

Ogni anno la storia è differente perché sono diversi i personaggi. Di base più loro sono sinceri, autentici, capaci di ascoltarsi, di lasciarsi andare, e più tutto viene fuori bene. Naturalmente si devono allenare, ma anche in questo raccomando attenzione perché non vogliamo “romperli” precocemente. Certo, l’entusiasmo è meraviglioso, ma ci vuole cautela.

Cosa porta i suoi concorrenti a lasciarsi andare, a raccontarsi, a dire cose che hanno sempre taciuto?

Il fatto di raccontarsi non è nemmeno obbligatorio, un personaggio può fare tutta l’edizione senza parlare di sé, pensando solamente a fare una buona performance atletica. Ma sappiamo al tempo stesso che ballare ti mette in contatto con il tuo io più profondo, e che difficilmente riesci a fare bene se non racconti anche le tue emozioni, la tua vita. Noi facciamo puntate in cui chiediamo ai protagonisti di raccontare in coreografia un momento importante della propria vita, che non deve essere per forza un momento segreto, e questo serve a metterli in contatto con il pubblico. Le cose che succedono ai nostri personaggi non sono di un mondo alieno, ma della vita normale, che possono essere accadute a ognuno di noi.

Su quali elementi si basa nel costruire le coppie?

Intanto una coppia di ballo deve essere giusta per età e per aspetto, per estetica. Deve avere elementi armonici da guardare. Poi ci sono elementi di affinità caratteriale: se una persona ha un atteggiamento molto competitivo, allora va messa insieme a un maestro molto competitivo, se ha un atteggiamento artistico, va messa con un maestro che possa capire questa sua voglia di esprimersi. I componenti di una coppia passano talmente tanto tempo insieme che non possono essersi antipatici a pelle. Questo lo dobbiamo evitare.

Qual è la sfida più grande vinta in queste 19 stagioni?

Di essere arrivati alla diciannovesima edizione. Chi poteva dirlo? Non solo è una grande sfida, ma una scommessa su cui nessuno può mettere le mani sul fuoco. Ci lavori, ci speri, ma poi chissà cosa succederà. Invece è capitato.

La sua è una carriera importante, qual è il momento che porta con sé con più affetto?

Sicuramente la partenza, che è sempre una sfida. Chi può dire che qualcuno ti vedrà e ti sceglierà? E poi, la cosa con la quale partirai funzionerà davvero? Ti farà notare nel grande clamore di voci e di tante persone che ci provano? Ho avuto la fortuna di partire con Renzo Arbore (“L’altra domenica”) e di continuare con dei grandi protagonisti. Erano una televisione e un mondo completamente diversi. Oggi è molto più difficile per i ragazzi perché apparentemente le occasioni di visibilità sono enormi, pensiamo ai social, ma non è detto che questa massa di persone che fanno qualcosa venga notata, non è detto che poi ci sia una carriera e che questa duri nel tempo. È più difficile di quando abbiamo cominciato noi che oggi facciamo le prime serate.

Tanto successo, ma c’è un sogno che deve ancora realizzare?

Tantissimi sogni e tantissimi progetti nel cassetto. Siamo in marcia, sempre…

 Tra i politici, chi le piacerebbe mettere in pista?

Mi piacerebbe tantissimo Michelle Obama, che non è una politica ma è moglie di un grandissimo presidente degli Stati Uniti d’America. Credo che con le sue vivacità, curiosità e intelligenza, sarebbe una strepitosa ballerina per una notte.

Qual è l’augurio che si sente di fare a se stessa e a “Ballando” alla vigilia del debutto?

Dico lunga vita al ballo! Speriamo che continui a interessare il pubblico, una speranza non impossibile visto che ballare è una delle cose più istintive dell’uomo. A partire da quello primitivo che si agitava intorno al fuoco al ritmo di un legno sbattuto contro un altro legno. Dalle caverne a oggi siamo ancora qui che balliamo.

Il fuoco che accendete il sabato sera su Rai 1…

È il nostro fuocherello (sorride).

 

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LINO GUANCIALE

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Dylan (e me)

«È un iper-razionalista che ha accettato l’impossibile e che ama immergercisi con spirito analitico» dice l’attore, protagonista il 30 settembre del podcast live “Dylan Dog alla Radio – Voci dall’Incubo” in occasione del Prix Italia di Torino. Un progetto ideato e scritto da Armando Traverso, dedicato al personaggio nato nel 1986 dalla mente di Tiziano Sclavi e realizzato in collaborazione con Rai Radio, Rai Play Sound e Sergio Bonelli Editore. E i festeggiamenti della Radio proseguono con l’uscita, in allegato a Dylan Dog numero 457, di uno speciale albetto da collezione intitolato proprio: “Voci dall’Incubo”

 

Ci racconta il suo primo incontro con Dylan Dog?

Era il 1987, il debutto della serie fumettistica era avvenuto da poco, sul finire dell’anno precedente. Mi trovavo a un campo dei lupetti, sono stato scout per tanti anni, uno di noi si era portato dietro un numero di “Dylan Dog” intitolato “I conigli rosa uccidono” e per tutti fu una lettura folgorante. Nel nostro campo estivo quel fumetto divenne virale, passò di mano in mano, tutti lo volevamo leggere per conoscere questo personaggio di cui si parlava tantissimo. Noi bambini eravamo avidi, anche per un gusto trasgressivo, perché pensavamo fosse una cosa da adolescenti, da ragazzi. Per noi era preziosissima l’esperienza di trovarci quella cosa da grandi tra le mani. Io ero già un appassionato di fumetti e l’incontro con “Dylan” fu uno shock meraviglioso, “scompaginò tanti schemi della narrazione comic nel nostro Paese, anche in virtù della musica di cui è appassionato, dei riferimenti cinematografici che ci sono nel testo, delle figure che ci sono intorno a lui. È stato facile innamorarsene da subito.

Cosa ha pensato quando le hanno proposto il progetto di questo podcast live?

Mi sono illuminato. Segui un personaggio per tanti anni, fa parte della tua crescita, lo vedi con la fisionomia di un attore inarrivabile come Rupert Everett. Poi arrivi a essere grandicello e ti chiedono di fare Dylan Dog… tu gli dici di sì immediatamente.

Senza pensarci due volte…

Si tratta di mettersi nei panni di qualcuno che, in qualche modo, ha funzionato come una persona reale nella mia crescita.

Come si porta un fumetto alla radio?

È ovvio che se a un fumetto togli l’immagine, togli moltissimo, ma soprattutto nel caso di “Dylan Dog”, in cui il testo ha tanta importanza, e dove lo spessore letterario del personaggio è centrale, la radio dà la possibilità di evocazioni molto forti. Sta infatti nella voce di chi interpreta evocare immagini potenti, anche attraverso un buon lavoro con il microfono. Pur togliendo le immagini, la radio rischia di essere una compagna molto preziosa per un fumetto, perché ci si affida a una traduzione, attraverso la voce, che può portare un arricchimento fortissimo alla scrittura. La radio lavora con dei codici che sono in qualche modo prossimi a quelli del teatro, dove devi costruire tu, attraverso la tua interpretazione, l’immagine da consegnare agli spettatori. Questo, secondo me, apre spazi di costruzione per chi ascolterà e vedrà quella sera, molto belli. L’importante è portarsi addosso il più possibile tutto l’immaginario concreto non solo di Dylan Dog, ma di tutta la serie.

Virtualmente quella sera indosserà una camicia rossa, cosa l’ha aiutata a entrare in quel personaggio?

Sulla mise dello spettacolo vorrei avere un po’ di effetto sorpresa (sorride). Se volete davvero vedere se effettivamente avrò la divisa di ordinanza, e se indosserò una delle 150 camicie rosse di Dylan Dog, dovete per forza venire a vedere. Ad aiutarmi nella preparazione è la rilettura, cosa che mi dà grande entusiasmo, dei fumetti più vecchi, quelli a cui sono particolarmente affezionato: “Johnny Freak”, “Il lungo addio”, “I conigli rosa uccidono”. Riprenderli in mano mi fa tornare immediatamente ragazzo, in camera mia, quando li sfogliavo per la prima volta.

… Dylan dog è “investigatore dell’incubo”, che rapporto ha con il mistero?

Credo di avere un rapporto piuttosto prossimo a quello di Dylan. Non è che nessuno mi chiami e mi paghi per fare indagini su fantasmi, mostri o altre creature dell’incubo. Ma Dylan Dog è un iper-razionalista, che ha accettato l’impossibile e che ama immergersi, ma con spirito analitico, dentro l’impossibile. Utilizza gli strumenti della logica e della ragione per costruire un filo leggibile dentro la nebbia del mistero. Sono un iper-logico che accetta il fatto che ci sia tanto mondo anche al di là della nostra comprensione. Il suo approccio oggettivo lo rende fortissimo.

Al “Prix Italia” si festeggeranno i 100 anni della radio, che rapporto ha con questo medium?

Sono un grandissimo fruitore, la ascolto moltissimo e mi piace farla. Faccio tante letture per “Ad alta voce”, storico programma di Radio 3, e ancor più vorrei farne. Mettersi davanti a un microfono e costruire con la voce una relazione con qualcuno che non può vederti, dà uno spazio e una forza potenziale enorme al lavoro degli attori e delle attrici. Questo progetto di podcast live sa tanto di teatro e tantissimo di codice radiofonico, scricchiolii che diventano espressivi.

Dylan come inviterebbe il pubblico ad assistere al podcast?

Cosa state a fare a casa il 30 settembre! Giuda Ballerino, venite a vederci!

 

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Elena Radonicich

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L’incontro con l’altro

«Sappiamo bene che il pregiudizio si ciba dell’ignoranza, con questa serie cerchiamo di accendere un lumino, smontando cliché che hanno radici profonde e sono duri a morire» racconta l’attrice che in “Brennero” veste i panni della Pm Eva Kofler, il lunedì in prima serata su Rai 1

 

Esplorate luoghi affascinanti, cosa raccontano dal punto di vista umano?

L’ambientazione, il luogo in cui tutto accade è fondamentale, rappresenta un altro personaggio con cui abbiamo a che fare. Abbiamo girato a Bolzano e, come sappiamo, nell’Alto Adige esistono due culture differenti che convivono, con alle spalle una storia importante. Faccio riferimento all’annessione dell’Alto Adige all’Italia che ha influenzato, in maniera determinante, quella zona, causando in passato diversi episodi di violenza. Tutto questo ha creato un ottimo humus per il racconto di “Brennero” che, sfruttando il giallo, mette in scena una storia di pregiudizi – e del loro continuo ribaltamento -, di connessione e di lotta fra due mondi. Solo attraverso la conoscenza possiamo smontare un pregiudizio, e noi cerchiamo di muoverci su questo terreno.

Dall’incontro – scontro con Paolo Costa, cosa scaturisce?

Eva è un sostituto procuratore di lingua tedesca, ha alle spalle una famiglia benestante, degli studi solidi, in qualche modo è instradata in un percorso lineare, per certi versi anche rassicurante. Ha quella che si potrebbe definire una vita “semplice”, apparentemente ordinata e impeccabile. Il suo contraltare, nella personalità, nel modo di agire e di lavorare è Paolo, il personaggio interpretato da Matteo Martari, un ispettore in congedo per questioni personali molto dolorose, che si innestano con la nostra storia. Eva e Paolo rappresentano i poli del nostro racconto, mettono in luce i luoghi comuni delle due culture, ma sono spinti da un impulso, quello della conoscenza dell’altro, un istinto che li porterà a collaborare nella caccia al Mostro di Bolzano, una questione personale per entrambi molto forte, pur avendo radici diverse. Per Eva questo sarà l’inizio di un importante percorso di autodeterminazione.

A un certo punto nel racconto si brinda alle ossessioni…

Per il mio personaggio l’ossessione è una corda che la costringe a uscire dal proprio guscio, il luogo nel quale finalmente il suo istinto prende forma e si libera da tutta una serie di sovrastrutture, di zavorre che aveva addosso. Nel caso di Eva assume un valore positivo perché, come spesso accade quando qualcosa prende piede in maniera determinante nella tua mente, sprona una persona ad andare al di là delle nostre stesse aspettative, ci spinge un po’ più lontano da noi stessi. Io, per esempio, sono un’ossessiva e difendo chi lo è (ride). Naturalmente, come tutto nella vita, esiste un confine che, se superato, potrebbe rivelarsi pericoloso, però è sempre un limite che conviene esplorare, soprattutto nel lavoro, nelle ossessioni “intellettuali”. Sono sfide che potrebbero rivelare nuove opportunità, ed Eva, per esempio, ne ha veramente bisogno.

Qual è stata la sua sfida personale e professionale?

Tutto potenzialmente può essere vissuto come una sfida, nella vita come nel lavoro. Ho accettato di prendermi carico di questo personaggio, di portarlo lungo tutto questo percorso con grande “responsabilità”, un ruolo arrivato in un momento in cui forse non mi aspettavo che arrivasse più. Mi sono sentita immediatamente pronta. Ho vissuto questa esperienza come un privilegio, una sfida personale nella quale era necessario capire come gestire tutte le energie. Si va fuori casa per tanti mesi e devi essere in grado di far fronte a situazioni che si inanellano con il nostro privato, e da questo punto di vista, fortunatamente, posso dire che è una sfida vinta. Sul piano professionale ho cercato di mantenere, durante tutto questo lungo periodo di set, una concentrazione salda, di costruire un personaggio fedele a se stesso, coerente, ma aperto al cambiamento.

La serie, per lei, avrà successo se…

Io spero che “Brennero” riesca ad accendere un faro su una realtà ancora troppo poco conosciuta, io stessa, che non vengo da quelle parti, avevo una conoscenza molto limitata, eppure l’Altro Adige è una parte del nostro Paese, oggi fortunatamente meno in tensione, che ha conosciuto un processo di integrazione molto travagliato, che ha richiesto molti sacrifici, anche in termini di vite. Ancora oggi la convivenza tra le due diverse culture funziona solo se tutte le parti sono disposte a compiere un “sacrificio”, a conoscersi nel profondo. Sappiamo bene che il pregiudizio si ciba dell’ignoranza, con questa serie cerchiamo di accendere un lumino, smontando cliché che hanno radici profonde e sono duri a morire. E questo lo raccontiamo bene nella storia, nel tentativo di conoscersi, di stabilire un contatto, appena una delle due parti delude, si ritorna alle accuse.

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