MIA CERAN

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Sono una fan della tv

Un’addicted delle notizie a “Tv Talk”: passaggio di testimone alla conduzione. Dopo diciannove edizioni Massimo Bernardini lascia il timone nelle mani della giornalista. Da sabato 28 settembre alle 15.00 su Rai 3

 

Quella di “Tv Talk” è un’eredità importante. Come ti stai preparando a questa nuova avventura?

Studiando tanto il prodotto creato dalle persone che ci lavorano da sempre. Una grande famiglia lavorativa con la quale condivido riunioni quotidiane, momenti di confronto. Mi sembra bellissimo che il mio compito per casa sia quello di guardare tanta televisione (sorride), cosa che, da fan del mezzo, mi rende molto felice.

Che caratteristiche pensi debba avere il conduttore di questo programma?

Credo che un buon conduttore di “Tv Talk” debba mettersi a disposizione, saper raccontare bene il mezzo, il dietro le quinte, così come sapere invitare le persone giuste. Importante è anche trovare la critica giusta con il tono giusto.

Quali sono le novità dell’edizione che sta per partire?

Ve ne anticipo una. Al panel di analisti, giovani esperti della televisione con occhio critico e sagace, abbiamo deciso di fare una piccola aggiunta, per cui in ogni puntata avremo con noi in studio una persona che rappresenti una delle categorie Auditel. La sceglieremo tra le diverse fasce d’età, estrazioni, regioni d’Italia. Ci è sembrata una bella idea, suggerita dal direttore del Daytime Angelo Mellone, per rappresentare un’altra fetta del Paese. Il suo sarà un commento da spettatore rappresentativo del campione.

Hai sentito Massimo Bernardini?

Lo sento con regolarità. Pur chiarendomi di voler stare lontano per almeno un anno dal mezzo televisivo, mi ha concesso la possibilità di chiamarlo per confrontarmi, per chiedergli consiglio. Io l’ho fatto e lo faccio (sorride). In eredità Massimo mi ha lasciato anche un pezzo di famiglia professionale, e questo è un bel modo di concludere un’esperienza professionale, perché lo fai ma non del tutto.

Come sta la tv oggi e cosa deve fare per essere forte domani?

Deve pensarsi declinata in molte nuove forme. Deve pensare al fatto che le nuove generazioni la guardano con un altro occhio, non sono molto spesso fedeli all’appuntamento, ma recuperano in modo diverso. La televisione deve continuare a essere un racconto del Paese ma declinato in modo più agile, deve pensare a generare un dibattito, a non far morire il tutto nel momento in cui si spegne lo schermo. Un programma, per essere vincente, deve riuscire ad attirare l’interesse dei più giovani e di tutti quelli che vivono il “secondo schermo”.

Che spettatrice sei? Che cosa ti diverte?

Per formazione ho un grande debole per le notizie, a partire dal telegiornale, prodotto di cui sono cultrice, dai canali all news ai Tg delle reti generaliste. Guardo i talk, sono un po’ “addicted”, non farò nomi ma guardo anche quelli brutti (sorride). Mi diverto a vedere i contenitori, anche perché ci ho lavorato, amo un po’ meno la cronaca nera. La serialità mi appassiona, e poi di recente ho scoperto nuove cose che non pensavo fossero nel mio radar. Un esempio, quest’estate sono caduta dentro “Temptation Island”, che non avevo mai visto. L’ho fatto per professione e ho capito gli abilissimi trucchi che creano un racconto accattivante. Il segreto del successo è nella scrittura, nella narrazione.

Da giornalista, come è cambiato nel tempo il tuo modo di informarti, di accedere all’informazione?

La prima cosa che faccio alla mattina è leggere i giornali, direttamente dal tablet. Li divoro tra un bambino da portare a scuola e l’altro da accudire, tra il primo e il secondo caffè. Entro pranzo li leggo tutti. Verso sera do più spazio ai Tg. Gran parte delle informazioni, soprattutto sui fatti internazionali, le ottengo dai podcast, ascolto il “Daily” del New York Times come il “Global News Podcast” della BBC, mi sono anche serviti per capire come fare il mio. È un tema di nuova fruizione, di funzionalità. Mi sposto per Milano in bicicletta e li ascolto con una cuffietta sola, l’altra per sicurezza la lascio libera. C’è costantemente un podcast nelle mie cuffie. In questa vita abbiamo tutti l’ossessione di ottimizzare, di allungare le nostre giornate dilatando il tempo. Per me il podcast è diventato il grande strumento per ascoltare, per informarmi. Ci sono prodotti bellissimi.

Come ti difendi dalle fake news?

Con lo studio. Cerco di trovare almeno un paio, se non tre, fonti attendibili su ogni cosa. Non salto sulle notizie immediatamente, non le condivido rapidamente dentro al mio podcast. Mi rendo conto che la velocità del racconto, essere i primi a rilanciare una cosa, ti fa guadagnare follower, ma per me è un rischio reputazionale troppo alto. Meglio saltare un giro di giostra piuttosto che informare qualcuno senza essere stati in grado di fare i controlli necessari.

Il tuo primo ricordo televisivo?

I mondiali di calcio del 2006. Ero una stagista neanche ventenne alla CNN di Roma. Eravamo dentro alla camionetta che trasmetteva dal Circo Massimo la reazione dei tifosi italiani ai gol che portarono l’Italia a vincere la Coppa del mondo. Stavo cercando di concentrarmi al massimo perché gestivo in cuffia il segnale con Atlanta e sapevo di avere una responsabilità importante. A un certo punto sentii la camionetta sollevarsi, diventare un’astronave. Provai una fortissima emozione, la sensazione di trovarsi dentro la notizia, in un posto in cui le cose accadono. Fu così anche negli anni successivi, quando lavorai da inviata. C’erano la partecipazione personale nella gioia di essere testimone di un certo momento, e il fatto che quello stesse diventando il mio lavoro.

Il ricordo da spettatrice?

Sono figlia di una giornalista televisiva e la tv in casa è sempre stata accesa. Nel 1989 vivevamo a Belgrado, dove mia madre lavorava. Seppur bambina ricordo quando il leader serbo Slobodan Milošević cominciò ad arringare la folla e iniziò a trovare quel consenso che avrebbe portato alla guerra dei Balcani. Mia madre capiva cosa significasse, a livello giornalistico e per la sua famiglia. Negli anni successivi lasciammo la Serbia per trasferirci negli USA, ma ricordo lo schermo sempre acceso in casa raccontare la guerra nei Balcani.

La Rai festeggia due compleanni importanti, i 100 anni della radio e i 70 della tv. Il tuo augurio al Servizio Pubblico radiotelevisivo…

Auguro di riuscire a mantenere la sua posizione centrale nella vita delle persone. Uno strumento che tenga compagnia, che informi, che faccia anche un pezzo della cultura di questo Paese. Quando vedo “Techetecheté”, programma di narrazione storica, penso anche a che cosa vedremo del nostro oggi tra 20, 30 anni. Mi chiedo cosa sarà a raccontare quello che siamo stati.

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I magnifici 11 di Carlo

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Dal 20 settembre il grande show del venerdì sera di Rai 1. New entry in giuria Alessia Marcuzzi, al fianco di Giorgio Panariello e Cristiano Malgioglio

Ritorna uno degli appuntamenti televisivi più seguiti da pubblico e critica. Da venerdì 20 settembre otto puntate all’insegna della musica, del divertimento e delle emozioni, per uno show entrato di diritto nella storia della televisione italiana. Grande attesa per il cast 2024, che canterà dal vivo sulle basi e sugli arrangiamenti realizzati dal maestro Pinuccio Pirazzoli. Tutti i protagonisti avranno un grande obiettivo: imitare in tutto e per tutto i big musicali della scena nazionale e internazionale che dovranno interpretare. Nell’arco del loro percorso gli artisti saranno seguiti dai “vocal coach” Maria Grazia Fontana, Dada Loi, Matteo Becucci e Antonio Mezzancella e dalla “actor coach” Emanuela Aureli. Sul ponte di comando Carlo Conti. Grande novità in Giuria: torneranno il brillante e pungente Giorgio Panariello e lo scintillante Cristiano Malgioglio.  New entry sarà invece Alessia Marcuzzi. Nel ruolo del “quarto giudice” personaggi illustri del mondo dello spettacolo; nella prima puntata, Stefano De Martino.

 

Il cast

Simone Annicchiarico

Massimo Bagnato

Thomas Bocchimpani

Feysal Bonciani

Roberto Ciufoli

Carmen Di Pietro

Kelly Joyce

Justine Mattera

Giulia Penna

Amelia Villano

Verdiana Zangaro

 

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La tv nel pozzo

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Il documentario diretto da Andrea Porporati racconta quello che i media costruirono attorno alla tragedia del piccolo Alfredino Rampi, un bambino di 6 anni caduto in un pozzo artesiano a Vermicino il 10 giugno 1981. Un evento che non ebbe un lieto fine raccontato in diretta tv a reti unificate, inseguito per tre giorni nel suo dramma così personale e umano… Fu la cronaca di una morte in diretta. L’inizio di quella che oggi chiamiamo “la tv del dolore”. In onda sabato 21 settembre alle 21.20 su Rai 3

 

La foto di un bambino che sorride, con una maglietta a righe. All’inizio è solo una istantanea di famiglia conservata su di un mobile nel soggiorno di una casa di Roma. Quella stessa foto finisce sulla prima pagina di un giornale, poi di tutti i giornali. Riempie lo schermo alle spalle dei conduttori dei Tg nazionali. Quarant’anni dopo la ritroviamo su una lapide, imbrattata da una svastica. Oggi lo stesso bambino della foto, con la maglietta a righe sorride ai passanti dalla facciata di un palazzo alto venti metri. È un murales realizzato nel quartiere romano della Garbatella. Il bambino nella foto è Alfredo Rampi ma questo documentario non vuole raccontare la cronaca della sua storia, ma piuttosto chi l’ha raccontata. Vuole raccontare i media, che hanno fatto loro la storia di Alfredo Rampi e che l’hanno elaborato, e ne sono stati elaborati, distaccandola dal fatto e dalle persone reali, trasformandola in un punto cardine della coscienza collettiva. Attraverso il materiale di repertorio della più lunga diretta della storia della tv italiana e attraverso il ricordo di chi all’epoca ne è stato spettatore, o protagonista: giornalisti, ex soccorritori, psicologi, semplici testimoni, tutti coinvolti dal trauma collettivo che ha scosso la coscienza del paese e di chi anche a distanza di anni ha elaborato lo choc di quei tre giorni di giugno scrivendo libri, canzoni, graphic novel o realizzando quel murale. Dal cantautore Francesco Bianconi dei Baustelle al romanziere Giuseppe Genna, al regista Marco Pontecorvo, allo scrittore e autore tv Massimo Gamba, ai giornalisti RAI che parteciparono alla diretta Rai, Piero Badaloni, Pierluigi Camilli, Andrea Melodia, come a quelli della carta stampata, Fabrizio Paladini e Massimo Lugli. Ad accompagnare il racconto, la voce di Fabrizio Gifuni.

 

Il commento del regista Andrea Porporati

 

Quello che un film documentario si propone è per definizione il racconto del reale. Ma in questo caso si vuole raccontare un tipo particolare di “realtà”, quella che i media hanno costruito attorno alla tragedia svoltasi nel 1981 a Vermicino, un sobborgo di Roma, trasformando la cronaca di un bambino caduto in un pozzo artesiano in una favola che si voleva a lieto fine e che invece è divenuta una tragedia senza sbocchi. Vuole raccontare la diretta tv a reti unificate che per ore e giorni ha inseguito la realtà di quel fatto così drammatico, personale, umano, facendola sfuggire tra le dita e incastrando un popolo di milioni di spettatori in un circolo vizioso di vita e di morte. Il linguaggio del documentario mescolerà le lingue delle infinite incarnazioni che i Media hanno prodotto a partire dalla storia di Vermicino, televisive innanzitutto, ma anche letterarie, musicali, poetiche: da romanzi a canzoni e serie tv, da graphic novel a murales dipinti sui palazzi di Roma. La scommessa è capovolgere il punto di vista, puntare l’obiettivo non sulla storia di “Alfredino”, ma sui Media che hanno preteso di raccontarla, usando le telecamere o l’inchiostro delle rotative come la bacchetta magica di un apprendista stregone e venendone travolti, assieme a milioni di spettatori. Umberto Eco in un suo saggio ha definito il racconto della tragedia di Vermicino come la fine della possibilità di raccontare la realtà. E ha sottolineato come questo allontanamento dalla verità, avvenisse proprio nel momento in cui, usando per la prima volta la diretta senza limiti di tempo e senza il condizionamento di una regia, di un montaggio, la televisione immaginava di “diventare” realtà, di incarnarla. E invece la strumentalizzava e ne veniva a sua volta strumentalizzata. Perché la realtà non ha linguaggio, non ha regole, semmai ha un destino. E non può che travolgere o fare impazzire chi cerca di intrappolarla, domarla, costringerla nello spazio di uno schermo.

 

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Oltre l’ossessione

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«Abbiamo girato in luoghi incantevoli, alle spalle delle Dolomiti, le montagne più belle al mondo capaci di regalare emozioni uniche, difficili da spiegare a parole» racconta il protagonista che nella serie “Brennero” (da lunedì 16 settembre su Rai 1) interpreta l’ispettore Paolo Costa

 

Cosa l’ha portata a scegliere “Brennero”?

È una storia atipica, ambientata in una parte d’Italia poco esplorata nel cinema o nelle serie tv, un luogo caratterizzato da questioni sociali poco conosciute dalla maggior parte delle persone, ancora aperte. Nel nostro progetto non sono il tema portante, ma diventano fondamentali per inquadrare al meglio il contesto. C’è poi la questione del bilinguismo molto identitaria di questa terra, basti pensare che per accedere a una qualsiasi carica pubblica si deve sostenere un esame di tedesco. A tutto questo si aggiunge il fascino che ho immediatamente colto del mio personaggio, Paolo Costa, ben lontano dai ruoli interpretati fino a questo momento. La sfida mi sembrava aperta.

Proviamo allora presentare Paolo…

È un ottimo ispettore di polizia dal carattere abbastanza complicato, reso ancora più “difficile” in seguito a fatti che hanno drammaticamente segnato il suo passato. Lo vediamo all’inizio rinchiuso nella sua casa, una sorta di tugurio, tormentato da qualcosa che tre anni prima ha drasticamente cambiato la sua esistenza. È però un temerario, un “passionale” nel lavoro che vive come una ossessione. Il “Mostro di Bolzano”, quel serial killer che per lo più miete vittime di lingua tedesca, impegna la sua mente in maniera totalizzante, non avrà pace fino al momento della sua cattura.

A che prezzo? Quando un’ossessione diventa stimolo, e quando al contrario ti porta negli abissi?

Tra queste due pulsioni esiste una linea di confine molto sottile… è vero che una grande passione potrebbe sfociare in un’ossessione e non per questo avere un valore negativo. Quando si dedica la propria vita interamente a qualcosa vengono messi alla luce aspetti più che positivi, io sono affascinata nel vedere qualcuno che ha una missione, una causa da sposare totalmente. Al contrario, quando questo atteggiamento ci trascina in un baratro, la riflessione è ben altra. La linea di demarcazione, pulsione positiva o disagio, è dettata dalla qualità del proprio lavoro e da quali obiettivi riesci a centrare.

Nella vita di Paolo, a un certo punto, arriva Eva. Cosa rappresenta questo incontro?

L’incontro e l’inizio del rapporto con Eva Kofler – la PM interpretata in maniera egregia da Elena Radonicich – è piuttosto turbolento, minato dal pregiudizio reciproco. È la figlia del suo ex capo, Gerhard Kofler, ex procuratore capo di Bolzano, che in qualche modo Paolo ritiene responsabile della morte della sua compagna (tre anni prima, il procuratore non gli aveva fornito i rinforzi necessari, lasciando Paolo e Giovanna da soli durante l’inseguimento del killer, finito poi tragicamente). Paolo ed Eva sono agli antipodi, hanno un opposto approccio al lavoro, lei assolutamente rispettosa, mentale, disciplinata, lui istintivo e determinato, poco incline alle regole e al rispetto degli ordini. Ma, come spesso accade, i poli opposti tendono ad attrarsi… Vedremo se questo principio della fisica si applica bene anche ai due protagonisti.

Cosa l’ha affascinata della mente di Paolo Costa?

È un uomo che non ha mollato, nonostante tutto, e questo suscita in me, come attore e come essere umano, un grande interesse.  La vita lo ha messo davanti a prove importanti, ma sotto conserva ancora la spinta ad andare avanti, a perseverare verso obiettivo che non è neanche certo.

Una serie ambientata in una realtà unica, un luogo che racconta tutta la ricchezza culturale e la complessità del nostro Paese. Come siete stati accolti?

Abbiamo cercato di raccontare questi luoghi al meglio delle nostre possibilità, tutti hanno avuto nei nostri confronti un’attenzione positiva, a partire dalla Regione che ha sostenuto la produzione anche dal punto di vista pratico nella gestione del set. C’è stata poi grande partecipazione da parte della gente, a Bolzano, dove abbiamo fatto base, e nelle zone limitrofe. Abbiamo ricevuto ovunque un grande affetto.

Cosa racconta questo territorio di noi?

Noi italiani, da Nord a Sud, siamo uguali e, allo stesso tempo diversi, tanto che ogni regione racconta una parte del Paese. Il Trentino-Alto Adige conserva ancora un sapore montano, anche un po’ austero secondo me, che difficilmente si può trovare altrove. Ogni luogo, per essere conosciuto davvero, andrebbe vissuto da dentro, quello che posso certamente ribadire è che abbiamo girato in luoghi incantevoli, alle spalle delle Dolomiti, le montagne più belle al mondo capaci di regalare emozioni uniche, difficili da spiegare a parole.

Ancora una volta il lavoro la porta nelle tue montagne, come ha vissuto questa volta il legame con queste?

Sempre bene. Le racconto un aneddoto successo mentre stavo girando la serie. Dopo vari tentativi, sono riuscito a convincere alcuni del cast a vedere l’alba in vetta. Siamo partiti nel cuore della notte e, ovviamente, non tutti erano proprio dalla mia parte (ride), ma dopo tre ore e mezza di cammino sulla neve, al buio, dopo aver “abusato” della loro gentilezza, arrivati alla meta, con il sole che illuminava tutta quella bellezza dall’alto, la fatica è sparita. Per me, poggiare lo sguardo su quello spettacolo, è sempre un’occasione riflessiva, un modo per aprirsi al momento e lasciarsi andare. È la possibilità di avere pensieri liberi, senza aspettative… Noi siamo saliti in vetta per vedere l’alba, ed è successo, ma sarebbe potuto anche capitare il contrario, avremmo potuto trovare la nebbia. L’ho fatto per niente? La mia risposta è no, perché conta quello che ti ha spinto a partite, il viaggio che hai fatto. La montagna è una sfida, anche mentale…

Cosa significa per lei essere un artista?

I Greci dicevano “trova il tuo demone”, la ragione per cui sei nato. Ecco, io penso che in tutti noi esista naturalmente uno spirito artistico, più o meno sviluppato, bisogna solo decidere se scommettere o no su questo, se avere il coraggio di iniziare e vedere cosa ritorna in termini di gratificazione. Se poi tutto questo riesce a diventare un mestiere, come nel mio caso, si aggiunge la componente “seria”, ben lontana dall’idea bohemienne che si ha sugli artisti in generale. È un lavoro serissimo al quale dedicare la propria vita.

 

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Tutto me stesso, con il sorriso

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In attesa del ritorno de “L’eredità”, il popolare conduttore tiene a battesimo il nuovo divertente game show di Rai 1, “Chi può batterci?” (sabato 21 settembre in prima serata). Una sfida che vedrà impegnati 101 concorrenti-spettatori e una squadra di personaggi dello spettacolo

 

Partiamo dalle regole, come si gioca a “Chi può batterci?”

Le regole sono semplici. Ci sono 101 concorrenti-spettatori che si scontrano con una squadra composta da cinque personaggi dello spettacolo e dal sottoscritto. Il gioco è diviso in sei manche, ciascuna delle quali prevede cinque domande. Chi sbaglia viene eliminato. Chi rimane si scontra con noi.

Ci presenta la squadra?

C’è Romina Power, amatissima, conosce tante cose e molte le ha anche vissute, ci sono Max Giusti, esplosivo, Diana Del Bufalo, imprevedibile e creativa, Pierpaolo Spollon, un ragazzo molto simpatico, Ivan Zazzaroni, competitivo dalla mentalità agonistica. E poi ci sono io, che abbasso un po’ la media (sorride). A dare gli argomenti e a fare le domande è Frank, una voce dall’alto.

Avete una tattica di gioco?

Un caos organizzato (sorride). Il rischio è quello di fare figuracce, nonostante le domande non siano nozionistiche, ma prevedano un ragionamento: si va per logica, per esclusione.

Ai tempi della scuola c’era una materia che non amava particolarmente?

La matematica, la fisica, la chimica, la tecnologia. Amavo e amo invece la statistica, che mi affascina perché si riferisce alla società. Nei giorni scorsi mi sono divertito a studiarla con mia figlia, che preparava l’esame per l’università. La statistica, così come l’economia, racconta la vita attraverso i numeri, i comportamenti, entrambe ci dicono come e dove sta andando il mondo.

Come vive le sfide Marco Liorni?

Cerco di dare sempre il meglio di me stesso. Non ho ansia, e se c’è cerco di superarla attraverso la preparazione. Al tempo stesso ho imparato negli anni che è certamente importante prepararsi, ma che è altrettanto utile vivere le esperienze con gioia, rimanendo se stessi. Stare bene consente di rendere di più quando arriva la domanda. Lo dicevo sempre alle squadre di “Reazione a catena”, e lo dico oggi ai concorrenti de “L’eredità”: concentratevi, ma divertitevi.

È competitivo?

Bisogna esserlo, altrimenti che sfida è?

A proposito di domande, tra poco più di un mese entrerà nuovamente nello studio de “L’eredità” (domenica 3 novembre), come vive questa attesa?

In questo momento sono in macchina, in tangenziale e sto andando all’audizione delle aspiranti “professoresse”. Quelle dello scorso anno sono state molto professionali e hanno aiutato a creare il clima di serenità che si respirava in studio. Insieme agli autori stiamo anche testando giochi nuovi che potrebbero essere introdotti nelle puntate della prossima stagione.

Sei mesi intensi di “Eredità”, con un ottimo riscontro di ascolti, cosa le ha lasciato la sua prima stagione?

Ogni esperienza che viviamo viene anche per cambiarci, per farci scoprire cose nuove. Non solo di noi stessi ma del rapporto con gli altri. Ciascuno di noi ha una certa idea di sé, ma in realtà, quello che siamo, è anche frutto del nostro relazionarci agli altri.  Questo vale ovviamente anche per “L’eredità”: sono entrato in un bellissimo gruppo di lavoro, ho avuto la fortuna di incontrare persone preparate e corrette. Si è innescato qualcosa tra noi, eravamo contenti di stare insieme, di ragionare. Un programma è di successo quando tutte le sue componenti funzionano bene, quando il clima è positivo. I concorrenti, al loro arrivo, si sentono coccolati, accolti, parola fondamentale quest’ultima, perché l’accoglienza sappiamo che non è solo esperienza, accettazione, ma molto di più.  Più accogli le esperienze e più queste ti lasciano qualcosa, è un modo non per allungare la vita, ma per “allargarla”. Con il passare del tempo, con la maturità, questo ti appare più chiaro. Carlo Rovelli, scienziato di meccanica quantistica e divulgatore ne “L’ordine del tempo”, dice che le esperienze le capiamo per davvero solo nella memoria. Nel momento in cui le viviamo, ne comprendiamo solo un decimo di ciò che sono.

Il pubblico le vuole bene…

Ci sono persone che si riconoscono in te e ti sentono amico. Chi fa televisione ha il dovere di rappresentare non solo se stesso, ma il più possibile interpretare un sentimento generale, un’intelligenza collettiva, e portarli in quell’ora, ora e mezza, di trasmissione.

La radio italiana compie 100 anni, la tv 70, cosa augura alla Rai in questo anno importante?

La Rai ha tanto valore dentro, basta sfogliare le pagine di RaiPlay per rendersi conto di quanto faccia il Servizio Pubblico e di quale sia la qualità. Auguro quindi alla Rai di essere compresa dal pubblico nel gigantesco lavoro che fa.

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Il paese, una realtà più vicina all’umanità

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“Lo Spaesato”, il nuovo show in prima serata su Rai 2 dal 16 settembre, racconta l’Italia attraverso la sua comicità, mosso dal desiderio di riassaporare la vita nei borghi italiani che nascondono genuinità e tradizione

Com’è stato girare nei paesi in piena estate?

E’ stato un po’ faticoso. Ma è stata una fatica bella, perché per me realizzare “Lo Spaesato” non è neanche un lavoro. Certamente abbiamo realizzato tutto quando le temperature superavano i 40° e questo ci ha fatto soffrire un pochino. Sarebbe stato meglio al mare o in barca. Ma in realtà abbiamo girato tantissimo materiale da poter realizzare il doppio delle cinque puntate previste.

Quindi ci sarà un seguito?

Io spero di rifare “Lo Spaesato”, ma non perché devo avere successo per me, perché ormai ho 60 anni e i miei soldi li ho guadagnati. Potevo starmene seduto dov’ero e fare quello famoso che firma autografi. Lo vorrei rifare perché è un programma che piace molto proprio perché è rischioso.

In paese si è più felici?

In città c’è troppo stress. Nei paesi le persone si incontrano nelle case dei vicini, mangiano le cose che hanno fatto loro, chiacchierano, si divertono. In città cosa facciamo di meglio? Facciamo le feste, indossiamo orologi preziosi e poi lo raccontiamo. Noi siamo lo stress, lo smog, le ambulanze e i parcheggi che non ci sono mai.

Però molte persone hanno timore di andare a vivere nei paesi…

Certo,  perché pensano che il paese sia noia e che non c’è niente. Invece ho visto che si vive facendo tantissime cose e che le persone sono comiche divertenti, forti e sincere.

Se fosse vissuto in paese sarebbe diverso?

Purtroppo io sono inquinato dalla città e sono spaesato come tutti.

Questa esperienza nei borghi l’ha rigenerata?

Mi sono riavvicinato alle cose che pensavo non ci fossero più. Uno pensa che l’Italia è Roma, Milano, Palermo, Napoli. Non è così. Dovevo andare ad Agropoli e mi chiedevo come fosse. Ho scoperto che è bellissimo viverci. Siamo andati a Sonnino, che sta a un’ora e mezza da Roma ed è un altro mondo, un altro linguaggio, c’è un altro modo di parlare, un dialetto comico. E le persone come si divertono! Sonnino poi è il paese di Altobelli che mi ha raccontato che quando non riusciva a fare gol a Milano, andava sotto un albero del suo paese e si concentrava. Quando tornava segnava. Gli mancava la sua terra.  Non è che voglio dire che tutti dobbiamo andare in paese, ma che  è una realtà molto più vicina all’umanità.

In alcune registrazioni ha portato anche sua figlia. Come ha vissuto questa esperienza?

Si è stancata pure lei, però si è ammazzata di risate. Poi sono subentrati gli impegni scolastici e non è più venuta. Si è divertita tantissimo vivendo qualcosa che non conosceva. Sembrava una bambolina che guardava un negozio. Questi ragazzi, chi ce li porta in paese? Noi li portiamo spesso nei posti più imbarazzanti, quando invece i paesi sono posti davvero bellissimi.

 

La gente come l’ha accolta?

Con grande calore. Tanti inviti a cena a casa loro. Che poi li ritrovi in quaranta in una casa, tutti ad aspettarti. Sono stato l’amico di queste persone. Spesso comici veri, tant’è che non ho dovuto recitare un ruolo, non ho avuto bisogno di fare battute. In teatro ho parlato io, in paese loro. A Cerenza mi hanno proclamato cittadino onorario e il sindaco mi ha ringraziato seicentomila volte perché diceva che avevo fatto capire quanto è bello quello che fanno e quello che vivono. Insomma, credo sia stata una esperienza unica per me.

 

Ha deciso di fare cose nuove, di continuare a sperimentare…

La gente ha bisogno di questo. E io sperimento da sempre. Non c’è nessun déjà vu a guardare questo programma, e questo è quello che mi interessa.

In conclusione, che viaggio è stato?

Lo stesso viaggio che può fare chiunque, basta salire in macchina e andare in paese a vedere la gente normale in un posto dove non c’è stress, dove c’è un’aria diversa, dove ci sono persone trasparenti, dove trovi le persone che ti dicono “sono stato a fare il mio vino, il mio mangiare, mi sono fatto la pasta da solo”. Dove trovi le persone che si accontentano di tanto e di poco, perché quel poco è tanto. Dove trovi le persone che si conoscono, che si amano, che sono unite, che si chiamano per nome. Sono stato in paesi di duemila anime e tutte queste anime, tutte, si conoscevano, erano unite. Dunque il tuo corridoio di casa non finisce alla porta, come succede qui in città, ma continua in tutto il paese. Davvero una scoperta e mi dispiace definirla tale. Dovrebbe essere una realtà conosciuta da tutti, no?

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Adriana, normale e straordinaria

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L’attrice toscana è la moglie dell’ispettore di polizia Kostas Charitos. Giovedì 19 settembre in prima serata su Rai 1 la seconda puntata di “Kostas”, la serie tratta dai romanzi di Petros Markaris con la regia di Milena Cocozza

 

Kostas e Adriana, la chimica tra i due protagonisti è quella giusta…

È stato facile perché c’è un rapporto di amicizia molto forte con Stefano (Fresi). La componente relazione sul set non è stata complessa da trattare,  altra cosa è stata invece la mia relazione con il personaggio di Adriana, che portava con sé una serie di interrogativi, poi risolti nel lavoro continuo fatto con la regista Milena Cocozza, sulla direzione nella quale volevo che il personaggio andasse. Non mi interessava rappresentare una donna dimessa, rassegnata, insoddisfatta nel senso lato del termine. C’è sì una insoddisfazione, ma che deriva dal desiderio di migliorarsi, di contribuire alla relazione, alla famiglia, sempre di più con i propri mezzi. Il suo è un desiderio di crescita personale e naturale, che si presenta a un certo punto della vita quando hai già realizzato delle cose che fanno parte dei tuoi desideri. E così ti chiedi: adesso cosa faccio per realizzarmi di più?  Qual è la chiave nella quale posso ulteriormente crescere?  Credo che siamo riusciti a disegnare una donna normale nella sua straordinarietà.

Chi è dunque Adriana?

È la tipica donna che ha cura delle persone che ha intorno e che lo fa anche attraverso il cibo, preoccupandosi ad esempio della salute di Kostas, visto che il marito, partecipando in maniera piena al proprio lavoro, compromette a tratti la propria salute.

Caterina ha vent’anni, Adriana il doppio della sua età. Come si affronta un ruolo materno quando la figlia è una ragazza adulta?

Nella stessa maniera in cui affronti qualunque età nella maternità. Adriana fa da madre un po’ a tutti: ai colleghi di lavoro, al fattorino, alla figlia Caterina, al fidanzato della figlia, è quel tipo di donna che esprime l’amore in forma di accudimento. E questa è semplicemente una delle sfaccettature del femminile.

Lunghi mesi sul set ad Atene. Come li ha vissuti?

Quando hai un immaginario che può essere quello da cartolina, o quello che hai studiato a scuola se hai fatto il liceo classico o quello del film “Il mio grosso grasso matrimonio greco”, hai un’idea che non corrisponde a quello con cui ti ritrovi di fronte: una normalissima città, con i suoi ritmi, nella quale siamo diventati un po’ greci anche noi, e questo è stato il bello. Siamo arrivati al punto di salire sul taxi e dire “buongiorno” e “buonasera” con un accento talmente giusto che il tassista si rivolgeva a noi in greco.

“KOSTAS”, LA SECONDA PUNTATA (19 SETTEMBRE)

Sceneggiatura di Michela Straniero, con la collaborazione di Valentina Alferj, tratta dal romanzo “Difesa a zona” di Petros Markaris

Un terribile mal di schiena annienta il commissario Charitos e Adriana, seppur preoccupata, non ne è affatto sorpresa: testa e corpo sono collegati! Nascondendosi dietro alla promessa di prenotare al più presto una visita dal dottore, Kostas fugge in commissariato, dove però si respira un’aria tesa: l’assassinio di Kostantinos Koustas, proprietario di aziende, locali notturni e squadre di calcio di serie C, è l’ennesima gatta da pelare. Se a questo si aggiunge il fatto che Adriana si è messa in testa di voler trovare un lavoro, è evidente che Kostas si vede attaccato su più fronti. Unica consolazione: Ghikas, nel vano tentativo di tranquillizzarlo, gli ha assegnato un nuovo agente, Nikos, che però entra subito in rotta di collisione con il vicecommissario Petros. Quando Kostas verrà costretto a fermarsi a causa di un infarto, saranno proprio Petros e Nikos a portare avanti l’indagine, incontrando qualche difficoltà. E a toglierli d’impaccio ci penserà Klio, la segretaria di Ghikas: la ragazza riesce a identificare lo sconosciuto emerso dal terreno a seguito del terremoto sull’isola. E la sorpresa è che il morto dell’isola è strettamente legato all’indagine sull’omicidio di Kostantinos Koustas.

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Il mio Sabato in diretta

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L’analisi e l’approfondimento delle notizie più rilevanti della settimana raccontate attraverso punti di vista diversi per restituire la complessità della realtà.  La conduttrice al RadiocorriereTv: «Come accade in ogni rotocalco che si rispetti, cercheremo di andare in profondità, all’origine della notizia». Da sabato 14 settembre alle 17.00 su Rai 1

 

C’è attesa per “Sabato in diretta”, come ti prepari al debutto?

Con tante riunioni con gli autori, con i colleghi. Lo faccio dividendomi con il lavoro al telegiornale e devo dire che non mi fermo un momento (sorride). Sono contenta perché, proprio come accade con il Tg, faremo tutto in diretta, a stretto contatto con i fatti. Non vedo l’ora che inizi questa nuova avventura.

Che narrazione sarà e quali sono i punti di contatto con “La Vita in Diretta”?

Veniamo come naturale conseguenza de “La Vita in Diretta”, ci occuperemo di cronaca, costume, gossip, sempre pronti ad aggiornare i telespettatori in tempo reale. E come accade in ogni rotocalco che si rispetti, cercheremo anche di andare in profondità, all’origine della notizia.

Come ci si difende dal rischio di una narrazione omologata e superficiale?

Garantendo una pluralità di visioni e di voci. Anche per questo avremo in studio numerosi ospiti “tecnici”, dal criminologo allo psicologo, al magistrato, che ci aiuteranno nella comprensione di ciò che accade. Puntiamo a una narrazione attenta e mai morbosa.

Al centro del programma anche le storie della gente comune…

Che sono quelle che amo raccontare, non fermandomi mai in superficie e sempre con rispetto. Da giornalista del Servizio Pubblico ritengo che questo sia fondamentale.

Quando consideri un’intervista ben riuscita?

Quando l’intervistato non ha paura di dire ciò che pensa e si crea un rapporto di fiducia con l’intervistatore.

Come si mette in gioco Emma D’Aquino?

Mi metto in gioco tutti i giorni nel mio lavoro, il più bello del mondo, che faccio da tanti anni e amo profondamente. Quando i direttori Gian Marco Chiocci (Tg1) e Angelo Mellone (Intrattenimento Day Time) mi hanno proposto questa opportunità, con la possibilità di mantenere la conduzione del Tg, ho accettato con entusiasmo.

Cosa ti ha insegnato, in tanti anni, la scuola del Tg1?

A non temere niente, ad affrontare l’imprevisto.

Che ricordo hai della tua prima conduzione?

La prima ufficiale, dopo numerose da sostituta, fu in occasione delle dimissioni di Papa Ratzinger… ricordo le scale di corsa, la sigla che parte alle 11.20 del mattino, quando ancora dovevo mettermi il microfono. Grazie ai colleghi del Tg1, al vaticanista Fabio Zavattaro, facemmo quasi due ore di diretta e andò bene. Il tutto nello sconcerto per ciò che stava accadendo, non si capiva come il Papa si potesse dimettere.

Ti emozioni ancora?

Sempre, ma grazie all’esperienza riesco a tenerla a bada (sorride). Condivido ciò che mi disse Piero Angela nel corso di una bellissima intervista al Tg, nella quale raccontò come ogni volta che sentiva il cicalino che nei nostri studi precede la partenza della diretta provasse una piccola emozione. Ecco, ogni volta che sento quel cicalino e si accende la scritta “on air” un pizzico d’emozione c’è. Questo significa che siamo vivi e che ci piace fare ciò che facciamo.

Cosa auguri a Emma?

Di continuare a lavorare divertendosi. Di imparare ancora, di crescere, e sempre con il sorriso.

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Informazione bene comune

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Un intreccio di Storia e storie, seguendo i fili della politica e dei poteri, le urgenze dei territori e delle persone e le difficoltà della loro vita quotidiana, le grandi sfide nazionali e mondiali attraverso il confronto con i protagonisti del dibattito pubblico italiano e internazionale. Marco Damilano ritorna il 9 settembre alle 20.35 su Rai 3, con la striscia d’approfondimento che nelle prime due stagioni ha ottenuto un consenso sempre crescente

Dieci minuti di approfondimento quotidiano a partire dal fatto o dal personaggio del giorno. Un racconto che, valorizzando l’esperienza delle due precedenti stagioni, dedicherà una particolare attenzione alle marginalità e a quei “mondi di confine” ignorati o sui quali raramente si accendono i riflettori. Reportage, inchieste, interviste in studio realizzate da Marco Damilano per proporre ogni sera una narrazione originale della realtà che il venerdì, nella versione “Il cavallo e la torre plus”, avrà una durata di 15 minuti, uno spazio in più per poter fare un punto ancora più approfondito su temi cari al programma anche uscendo fuori dal canonico studio di viale Mazzini 14.

Damilano, come si difende il Servizio Pubblico?

Prima di tutto credendoci, vedendo l’informazione come bene comune. Proprio come la sanità, la scuola, qualcosa che se non c’è, se manca, ne risente l’intero tessuto democratico. Fare una trasmissione quotidiana nello studio di Viale Mazzini, con il cavallo Francesco Messina alle spalle, è sempre un invito a essere coerenti in questo principio.

Stagione dopo stagione ci sono nuove sfide da affrontare…

Il primo anno si doveva inventare un linguaggio confrontandosi con la striscia, la brevità del programma. Era tutto completamente da costruire, da scrivere. Il secondo anno abbiamo fatto l’esperimento di uscire dallo studio, di andare a Crotone per parlare dei morti di Cutro. Abbiamo cominciato, senza troppo sbandierarlo, ad allungarci, ad avere anche una possibilità di uscire dalla durata del programma. In questa terza stagione dobbiamo consolidare questa vocazione, contando molto sul riconoscimento e l’apprezzamento del pubblico. Non è solo l’Auditel, ma è quello che riscontriamo quando giriamo. “Il Cavallo e la Torre” è un programma in cui molti si identificano, molto atteso, un appuntamento quotidiano all’ora di cena. Questo implica da parte nostra un grande rispetto, siamo forti di questo riconoscimento e dobbiamo consolidarlo.

Dieci minuti per entrare in un fatto e raccontarlo in modo non scontato. Da dove si comincia?

Da una cosa molto importante, la scelta. Anche nella nostra chiacchierata ci sarà qualcosa che sceglierete di tenere, qualcos’altro che butterete. Chi fa questo mestiere sa che deve fare delle scelte, a volte dolorose, altre facili. La scelta è anche qualcosa che ci differenzia da un flusso indistinto di voci, di facce, di opinioni, di notizie che non vengono spiegate. Noi dichiariamo allo spettatore che proporremo un determinato viaggio. La scelta è importante, è un progetto editoriale in sé.

Avete scelto di raccontare il Paese dal basso…

La prima puntata la realizzammo in un piccolo paese del Molise che si chiama Pescopennataro. Una scelta che alcuni considerarono bizzarra ma che invece era fondamentale. Partimmo da una piccola località che rappresentava tutti. A quell’ispirazione ci manteniamo fedeli anche oggi…

Un viaggio che non vede confini…

È necessario uscire dalla propria comfort zone, perché appena passi il confine trovi un’altra lingua straniera, un altro modo di vestire, di mangiare. E così devi cambiare punto di vista, angolo di racconto. Un’informazione che sta nel ripetitivo, anche quando si manifesta magari come anticonformista, si capovolge nell’opposto. Credo sia molto importante oltrepassare quel confine per cambiare anche chiave di racconto.

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Una di noi

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Le star dello spettacolo, i grandi fatti della nostra vita, una narrazione che raggiunge con forza da anni il cuore di milioni di spettatori. Il 15 settembre alle 14 si riaccendono i riflettori dello storico show di Rai 1, giunto quest’anno alla 49esima edizione. Nell’intervista al RadiocorriereTv l’amata conduttrice racconta il suo esordio in trasmissione e la profonda amicizia con Don Mazzi, e ricorda gli insegnamenti ricevuti dai suoi grandi maestri: «Da Corrado ho imparato l’umiltà, da Renzo l’essere me stessa. Pippo mi ha insegnato la professionalità, la puntualità, il rispetto per il lavoro»

 

Un viaggio, quello di “Domenica In” che dura da alcuni decenni, che tassello rappresenta per lei questa nuova stagione?

In cuor mio so che per me sarà l’ultima. Certo, continuo a dirlo ogni anno, poi alla fine mi convincono sempre (sorride). Anche per questa consapevolezza c’è una bella emozione, insieme alla voglia di fare qualche cambiamento, di sparigliare un po’ la nostra “Domenica In”. Al di là delle mie interviste ai grandi personaggi che rimangono, ho voglia di strizzare l’occhio all’attualità, alla cronaca, di incontrare donne che parlino della loro vita. Sarà una stagione un po’ diversa da tutte le altre.

Quali sono i presupposti che fanno sì che un’intervista funzioni?

Ascolto e sono curiosa, cercando di trovare empatia con chi mi siede davanti. Non ho nulla di scritto, di preparato, sono solo me stessa.

Nel suo salotto ritroveremo i suoi amici di sempre?

Devo ringraziarli tutti. Sono rapporti di amicizia, di stima, che ho saputo creare e che vanno avanti nel tempo. Tanti di loro vengono addirittura gratis.

Come si pone di fronte a un ospite un po’ ostico?

Ne ho trovati pochi. Di solito chi viene da me si rende subito conto che ho solo voglia di ascoltare. Forse mi capitò con Naomi Campbel tanti anni fa, lei aveva poca voglia di aprirsi. Ma penso dipendesse da un suo stato d’animo particolare di quel giorno. Faccio sempre in modo che non ci siano trappole, voglio che l’ospite vada via contento e con la voglia di ritornare. I miei intervistati si rilassano, si lasciano andare, anzi, a volte mi dicono molto di più di ciò che chiedo loro.

Il ricordo più divertente e quello più emozionante delle sue tante edizioni…

Gli episodi e gli incontri che porto con me sono tantissimi, ma l’emozione più grande me la regala ogni volta Don Antonio Mazzi. Cominciai proprio con lui e con Monica Vitti molti anni fa, era la mia prima edizione ed ero considerata solo la fidanzata di Renzo. Conducevo il gioco telefonico, poi, per magia, nel tempo, sono diventata la zia degli italiani (sorride). Con Don Mazzi c’è un legame trentennale, ogni volta che lo incontro lo abbraccio e scoppio a piangere. È l’effetto che mi fa. Nei momenti difficili mi ha sempre sostenuto, ha visto Renzo, ha visto Nicola. Spero di averlo con me in una delle prime puntate per fare insieme un talk sui giovani, in giorni in cui le cronache raccontano episodi tanto drammatici. I bei ricordi delle mie quindici edizioni passate sono tanti, al contrario delle cose brutte, quelle che mi hanno fatto soffrire, che metto da parte. Alla mia età devi selezionare per forza, ti devi proteggere.

A distanza di anni tornerà a giocare al telefono con gli spettatori…

Ho voglia di parlare con il pubblico a casa che mi segue con affetto. Ho chiesto agli autori di preparare un bel gioco divertente.

Il complimento che le fa più piacere ricevere dal pubblico?

Che sono una di loro. Sono una che si alza presto, che pulisce, che cucina per gli amici, che vive in famiglia, che va al supermercato, e in più faccio la televisione.

E dai colleghi?

Ho buoni rapporti con tutti. Non ho mai parlato male di nessuno perché rispetto il lavoro degli altri. Non amo chi dà giudizi, sentenze. Ognuno fa il proprio lavoro, deve vivere la propria vita. Certo, se mi pesti i piedi reagisco (sorride). Anche se con il tempo e con l’età dimentico più facilmente. Per essere sereni non devi avere rancori.

A proposito di colleghi, lei è stata a fianco dei più grandi del piccolo schermo…

Mi ritengo molto fortunata. Ho lavorato con Corrado, con cui ho presentato due volte i Telegatti, con Pippo Baudo, che mi volle a “Luna Park”, ho condotto il “Festival di Napoli” con Mike Bongiorno, sono stata per dodici anni la donna di Renzo Arbore. Ma che cosa potrei volere di più dalla vita?

Che cosa le hanno insegnato questi maestri?

Da Corrado ho imparato l’umiltà, da Renzo l’essere me stessa. Mi amava per quello che ero e mi disse di essere così anche a “Domenica In”. Pippo mi ha insegnato la professionalità, la puntualità, il rispetto per il lavoro.

Il sogno nel cassetto di Mara…

Non ho sogni nel cassetto, chiedo solo la salute. Ciò che ho mi basta e mi avanza.

E per la sua “Domenica In”?

Spero che il pubblico sia sempre vicino a Zia Mara.

A ottobre ci sarà la grande festa per il compleanno del Servizio Pubblico Radio-Tv. Cosa augura alla Rai?

Di continuare così e di avere sempre artisti di grande professionalità, che amano il pubblico. Penso a Stefano De Martino (conduttore di “Affari Tuoi”), molto bravo e che fa ogni cosa con serietà e impegno. Questo al di là della sua empatia, che è un dono. La nuova grande rivelazione è proprio Stefano.

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