Rob Minkoff

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L’A.I. cambia tutto, ma restano le storie

Il Festival dell’animazione promosso da Rai e organizzato da Rai Com ha assegnato il Pulcinella Career Award al regista statunitense, che nel 1994 co-diresse “Il Re Leone”. In questa intervista racconta i suoi inizi alla Disney, il dietro le quinte del film che ha segnato intere generazioni e riflette sull’impatto dell’intelligenza artificiale nel mondo dell’animazione

Quando ha iniziato a disegnare?

Ho iniziato a disegnare quando ero molto piccolo. Era qualcosa che mi veniva naturale, mi piaceva farlo anche durante le lezioni a scuola. A volte finivo nei guai con gli insegnanti, perché mi mettevo a disegnare invece di seguire la lezione. Ma non riuscivo a farne a meno, era più forte di me.

Com’è proseguito il suo percorso nell’animazione?

Dopo quegli inizi da autodidatta ho deciso di studiare animazione seriamente e mi sono iscritto alla “California Institute of the Arts”. È lì che ho imparato davvero la tecnica e la disciplina del mestiere. Poi ho avuto la fortuna di iniziare a lavorare alla Disney, nel dipartimento di animazione. Ho partecipato a diversi progetti importanti, come “La Sirenetta” e “La Bella e la Bestia”. Il mio primissimo lavoro, però, è stato su un cortometraggio con Roger Rabbit, “Tummy Trouble”. Dopo quell’esperienza, mi sono stati assegnati altri progetti e incarichi di regia, e infine ho fatto il mio debutto come regista proprio con “Il Re Leone”.

Ricorda la sua prima volta in Italia?

Fu nel 1994, proprio l’anno in cui è uscito “Il Re Leone”. È stato un momento spettacolare, indimenticabile. Da allora sono tornato molte volte, perché ho un legame speciale con questo paese. Però è la prima volta che vengo a Pescara. Non c’ero mai stato prima e devo dire che è davvero bellissima. È stato emozionante poterla visitare finalmente.

Quando ha capito che “Il Re Leone” avrebbe avuto un successo così grande?

Quando abbiamo iniziato a lavorare al film, in realtà non si chiamava ancora così. Era solo un progetto in fase iniziale, con un titolo provvisorio. Ovviamente speravamo di realizzare un buon film, ma non potevamo immaginare che sarebbe stato accolto così bene dal pubblico. Solo quando fu completato e cominciammo a mostrarlo alle persone, ci rendemmo conto dell’impatto che aveva. La reazione della gente è stata incredibile. Ancora oggi, quasi 31 anni dopo l’uscita, il film continua a toccare il cuore delle persone. È qualcosa che mi riempie di gratitudine.

Che effetto ti fa vedere che “Il Re Leone” è ancora così amato?

È meraviglioso. Tutti noi che abbiamo lavorato a quel film lo sentiamo ancora molto vicino. I nostri figli, in un certo senso, sono cresciuti con quella storia che è diventata parte della nostra vita. Vedere che continua a emozionare nuove generazioni è davvero una soddisfazione enorme.

Cosa pensa dell’intelligenza artificiale nell’ambito dell’animazione? La sta usando nel suo lavoro?

L’A.I. è un tema molto attuale e interessante. Negli ultimi anni ha fatto enormi progressi. Allo stesso tempo, però, c’è una certa preoccupazione, perché potrebbe causare grandi cambiamenti – o meglio, vere e proprie distruzioni – nel settore. Quando ho iniziato a lavorare alla Disney, tutto si faceva a mano: disegni, pennelli, carta. Era un processo molto tradizionale. Poi, col tempo, i computer sono diventati sempre più presenti nella produzione. Ho già vissuto quella prima trasformazione dell’industria. E oggi, con l’arrivo dell’intelligenza artificiale, stiamo entrando in una nuova rivoluzione tecnologica.

La spaventa questo cambiamento oppure lo vive come una nuova opportunità?

Un po’ entrambe le cose. Da un lato può fare paura, perché cambia il modo in cui lavoriamo, ma è anche molto eccitante, perché apre possibilità nuove, incredibili. Ci saranno strumenti che ci aiuteranno a fare cose che prima erano impossibili. Alla fine, però, quello che conta davvero, sono le storie che raccontiamo. È su questo che le persone si emozionano, non tanto sul mezzo tecnico con cui la storia viene realizzata.

Quindi la tecnologia è un mezzo, ma il cuore resta la creatività?

Esattamente. Pensate alla Monna Lisa: siamo affascinati da ciò che ha creato Leonardo da Vinci, non tanto dal tipo di pennello o di vernice che ha usato. Allo stesso modo, nell’animazione o nel cinema, la tecnologia è uno strumento. Ma ciò che rimane nel tempo è la forza della narrazione, l’emozione, il messaggio. Credo che, anche in mezzo a tutti i cambiamenti, sarà proprio questo a guidarci e a farci evolvere nel modo giusto.

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CARTOONS ON THE BAY 2025

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Incontri e progetti per diffondere creatività e speranza

Grande successo per l’edizione del Festival appena conclusa a Pescara. La soddisfazione dell’ad Rai Giampaolo Rossi: «La missione del Servizio Pubblico è anche quella di essere al fianco delle nuove generazioni, restando contemporaneo e affrontando le sfide del domani»

Significativi i numeri della 29esima edizione di Cartoons On The Bay, il Festival internazionale dell’animazione, transmedia e media art, promosso da Rai e organizzato da Rai Com a Pescara. Sono stati oltre 1.000 gli addetti ai lavori accreditati al Programma professionale all’Aurum, tra registi, animatori, produttori, che hanno partecipato ai panel e alle tavole rotonde. Trecento le opere provenienti da 50 paesi iscritte al concorso Pulcinella Awards, 16 le statuette assegnate tra i vincitori delle nove categorie, Career Awards, Special Awards. Oltre 1.000 le presenze al Cinema Massimo per il Programma scuole, almeno 8.000 per il Programma pubblico, con gli eventi in scena sul grande palco di piazza della Rinascita – tra questi i concerti del Banco del mutuo soccorso e di Greg  & the Frigidaires – le retrospettive e le anteprime cinematografiche, le mostre dedicate all’arte di Quentin Blake e alla passione modellistica di Lillo Petrolo. Diverse centinaia di bambini e ragazzi hanno preso parte alle attività organizzate nell’area “Cartoons On The Bay Fun & Comics” nell’emiciclo dell’Aurum.  Grande la soddisfazione dell’Amministratore Delegato della Rai Giampaolo Rossi: “Tre giornate di incontri e progetti per diffondere un messaggio di creatività e speranza. La missione del Servizio Pubblico è anche quella di essere al fianco delle nuove generazioni, restando contemporaneo e affrontando le sfide del domani. Ringrazio tutti coloro che hanno reso possibile questa manifestazione: la Rai, Rai Com, le Istituzioni che ci hanno affiancato in questo viaggio, gli artisti, i partecipanti e tutti coloro che hanno contribuito con entusiasmo e talento.”

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PINO INSEGNO

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Oltre quarant’anni di intesa vincente

Dall’esordio televisivo con Bramieri a inizi anni Ottanta sulla Rai alla conduzione di uno dei game più amati della televisione,“Reazione a catena” (ritorna l’8 giugno su Rai 1). La Tv, il cinema, il doppiaggio, il teatro, quello dell’attore romano è un successo che dura da quattro decadi

Un’estate al lavoro, domenica 8 giugno alle 18.45 torna “Reazione a catena”…

Questo è il mio sesto anno di “Reazione a catena”, quattro più due, sembra uno sconto al supermercato (sorride). Abbiamo rinfrescato tantissimo, una scena nuova, due giochi nuovi, un ritmo pimpante giusto per questi tempi, è una figata. Grazie al lavoro di tutti gli autori, di tutti i tecnici, qui a Napoli c’è un’atmosfera bellissima. È una famiglia.

Cosa le ha insegnato, negli anni, questo programma?

Prima di tutto come si conduce un game, cosa completamente diversa dall’essere un attore, un doppiatore, un presentatore e basta. Il fatto di essere un po’ tutte queste cose mi arricchisce molto e può arricchire anche il programma, è un po’ il mio valore aggiunto al programma. Quando sento che c’è bisogno della battuta, la trovo, quando c’è bisogno di essere empatici, lo sono, come quando c’è bisogno di essere solo una voce, nella fase finale, e accompagno l’ultima catena, l’ultima parola, come se si trattasse di una voce fuori campo. “Reazione a catena” mi ha insegnato anche a fare dei passi indietro per valorizzare sempre di più i concorrenti, i protagonisti sono loro e non sei tu. È un game bellissimo che non ha rivali, dentro c’è tutto: il divertimento, la goliardia, l’approfondimento culturale, la filologia delle parole, i vari significati. Questo fa bene a tutti.

Come sono cambiati, nel tempo, i concorrenti?

Ci sono squadre forti, anche se è sempre più difficile trovare persone che abbiano tempi, ritmi. Il telefonino ha un po’ distrutto tutto, anche la voglia di pensare. Se non ti viene in mente una cosa clicchi su un motore di ricerca, se non ti ricordi una strada metti il navigatore, e questo spegne un po’ la curiosità, la mente. “Reazione a catena” invece accende la mente.

Quale valore dà alla parola “squadra”?

La parola squadra è il segreto, non è solo uno strumento geometrico. Il segreto è far sentire, se ci fosse mai un ultimo, primo. Fare sentire parte di una squadra anche una persona che tende un cavo è fondamentale, deve sentirsi parte di un successo come di un insuccesso. Tutti devono remare nella stessa direzione.

E alla parola “successo”?

Il successo bisogna saperlo interpretare e gestire. L’ho capito sin dall’inizio, quando cominciai a essere riconosciuto per le strade tra il 1985 e il 1986 con “Pronto chi gioca?”. All’inizio fu un po’ una febbre, andavo in macchina la sera con la luce accesa per farmi riconoscere. L’anno successivo l’attenzione della gente calò un po’ e cominciai a chiedermi cosa volessi fare da grande: essere riconosciuto o fare questo mestiere? Per esserci nel tempo devi avere rispetto degli altri e di te stesso. Se vivi così, non sarai mai solo. Vivo ogni esperienza come se fosse il primo giorno: il primo doppiaggio, il primo film che faccio, la prima puntata che conduco.

La parola che nella sua vita non può mancare?

Sono due, amicizia e rispetto.

Che cosa significa trovare nella vita un’intesa vincente?

È il segreto della vita stessa ma è complicatissimo (sorride), è la ricerca del sacro Graal. Esiste, devi saperla gestire, mantenere, un po’ come il successo. Il rischio è di perderla, parlo dell’amicizia come dell’amore, in tutto. Bisogna saperla annaffiare, gestire, perché l’intesa vincente non è un sempreverde.

Si sente più analogico o digitale?

Analogico tutta la vita. Digitale solo quando serve, certo, ti aiuta, ma se perdi il telefonino è finita. Io sono un LP, non un CD, e come vede gli LP sono tornati di moda. Gli anni Settanta non moriranno mai.

Fa parte della generazione del “Tuttocittà” in auto…

… quello ci ha allungato la vita. Facevamo la tournée con la Premiata Ditta chiedendo la strada… fortunatamente veniamo da quegli anni.

Ci regala un ricordo incancellabile dei suoi esordi?

A teatro con l’Allegra Brigata, dieci ragazzi che sono poi diventati grandi, eravamo al Teatro Testaccio di Roma con “Giulio Cesare è… ma non lo dite a Shakerspeare”. Lì incontrammo Massimo Cinque, poi Bramieri e Garinei che ci portarono su Rai 1. Era il 1982, facemmo tre edizioni di “G.B. Show” il sabato in prima serata.

Un pensiero (e una promessa) al pubblico che le vuole bene da quarant’anni…

Torna la parola “rispetto”, che ho avuto sempre nei confronti di tutti. Per me le persone non sono un gruppo informe senza un nome, senza un cognome, senza una storia, non sono genericamente il pubblico. Ho sempre rinverdito questo rapporto, mettendomi sempre in gioco, con educazione, la gente riconosce i valori veri. Quando cammino per strada, anche a costo di metterci dieci minuti per fare cento metri io mi fermo con tutti. Mia moglie mi dice che mi fermo anche con chi la foto non me l’ha chiesta. E io a quel punto rispondo: ma me la stava per chiedere (sorride).

 

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Vita da artista

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Italia, paese di santi, poeti, navigatori… e case d’artista. Dal 2 giugno, dal lunedì al venerdì alle 20.20 su Rai 3, il giovane storico dell’arte Jacopo Veneziani accompagnerà il pubblico alla scoperta di spazi unici

Luoghi affascinanti, ricchi di quadri, sculture, oggetti curiosi, aneddoti e memorabilia, spesso poco noti. “Vita da artista”, il nuovo programma di Rai Cultura e Ruvido Produzioni, parte proprio da qui: dalle case, dai luoghi della creatività, dell’anima, della quotidianità. Dal 2 giugno, dal lunedì al venerdì alle 20.20 su Rai 3, il giovane storico dell’arte Jacopo Veneziani accompagnerà i telespettatori alla scoperta di spazi unici, camminando per le stanze alla scoperta della vita degli artisti. Attraverso gli oggetti presenti emergeranno storie personali, passioni e lati inediti dei protagonisti. Protagoniste del racconto anche opere d’arte, soprattutto quadri, che Veneziani descrive con ironia e leggerezza. Il tono è sempre imprevedibile, capace di passare da un dettaglio a un tema più ampio o sorprendente. Un linguaggio moderno, pop, coinvolgente, non accademico o serioso, ma ironico e originale. Con “Vita da artista” la cultura entra nelle case, partendo da quelle degli artisti come Manzoni, Puccini, Leopardi, De Chirico, Buonarroti, Alberto Sordi e altri.

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The Presidents

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Un’indagine lucida e penetrante sulle dinamiche di potere, palesi e occulte, che muovono gli Stati Uniti: i grandi protagonisti, le scelte, le conseguenze. È il nuovo libro di Monica Maggioni (Rai Libri)

“The Presidents”, il nuovo saggio di Monica Maggioni, edito da Rai Libri, si addentra nei meccanismi profondi della presidenza americana di Donald Trump, offrendo una chiave di lettura inedita. Chi è davvero Donald Trump? Qual è la visione che muove le sue scelte politiche? E soprattutto: chi sono i protagonisti nell’ombra che ne orientano le decisioni? Nei primi tre mesi del suo mandato, il mondo ha assistito a un’escalation di azioni destabilizzanti, capaci di mettere in crisi alleanze storiche e di intaccare gli equilibri dell’ordine internazionale. Dietro la maschera dell’eccesso mediatico e del linguaggio provocatorio, Maggioni svela l’architettura nascosta di un nuovo progetto politico. Attraverso un’analisi rigorosa dei discorsi, degli scritti e delle testimonianze di chi ha orbitato intorno alla Casa Bianca trumpiana, l’autrice traccia il profilo di un gruppo di potere trasversale, composto da capitali privati, tecnologia, controllo sociale e dominio della comunicazione: una vera e propria élite che ha ridefinito il concetto stesso di leadership democratica. “The Presidents” non è solo un titolo: è una definizione. Perché dietro il volto del presidente si cela un sistema che potrebbe determinare, e forse sta già determinando, anche il nostro futuro. Con questo libro Monica Maggioni ci consegna un’opera illuminante, che interroga il nostro tempo e invita a riflettere sul significato e sui rischi della concentrazione del potere nella società contemporanea.

L’autrice

Monica Maggioni è una giornalista, inviata speciale, scrittrice, documentarista, conduttrice. È Direttrice editoriale dell’Offerta Informativa Rai, è stata Presidente della Rai (2015-2018), Amministratore Delegato di Rai Com (2019 – 2020) e Direttrice del Tg1 (2021-2023). È stata corrispondente di guerra e ha seguito la politica statunitense. Ha ricoperto il ruolo di corrispondente da Baghdad e si è occupata di reportage sul Medioriente. Negli ultimi due decenni ha raccontato le principali aree critiche del pianeta: Iraq, Iran, Siria, Afghanistan, Israele e paesi africani. Nel 2010 e nel 2011 ha diretto due documentari proiettati alla Mostra del Cinema di Venezia, Ward 54 Out of Tehran. Ha scritto Dentro la guerra (2005), La fine della verità (2006), Twitter e Jihad (2015), Terrore mediatico (2015), Spettri (2024). È docente di Storia dei conflitti contemporanei presso l’Università Cattolica di Milano.

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All’ora della pennica si ride con Fiorello

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L’amato showman è tornato (a sorpresa) con “Radio 2 Radio Show. La pennicanza” in onda dal lunedì al venerdì alle 13.45. Al suo fianco il compagno di tante risate Fabrizio Biggio

A distanza di un anno dalla scoppiettante conclusione di “Viva Rai 2”, lo show del mattino entrato di diritto nella storia della televisione italiana per essere riuscito a rivoluzionare il concetto e le regole del varietà, Fiorello è tornato in scena ripartendo dalla sua amata radio. Lo ha fatto, ancora una volta, a sorpresa, irrompendo lunedì 19 maggio sulle frequenze di Rai Radio 2 a ora di pranzo. Quarantacinque minuti divertenti e mai scontati, in compagnia di Fabrizio Biggio e di tanti amici al telefono, per uno show che vuole rappresentare un break ironico e originale, una boccata d’allegria, tra le 13.45 e le 14.30. Comicità tagliente, ritmo serrato e surrealismo sono la cifra dello show, che fin dalla prima settimana di messa in onda ha unito il tono provocatorio all’imprevedibilità. “Non abbiamo un’idea, siamo qui a fare… nulla, non lo so!”, ha detto Fiorello in un debutto rigorosamente work in progress. Fiore in diretta a pranzo e in replica alla mattina alle 7.00 con il “meglio” della puntata del giorno prima. Titolo? “La sveglianza”. Su RaiPlay sono disponibili tutte le puntate on-demand mentre la visual radio di Rai Radio 2 (canale 202) garantisce contenuti extra decisamente da non perdere, anche attraverso il QR code che riportiamo anche nelle nostre pagine.  Sui social di @rairadio2 seguono lo show e il backstage. “Radio2 Radio Show. La pennicanza” è un programma di Rosario Fiorello scritto con Francesco Bozzi, Pigi Montebelli, Federico Taddia, e con Fabrizio Biggio, Enrico Nocera, Edoardo Scognamiglio.  Le musiche sono di Enrico Cremonesi. Regia di Piergiorgio Camilli. Regia radiofonica Marco Lolli.

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CARTOONS ON THE BAY 2025

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Vi aspettiamo a Pescara

I premi alla carriera a Quentin Blake e Rob Minkoff, lo special award a Noah Falstein, l’anteprima mondiale dell’ultimo corto di Bruno Bozzetto, l’assegnazione dei Pulcinella Awards 2025.  Dal 29 maggio al 1° giugno

Tra star internazionali, première, incontri sui grandi temi del mondo dell’animazione, eventi aperti al pubblico e alle scuole, torna Cartoons On The Bay, Festival internazionale dell’animazione, della transmedialità e delle meta arti, a Pescara dal 29 maggio al 1° giugno. A firmare il manifesto della 29esima edizione è Quentin Blake, disegnatore, illustratore e scrittore britannico, pilastro della narrativa per l’infanzia di numerose generazioni. Diretto da Roberto Genovesi, “Cartoons On The Bay” è promosso da Rai e organizzato da Rai Com, in collaborazione con la Regione Abruzzo e il Comune di Pescara. Main partner del Festival sono Rai Kids, RaiPlay, Rai Radio Kids e Rai Radio 2. A contendersi gli ambiti Pulcinella Awards, nelle nove categorie del concorso, opere provenienti da 50 paesi (320 quelle iscritte). Cartoons on the Bay celebra quest’anno la creatività dei Paesi Nordici (Svezia, Norvegia, Danimarca, Finlandia e Islanda), tra i più dinamici dell’animazione europea e nella produzione di contenuti animati e per l’infanzia. Ampio il programma professionale del Festival che si svolgerà all’Aurum e sarà animato da oltre ottanta ospiti tra registi, produttori, artisti e manager protagonisti di una tre giorni di panel, key notes e masterclass. L’edizione 2025 di Cartoons On The Bay assegnerà due Career Award, a Quentin Blake e a Rob Minkoff, il Pulcinella Special Award a Noah Falstein e al programma di Rai Radio 2 “610”, il Pulcinella Studio of the year a Eaglet Films, il Pulcinella Transmedia Award a The Angry Birds x Legends, il Pulcinella Diversity Award a Barbie (Mattel). Il Premio Sergio Bonelli, giunto alla quarta edizione, sarà conferito a Lorenzo Ceccotti, fumettista, illustratore e artista a tutto tondo tra i più apprezzati al mondo. Imperdibili i programmi Pubblico, Cinema e Scuole. Due le mostre allestite nei saloni dell’Aurum, a ingresso libero dal 29 al 31 maggio tra le 10.00 e le 18.00. Alla straordinaria carriera di Quentin Blake, narratore visivo senza pari, è dedicata la mostra “Quentin Blake: L’arte di dare vita all’immaginazione”, nella sala Europaurum. La sala Gabriele D’Annunzio ospiterà invece “Lillo Modellista fra storico e fantasy” che svela la passione nascosta di Lillo Petrolo, comico, musicista e attore, per il mondo dell’arte modellistica. L’emiciclo esterno dell’Aurum accoglierà famiglie e appassionati nello spazio “Cartoons on the Bay Fun & Comics” realizzato in collaborazione con Funside Games Academy e Scuola Internazionale di Comics, con eventi dimostrativi, sessioni di gioco e performance di artisti. Il grande palco di Piazza della Rinascita ospiterà le dirette di appuntamenti cult di Rai Radio 2: “Numeri UNI” con il duo comico Maria Di Biase e Corrado Nuzzo (venerdì 30 maggio alle 15.30) e “610” con Lillo, Greg e Carolina Di Domenico (sabato 31 maggio alle 10.30). Attesa tra i più piccoli per l’incontro con le star di Rai Yoyo, da Maia a Bing, da Bluey a Peppa Pig (sabato 31 maggio alle 18.00) e per il Winx 20th Celebration Show! (sabato alle 19.00). Imperdibili gli eventi di prima serata. Venerdì alle 21.00 concerto di Banco del Mutuo Soccorso con “Storie Invisibili – Tour 2025”, mentre sabato, alla stessa ora, in scena ci saranno Greg & the Frigidaires. Il Cineteatro Massimo ospiterà le proiezioni dei lungometraggi in concorso, la retrospettiva dedicata a Rob Minkoff, l’anteprima italiana del lungometraggio “Maracuda – Diventare grandi è una giungla” di Viktor Glukhshin (31 maggio ore 20.30). Tutte le proiezioni saranno a ingresso gratuito fino a esaurimento posti. Protagonisti di Cartoons On The Bay anche gli studenti di classi primarie e secondarie di primo grado. Ad animare gli incontri mattutini, che alterneranno momenti di spettacolo, gioco e divulgazione alla proiezione del meglio della produzione di Rai Kids, saranno popolari personaggi della tv e della radio, da Armando Traverso con il Rai Radio Kids Live a Oreste Castagna.  Sul palco anche la doppiatrice Arianna Craviotto e il campione del mondo di pallavolo Andrea Lucchetta. Dal 30 maggio al 1° giugno ritorna anche il Village di Cartoons on The Bay, ideato e promosso dal Consorzio Gruppo Eventi. All’interno del Villaggio sul mare, in Piazza della Rinascita, verranno creati angoli interattivi per promuovere la Cultura in tutte le sue sfaccettature e per coinvolgere il pubblico con appuntamenti prestigiosi.

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EMILIA BRANDI

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Al servizio delle storie che raccontiamo

La nuova serie di “Cose Nostre” il lunedì in seconda serata su Rai 1, il podcast su RaiPlay Sound. La giornalista al RadiocorriereTv: «A muoverci è la curiosità, la stessa di un lettore o di una lettrice qualunque». E ancora: «Quando ho avuto la possibilità di avere uno spazio mio ho scelto questo tema perché mi sembrava di potere restituire qualcosa»

“Cose Nostre” è tornato per raccontare altre storie di persone che scelgono di dire no alle mafie, ai soprusi… a che punto siete del vostro lungo, lunghissimo viaggio?

Sono dodici puntate con le quali tocchiamo i nostri temi classici, storie di persone che hanno sacrificato la propria vita per contrastare la mafia, allargando però la narrazione ad altre storie di criminalità. Nella prima puntata (disponibile su RaiPlay) ci siamo chiesti chi fosse davvero Tony Chichiarelli, un personaggio che ha avuto a che fare con le trame più torbide della storia della Repubblica. Nella seconda, che abbiamo intitolato “L’amore bugiardo”, raccontiamo la vicenda del calciatore del Cosenza Calcio Denis Bergamini, morto nel 1989 in circostanze non chiare. La terza puntata è invece dedicata al rapimento della diciottenne Cristina Mazzotti, avvenuto nel 1975. All’orrore del sequestro si aggiunse la ferocia della crudeltà: la giovane veniva tenuta reclusa in una buca, respirava attraverso un tubo che sbucava dal terreno. La sedavano per non avere grane, poi, quando doveva rispondere alle domande dei familiari che chiedevano prove del fatto che fosse viva, le davano degli eccitanti, adrenalina.

Qual è l’elemento che vi porta a scegliere una storia piuttosto che un’altra…

La curiosità, la stessa di un lettore o di una lettrice qualunque. Leggo libri, metto da parte ritagli, riviste, interviste. Poi studio, cerco di saperne di più, vado a verificare quale repertorio ci sia. Da lì nasce la scelta.

Di fronte alle realtà che fotografate è possibile pensare al futuro con ottimismo?

Se guardo al passato lo vedo eroico. Ci sono alcuni uomini, con o senza divisa, che hanno fatto il proprio dovere, come dovremmo fare tutti. Persone che non hanno fatto compromessi e sono state rette fino in fondo e questo mi conforta. Sono stati il volto credibile dello Stato, sempre dalla parte giusta. Per l’oggi non so dirti, per certo è cambiata la mafia. Si dice che quando non ci sono più morti significa che non c’è bisogno di farne. E questo è inquietante, ovviamente non perché debba morire la gente. L’argomento sta prendendo altre forme, sta mutando. Non ci sono più i vecchi ‘ndranghetisti, i figli sono laureati, hanno studi legali, società all’estero. Oggi è più difficile capire, non credo che il fenomeno si sia estinto, credo solo che abbia mutato forma.

Da giornalista cosa ti sta dando questo viaggio?

Quando ho avuto la possibilità di avere uno spazio mio ho scelto questo tema perché mi sembrava di potere restituire qualcosa. Quello della criminalità organizzata è un elemento narrativo per raccontare un territorio, una persona, la scelta quotidiana che tutti facciamo tra il bene e il male. Non una conquista ma una scelta, anche nel modo di vedere le cose, come avere ad esempio un gesto di gentilezza o garbo verso l’altro. Da giornalista sono sempre al servizio delle storie che raccontiamo, certa che quando chi racconta si mette al centro della narrazione c’è qualcosa che non va. Questo viaggio mi ha fatto anche incontrare tante persone motivate. Accanto a me ci sono tanti giovani entrati da poco in Rai, montatori, fonici, grafici, vedo in loro molto entusiasmo per il programma, per la sua artigianalità, per il modo in cui raccontiamo, per il fatto di andare a inseguire, costruire e raccontare le storie.

Le storie di “Cose nostre” sono oggi anche un podcast di RaiPlay Sound, recentemente presentato al Salone del libro di Torino…

Sono contentissima di questa cosa che ho inseguito per anni. Ho incontrato un gruppo di lavoro fantastico, guidato da Andrea Borgnino, e sono nate quattro puntate che raccontano storie di donne molto diverse tra loro. Si parte con Maria Concetta Cacciola, figlia della ‘ndrangheta di Rosarno che a 31 anni si ribella diventando testimone di giustizia. Raccontiamo Marisa Merico, figlia dell’ex boss Emilio Di Giovine, che nel nome del padre diventa un corriere del crimine per il riciclaggio di denaro sporco e che dopo l’arresto decide di dare una svolta alla propria esistenza; Luisa Fantasia, giovane vittima innocente di mafia; Maria Badalamenti, nipote di una delle figure apicali di Cosa Nostra, Tano Badalamenti, impegnata a difendere la memoria del padre Silvio, uomo perbene, malgrado il cognome e vittima incolpevole della sete di vendetta mafiosa. “Cose nostre” è un programma fondato sulla parola, la versione podcast aiuta a mettere a nudo l’anima. Abbiamo fatto un esperimento, per il futuro potrebbero arrivare anche contenuti originali. Spero di avere il tempo per farlo (sorride).

A chi dedica questa nuova stagione di “Cose Nostre”?

A Raffaele Maiolino, il nostro regista scomparso il 10 marzo scorso, la persona con cui per sette anni ho costruito le puntate, il mio primo riscontro. Per tutti noi è un momento drammatico, questa serie la stiamo portando avanti tra mille sacrifici, nel suo ricordo, e devo dire che in questo l’azienda ci sostiene. Nel nostro racconto c’è tanto di lui.

 

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BRUNO BOZZETTO

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Signor Rossi, il mio attore disegnato

A Cartoons On The Bay presenta in anteprima mondiale il corto “Rossi Boomer”. Mentre il suo amato personaggio spegne le 65 candeline, il disegnatore, animatore e regista, apprezzato in tutto il mondo, si racconta al RadiocorriereTv: «Qualsiasi film, qualsiasi opera, deve nascere da un concetto, da qualcosa che si vuole comunicare. La cosa importante non è il perfezionismo tecnico, ma il racconto»

 

Il Signor Rossi si confronta ancora una volta con il tempo che passa… cosa dobbiamo aspettarci da “Rossi Boomer”?

Questo film nasce dal concetto che il Signor Rossi ha fatto la sua età (sorride), è nato negli anni Sessanta e potrebbe essere considerato un uomo superato. In realtà lui è l’uomo comune e come tale affronta i problemi, esattamente come noi. Avrei potuto inventare un personaggio nuovo, ma mi son detto: il Signor Rossi funziona, è simpatico, e soprattutto in Germania lo amano moltissimo, e così mi è sembrato giusto rimetterlo in pista, provare a usarlo per parlare della contemporaneità, esattamente di quello che prova l’uomo comune oggi di fronte alle nuove invenzioni tecnologiche che cambiano ogni ora e che a volte sono difficili da accettare. Il computer, ad esempio, dovrebbe essere fatto per semplificare le cose. Ma basta usarlo per entrare nel sito di qualche ente e ti trovi a passare da una pagina all’altra, tra parole in inglese e password, rischiando di dover fare più volte anche cose banali. A me almeno succede così, divento matto. Computer a parte, anche comperando un’automobile ci si trova di fronte a qualcosa che prima non avveniva, pensi alla guida automatica. Mi sembra divertente mettere il Signor Rossi, esagerando il tutto come avviene in un cartone animato, nelle situazioni in cui rischiamo di trovarci prima o poi noi tutti. È un esperimento. In questo film lui si trova a passare dagli anni Sessanta a oggi, pensando che tutto sia migliorato, che non ci siano più guerre, che non esistano più le tasse, e questo proprio non è così.

“Rossi Boomer” potrà avere un seguito?

Se riuscissimo a fare una serie, con una trentina di film, potremmo affrontare un sacco di argomenti, molto divertenti e interessanti. Pur essendo di sei minuti funziona. Abbiamo preso il Signor Rossi con Gastone e li abbiamo portati nel 2025.

Lei e il Signor Rossi come avete convissuto in questi sessantacinque anni di vita insieme?

Non abbiamo mai avuto problemi. Diciamo che lui ha subito delle metamorfosi un po’ traumatiche. Nei primi otto film non parlava, era da solo ed era come un attore del cinema muto, come Chaplin, era un mimo. Quando ha cominciato ad andare in televisione abbiamo sentito la necessità, anche per arricchire le storie, di farlo parlare. Perché questo avvenisse ci voleva una spalla ed è arrivato Gastone, che ha formato con lui una strana coppia, divertente, in cui Gastone è un po’ la moglie burbera ma con tanto buonsenso. Il Signor Rossi, invece, è un po’ il bambino che si vuole buttare in tutto e se non ci fosse Gastone non lo fermerebbe nessuno. Nei tre lungometraggi scritti con Guido Manuli e Maurizio Nichetti, abbiamo visto come il Signor Rossi funzionasse anche parlante.

Che rapporto ha costruito nel tempo con il Signor Rossi?

Lo considero un attore disegnato. Andiamo d’accordo ma ci incontriamo solo quando dobbiamo fare qualcosa insieme, non sempre. Se mi serve in un film lo frequento, per parecchio tempo non l’ho più visto. Oggi mi serve ancora, lui è disponibilissimo e stiamo provando a fare qualcosa insieme.

Come alimenta la sua creatività?

Leggo molto, penso che i libri siano stimolanti per una persona creativa, la portano in altri mondi, a conoscere modi diversi di esprimersi. Se leggo certi libri sull’uomo e sul suo comportamento, sull’etologia, di stimoli ne ricevo ancora di più. Mi spingono a ragionare e a riflettere: dell’uomo vedo anche gli errori. Lo osservo e poi lo ridimensiono. Se penso all’uomo visto da vicino, diventa una persona importante, se invece lo allontano da me, ne vedo i comportamenti, quello che produce, i danni o le cose belle che crea. Lo vedo con un’ottica più distaccata. Avere un punto di vista diverso nell’esaminare le cose fa nascere molti stimoli.

Il suo studio ha fatto da apripista ai tanti che sono arrivati dopo di voi… come sta l’animazione italiana oggi?

Ho fatto le mie cose, ho visto che molta gente mi ha seguito, altri hanno fatto cose totalmente diverse, ma c’è spazio per tutti. L’animazione italiana, specialmente nei giovani, sta crescendo bene. Ci sono tantissime promesse, animatori che prima non esistevano. Ma quello che mi interessa di più non è forse l’animatore, il disegnatore, bensì la persona che scrive soggetti. Credo che qualsiasi film, qualsiasi opera, nasca da un concetto, da qualcosa che si vuole comunicare. Oggi non vorrei che questi animatori, disegnatori, si innamorassero troppo del disegno, dei colori, della tecnica, e tralasciassero quella che per me è l’unica cosa importante: il contenuto, con il rischio di farsi affascinare troppo dal perfezionismo tecnico, dagli effetti speciali. Tutte cose magnifiche che anche io adoro, ma non devono essere sostitutivi di ciò che si racconta. Mi capita talvolta di vedere film al cinema spettacolari, ma quando esco mi chiedo: cosa ho visto? In un’ora, con un film di Woody Allen, ho molti più stimoli sull’umorismo, sulla vita, sull’affetto, sulle relazioni, di certi film spettacolari che mi fanno vedere gente che viene catapultata a tremila chilometri. Sono mondi diversi. Il disegno animato è un mezzo di comunicazione straordinario, quindi, usiamolo.

Cosa la fa arrabbiare nel lavoro e nella vita?

Mi arrabbio quando non riesco a raggiungere quello che vorrei fare. Mi capita di alzarmi al mattino volendo trovare un’idea per una vignetta, per un disegno, e non mi viene…

… succede anche a lei?

Tantissimo. A volte le idee arrivano casualmente, altre si fa fatica e bisogna avere pazienza. Ci sono giornate no, bisogna accettarle e sperare nel domani (sorride)...

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Domenico Iannacone

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Resistenza e speranza

Al via la nuova stagione di “Che ci faccio qui”, un viaggio profondo e intimo, raccontato al Radiocorrieretv dal conduttore: «Questa volta è un viaggio più profondo, più intimo. Se dovessi individuare una differenza rispetto alle stagioni precedenti, direi che c’è un’esplorazione dell’interiorità». Un viaggio nell’anima dell’Italia contemporanea, tra fragilità, resistenza e speranza. Da martedì 20 maggio alle 21.20 su Rai 3

Si affronta il tema della perdita della memoria, una delle condizioni più laceranti che possa colpire l’essere umano. L’Alzheimer e le demenze cancellano i volti, smarriscono i legami, dissolvono l’identità. Domenico Iannacone raccoglie le storie che nascono all’interno del Centro Diurno Ra.Gi. di Catanzaro, fondato da Elena Sodano, dove si sperimenta una forma di cura che non si limita all’assistenza, ma cerca, attraverso la relazione e l’ascolto, di restituire dignità anche quando il tempo sembra aver smarrito il suo senso. Accanto a questo racconto si intreccia la storia di Pino Astuto, rinchiuso a soli otto anni nell’ex manicomio di Girifalco, dove ha trascorso trentadue anni della sua vita, pur non avendo mai ricevuto alcuna diagnosi psichiatrica. Una reclusione ingiusta che avrebbe potuto spegnere ogni ricordo, ogni traccia di sé. E invece, Pino ha custodito la propria memoria come un atto di resistenza silenziosa. Oggi, la sua testimonianza diventa voce necessaria: perché la mente, anche quando sopravvive segregata e sola, può essere l’unico rifugio per resistere all’ingiustizia.

Con uno sguardo empatico e mai giudicante, “Che ci faccio qui” continua a restituire voce agli invisibili, facendo della televisione un luogo di riflessione e coscienza civile.

Domenico, è arrivato il momento di rimettersi in viaggio…

Questa volta è un viaggio più profondo, più intimo. Se dovessi individuare una differenza rispetto alle stagioni precedenti, direi che c’è un’esplorazione dell’interiorità. Partiamo con “Ricordati di me”, due puntate dedicate alla mente, alla memoria, a ciò che è invisibile e spesso insondabile. Questo mi ha permesso di attraversare mondi che tendiamo a ignorare, che non guardiamo con attenzione. Nel primo capitolo raccontiamo la storia di una mente che si spegne con la malattia dell’Alzheimer. Siamo andata a Catanzaro, in un territorio complicato in cui l’associazione gestita da Elena Sodano rappresenta una forma di resistenza, offrendo una cura diversa della malattia, tarata sull’individuo, non massificata. Ogni persona che entra in quel luogo viene accolta per ciò che è, con le proprie peculiarità, perché l’Alzheimer non si manifesta mai allo stesso modo. L’approccio è cucito addosso a ciascun individuo, e proprio per questo è così umano. Continuiamo con la storia di una mente rimasta segregata per trentasei anni all’interno dell’ex manicomio di Girifalco, sempre in provincia di Catanzaro. È la vicenda di Pino Astuto, un uomo rinchiuso ingiustamente da bambino, quando aveva appena otto anni, con una diagnosi di “carenza affettiva”, una motivazione che oggi farebbe rabbrividire. Non aveva alcuna patologia psichiatrica, eppure è stato internato per una vita intera. È una delle tante ingiustizie inflitte silenziosamente, senza possibilità di ribellione. Eppure, la mente di Pino ha resistito a quella tortura, e oggi Pino testimonia con lucidità ciò che ha vissuto, del modo in cui la sua mente sia riuscita, nonostante tutto, a sopravvivere, per non cedere alla brutalità della segregazione. Il suo è un racconto potente, che ci ricorda quanto la mente possa essere un baluardo di resistenza, anche nelle condizioni più estreme.

La seconda puntata, invece, dove ci porta?

Continuiamo a lavorare sul tema della mente, racconto un trittico di storie. La prima è quella di Carlo Di Bartolomeo, un ragazzo autistico dotato di una mente sorprendente, che conosce profondamente testi di teatro, lavora con la compagnia Stato Patologico accanto ad altri attori con disabilità. È un pozzo di conoscenza, gli si può chiedere qualunque cosa e lui sa rispondere, dimostrando come, anche una fragilità può essere prodigiosa. Poi c’è la storia della cave multisensoriale del Policlinico Gemelli di Roma, una struttura dove si lavora per far emergere dal coma persone attraverso la somministrazione di immagini, di suoni, di odori, perché anche una mente apparentemente spenta può avere ancora un filo con il mondo. Infine, racconto la storia di un uomo che a 76 anni sta conseguendo la sua dodicesima laurea, una mente, quindi, che non ha mai smesso di essere curiosa, di imparare.

La terza…

Si chiama “La casa degli altri” e considera la casa non come elemento simbolico, fisico, bensì astratto. Protagoniste sono due storie molto intense, quella di Guglielmo, che avevo conosciuto otto anni fa e che aveva perso tutto, una persona che ho incontrato otto anni fa, che aveva perso tutto e che ho voluto raccontare di nuovo per capire se fosse cambiato qualcosa, dopo averlo messo in connessione con un’associazione, per arginare la caduta. La seconda è dedicata a Nikita, una badante romena che fa la scrittrice. Mi ha raccontato l’incapacità di avere una collocazione fisica, di avere una casa, di non sentirsi a casa in nessun posto. Questo rappresenta un elemento di straniamento molto toccante, che fa comprendere esattamente il significato della parola sradicamento, identità, accoglienza o sentirsi in qualche modo parte di qualche cosa.

La quarta…

“Parlami di te” è un ritorno a “Capra Libera”, vicino Nerola, un luogo già protagonista di un nostro racconto di cinque anni fa, che dopo quella puntata, ha fatto esplodere l’associazione. La visibilità ottenuta in tv ha portato a ricevere in comodato d’uso circa 500 ettari di terreno dai Comuni limitrofi, un riconoscimento importante del valore del loro lavoro. Massimo Manni, che gestisce questo santuario per animali, è un allevatore “pentito”, si prende cura oggi di circa 500 animali di ogni specie, che vivono liberi in un luogo straordinario. Tra loro ci sono anche animali con disabilità, che sarebbero condannati a essere abbattuti. La scelta di Massimo è rara e preziosa, perché dà dignità a vite che altrove verrebbero considerate inutili. Il suo è un gesto di profonda compassione, che restituisce senso e bellezza alla relazione tra uomo e animale. Una realtà davvero toccante e fuori dal comune. Accanto a questa storia, si sviluppa un altro filo narrativo: il rapporto dell’uomo con gli animali, con la natura. Al centro c’è un ex falegname, liutaio, fabbro – Guidalberto Bormolini – oggi sacerdote che insegna tanatologia, accompagnando le persone nel tratto finale della vita. Si occupa della cura spirituale delle persone in un percorso profondamente umano e compassionevole. È una puntata che, partendo dal mondo animale, arriva a toccare l’anima degli uomini, intrecciando storie personali, cura degli spazi e trasformazione. Guidalberto e il suo gruppo hanno anche ristrutturato un luogo nei pressi di Prato, un tempo abbandonato, che oggi accoglie persone che affrontano gli ultimi momenti della loro esistenza. Qui possono arrivare anche le famiglie, per condividere insieme questo tempo prezioso, in modo dignitoso e consapevole. In quel luogo, la morte non è vista come un’uscita marginale, ma come un passaggio che può ancora avere un senso profondo, un momento di riconnessione intensa con la vita. È una puntata molto intensa, che ci parla di spiritualità, cura e rinascita, anche laddove tutto sembra finire.

Queste storie sono abitate da protagonisti, ma anche da chi sta loro accanto: familiari, operatori, volontari…

Il nostro è sempre un racconto collettivo, non solo ai soggetti che offrono la loro testimonianza, appartiene anche alla famiglia, alla comunità. Io credo, in questi anni, di aver fatto attraversamenti che hanno a che fare con i bisogni collettivi del nostro tempo, ogni piccola storia diventa, così, un archetipo di quello che la società in qualche modo mi sta chiedendo.

Cosa racconta di noi italiani come popolo il programma?

“Che ci faccio qui”, così come “I dieci comandamenti”, sono programmi che non hanno mai subito contaminazioni, non hanno mai ceduto al populismo o alla manipolazione di suggestioni. Ho cercato di fare fotografie nitide, oneste. Credo che questo lavoro sia una sorta di cartina tornasole, uno specchio di noi stessi: chi guarda può ritrovare i propri limiti, le proprie debolezze ed errori, ma anche le speranze. Il mio obiettivo è restituire al telespettatore la sensazione di essere rappresentato davvero.

Hai mai provato a mettere te stesso di fronte lo specchio? Cosa resta dopo il viaggio?

Dopo ogni puntata, ogni stagione, ogni incontro ne esco trasfigurato, non sono mai lo stesso del giorno prima, è un’immersione profonda che non mi lascia indifferente, che non mi fa stare al margine. Le relazioni che creo con i protagonisti, con i luoghi, con le storie non finiscono con la puntata, restano. È come un treno che aggiunge vagoni a ogni viaggio, creando un esercito infinito di uomini e donne che rimangono ancorate alla mia esistenza, spesso gran parte del lavoro comincia dopo la messa in onda. Si crea una rete, una forma di solidarietà molto forte, i telespettatori dei miei programmi hanno costruito una sorta di comunità in cui si ritrovano e in cui sono pronti a dare una mano.

Anche il tuo è un lavoro collettivo. Come scegli i tuoi collaboratori?

Chi lavora con me deve condividere un progetto, deve immedesimarsi in una modalità narrativa un po’ anomala. Nei nostri racconti abbiamo reintrodotto le pause, abbiamo creato uno spazio riflessivo. Abbiamo una redazione molto piccola, da due anni lavora con me Gabriella Quartulli, condividiamo ogni parte del processo, dalle riprese al montaggio. Chi entra in un programma del genere non può rimanere distante, deve immergersi completamente. Le persone non devono avvicinarsi al racconto soltanto con la curiosità. Io dico sempre che le storie devono avere un reagente morale, devono avere un peso, un senso, un’etica.

A proposito di storie…

Abbiamo ormai assunto un atteggiamento verso le cose, verso gli altri che è dettato dalla fretta, mentre a me interessa che le storie vengano raccontate con il giusto tempo. La televisione non deve essere fagocitata, non deve lasciarsi avvolgere dal vortice imposto dalla velocità, per esempio dei social, ma deve rimanere se stessa, deve mantenere gli stessi canoni espressivi del cinema: immagini, i dialoghi e anche le pause. Tutto questo io non lo voglio perdere, anche a costo di andare controcorrente.

Il tuo è un giornalistico, ma anche un atto di osservazione sociologica. Come mantieni l’equilibrio?

In questi hanno ho imparato a esserci pienamente, essere un testimone nelle storie, mai protagonista, però, cercando di creare un racconto partecipante. Questo è un meccanismo mutuato dalla sociologia, per cui, chi entra per raccontare qualcosa, ha un punto di osservazione privilegiato, ma non deve sovrastare, entra nella narrazione in punta di piedi, con rispetto, cammina a fianco dei protagonisti. Sono gli occhi del telespettatore, guardo, mi immedesimo, racconto ciò che vedo senza alterarlo.

“Che ci faccio qui?” ha raggiunto anche il teatro…

Il teatro è diventato parte di questo bellissimo percorso, mi ha permesso di rinsaldare il legame con il pubblico, con quella comunità che attende la nuova stagione del programma, ma soprattutto ha rotto la quarta parete, facendomi uscire dal virtuale per entrare in contatto fisico con le persone. Se in tv parlo pochissimo, a teatro prendo la parola, divento parte attiva del racconto, compensando quello che il piccolo schermo non riesce a descrivere. Sul palcoscenico è come se riuscissi a entrare ancora di più nelle pieghe delle storie, un esperimento che mi ha restituito forza, energia, uno sguardo ancora più attento.

Ti senti una persona soddisfatta?

Soddisfatto è una parola difficile. Io sono un perfezionista, un professionista molto esigente, che cura con attenzione maniacale ogni dettaglio del lavoro, dalla scelta delle storie al montaggio. E questo significa che trovo sempre qualcosa da migliorare, soprattutto quando il livello è alto. Però sì, sono soddisfatto come persona, perché in tutti questi anni non mi sono mai dovuto piegato a logiche che non condividevo, ho potuto esprimere liberamente il mio pensiero. E in questi tempi, questo è già un grande privilegio.

 

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