Giuseppe Battiston

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Fine osservatore delle debolezze umane

«Quando andiamo in giro per lavoro noi attori cerchiamo sempre di portarci qualcosa che ci ricordi casa…  Quello che però non deve mai mancare, ovunque io vada, è la curiosità» racconta l’attore al RadiocorriereTv e, a proposito del suo “Stucky” dice: «Studia profondamente le persone e le loro debolezze, fatica a giudicare i colpevoli, ma li inchioda, perché è determinato a capire cosa ci sia dietro all’agire umano». Da mercoledì 30 ottobre in prima serata Rai 2

Un ispettore che le è rimasto proprio nel cuore, non è la prima volta che lo incontra…

Il mio incontro con Stucky è avvenuto dal film di Antonio Padovan, “Finché c’è prosecco c’è speranza”, un’opera prima tratta dall’omonimo romanzo di Fulvio Ervas. Il film ha avuto un’ottima accoglienza e mi ha lasciato un ricordo davvero molto bello, è stata una piacevole esperienza, soprattutto l’incontro con questo personaggio che mi è rimasto nel cuore. Ho pensato subito di acquisire i diritti dei romanzi di Fulvio, un desiderio che si è trasformato in realtà grazie alla Rai. La serie è nata così e, anche se mi sono portato dietro un po’ di quella vita, la scrittura è andata, piano piano, in direzioni diverse rispetto a quelle narrate da Ervas nei suoi romanzi. Abbiamo mantenuto il cuore di quella figura e, naturalmente, le ambientazioni.

A proposito di “ambiente”, il sindaco di Treviso, parlando appunto della città, ha detto di voler “candidare” Treviso a diventare la Vigata di Stucky”…

Per comprendere Stucky e il suo mondo non possiamo fare a meno del luogo dove tutto accade. È un uomo profondamente calato nella città, la vive appieno, lo vediamo camminare senza sosta per le strade di Treviso, di mattina presto, di notte fonda elucubrando intorno ai suoi casi. È un solitario, ma non solo, frequenta l’Osteria di Secondo (interpretato da Diego Ribolla) per confrontarsi con il suo amico, è qui che si rifugia per riflettere, pensare, ascoltare e guardare, a trarre ispirazione. È in ambienti come questi, così particolari ed estremamente affascinanti da raccontare, che si trova la vita, la gente li frequenta per incontrarsi o scontrarsi, per festeggiare o amareggiarsi, è qui che si beve per dimenticare o per festeggiare, c’è continuamente ricambio di umanità. Per me questo è uno degli aspetti più interessanti di questo racconto, per questo commissario non c’è una questura, ma l’osteria dove scorre la vita.

Cosa l’ha conquistata della scrittura di Fulvio Ervas?

Personaggio e storie, ovviamente, e poi le connotazioni sono particolarmente interessanti. Ambientare dei gialli, creare situazioni in cui ci siano degli omicidi da risolvere in una città come Treviso, così tranquilla, elegante, pulita, tersa… è davvero un bel contrasto. Io l’ho trovata una cosa molto nuova, abbastanza inedita.

Come possiamo presentare Stucky al nostro pubblico?

È un ispettore capo della Polizia che affronta e risolve i casi in maniera abbastanza solitaria, ha due giovani poliziotti come assistenti (interpretati da Laura Cravedi e da Alessio Praticò), che lo scarrozzano in giro per la città, perché lui non ha la patente, non ha il telefono, è completamente asocial e questi colleghi forniscono supporto logistico e molto altro (ride).  Non è esattamente una squadra, ma sono spesso al fianco di Stucky, che non è un uomo d’azione, non lo vediamo fare inseguimenti, non brandisce armi – nemmeno le porta -, e nella ricerca dei colpevoli è mosso da una grandissima curiosità verso il prossimo. È affascinato dalle persone, vuole conoscere a fondo il contesto che ruota intorno alle vittime. Oltre ai due fedelissimi e all’amico Secondo, ha un rapporto “particolare” con Marina, un medico legale (interpretato da Barbora Bobulova) che ha una sua vita professionale e personale ben avviata, con la quale però l’ispettore ama confrontarsi sia dal punto di vista professionale – la cerca spesso per avere lumi tecnici finalizzati alle indagini -, sia umano. Insieme si trovano molto a loro agio, c’è quella che una volta si chiamava una “corrispondenza”, non proprio di amorosi sensi, ma una sintonia intellettiva e intellettuale molto bella.

L’osservazione attenta di Stucky della gente e degli ambienti rievoca lo studio maniacale della condizione umana di Balzac…

… io scomoderei anche Simenon, maestro nella descrizione dei caratteri, di cui che anche Stucky è affascinato. Studia profondamente le persone e le loro debolezze, fatica a giudicare i colpevoli, ma li inchioda, perché è determinato a capire cosa ci sia dietro all’agire umano. C’è però qualcosa che lo fa terribilmente soffrire, i suicidi, non comprende questi atti violenti, contro i quali non si può nulla. E questo lo manda fuori di testa, genera in lui un senso di impotenza che lo disorienta moltissimo.

Pensare fuori dagli schemi, un atteggiamento che stride con la contemporaneità…

È un uomo decisamente fuori dal tempo attuale, ma non fuori dal tempo, nel senso che parlare con le persone adesso sta diventando una cosa addirittura snob, ma è quello che si deve fare. Per conoscere il mondo ci si deve calare in questo, stare tra le persone che lo popolano, da questo punto di vista Stucky è fuori dagli schemi, ma non credo sia un’attitudine che potremmo definire “retrò”, al contrario lo trovo estremamente vitale, e proprio per questo mi piacerebbe che questa serie affascinasse, riuscisse a incuriosire anche il pubblico giovane.

A proposito del suo rapporto con la tecnologia e con i social disse: “La gente preferisco incontrarla a teatro”. Cosa le comunica il pubblico?

Intanto la voglia di partecipare, di essere compresente ad altri a un evento, in quest’epoca è un atto quasi rivoluzionario. Il pubblico che viene a teatro sceglie di confrontarsi con un’esperienza, che avviene lì e in quel momento e che si spera possa portare a una riflessione. Dopo il covid il teatro è ripartito con proposte solo di puro intrattenimento perché, dopo quel momento così buio, la gente voleva ridere, ora, spero, abbia anche ritrovato il desiderio di pensare. Non sono un bacchettone, detesto le tragedie, ma allo stesso modo mi imbarazzano progetti realizzati solo per far ridere di pancia e non di testa. Credo che il mix giusto sia far sì che le persone si portino a casa un sorriso, ma anche una riflessione.

Un po’ più complesso il discorso per le sale cinematografiche…

In questo settore la situazione è drammatica, per uscire dall’angolo si deve cominciare a recuperare la voglia di socialità e comprendere che un film visto in una sala, insieme ad altre persone, non è il fastidio di vestirsi e di uscire, ma è un’occasione di incontro. Il cinema va visto nel suo luogo, perché ha una dimensione completamente diversa dal salotto di casa, dalle distrazioni che l’ambiente domestico dà durante la visione, dal fatto che non riesci a lasciarti veramente andare, che puoi fermarti e riprendere la visione quando vuoi. Il cinema dovrebbe essere una decisione, non un passatempo perché non si ha niente di meglio da fare. C’è così tanta serialità in questo momento che una persona può passare la vita chiusa in casa, perdendo, però, qualcosa di più importante. Dopodiché, è anche nostro dovere fare proposte coinvolgenti e, se è vero che siamo in un momento di crisi, amo ricordare che c’è stato il film di Paola Cortellesi che di italiani in sala ne ha portati tanti. Il mio desiderio è che non sia un caso isolato, ma che la gente ritrovi il gusto di seguire delle storie in un luogo che appartiene al cinema e agli spettatori, se perdiamo il cinema, perdiamo una fetta di vita importantissima.

A proposito di teatro, è in viaggio per l’Italia con Sergeji Dovlatov e “La Valiga” … di cosa si tratta?

È uno spettacolo a cui tengo particolarmente, amo moltissimo l’autore, di cui ho letto quasi tutti i suoi romanzi, lo trovo meraviglioso, divertente, malinconico come soltanto certi grandi scrittori russi sanno essere. È la trasposizione teatrale di un insieme di racconti di natura autobiografica (fatta con Paola Rota, che ha curato anche la regia) nella quale l’autore, emigrato negli Stati Uniti alla fine degli anni ’80, ritrova in fondo a un armadio la sua vecchia valigia di cartone con la quale era partito; aprendola, riaffiorano ben trentasei anni di ricordi di vita in una Unione Sovietica folle, squinternata, tremenda, per lui, però, terribilmente vitale. Si crea un contrasto tra quella forma di libertà, che pensava di trovare negli Stati Uniti, ma che invece lui ritiene addirittura più coercitiva del regime sovietico, e la poesia, la bellezza delle figure che hanno popolato la sua giovinezza. Sono tutti i ricordi di un uomo che, lasciata la sua terra, sapeva che non sarebbe mai più ritornato in patria, c’è, quindi, un sentimento vagamente nostalgico, non certo per il regime comunista, ma per una vita che, anche all’interno di quella gabbia, lasciava spazio alla “follia”.

Cosa metterebbe nella sua personale di attore?

Quando andiamo in giro per lavoro noi attori cerchiamo sempre di portarci qualcosa che ci ricordi casa, anche se spesso ho delle valigie di cose che non uso (ride). Quello che però non deve mai mancare, ovunque io vada, è la curiosità, soprattutto se parliamo di viaggi teatrali, quella per i luoghi che vado a visitare. Siamo tutti diversi noi italiani ed è diverso il pubblico, così come la fruizione degli spettacoli nelle varie zone d’Italia, e non dobbiamo dimenticarlo. È affascinante capire quale tipo di dialogo si stabilisce allora con la gente che incontri, condividere le emozioni di una calorosissima accoglienza da parte del pubblico, che commuove ogni volta perché non è mai scontata.

L’interesse per la gente, è un po’ Stucky anche Battiston…

Credo che siamo tutti, si tratta solo di trovare il coraggio di mettere il naso fuori di casa. Questa è la grande sfida.

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LA PORTA MAGICA

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Il coraggio di cambiare

Alle cinque del pomeriggio su Rai 2 per raccontare le storie e le emozioni della gente comune: una finestra sull’Italia e sugli italiani che la conduttrice vive con grande entusiasmo: «Un progetto ambizioso quasi da prima serata e che noi, invece, facciamo tutti i giorni». E ancora: «Io sono le storie delle persone che ho incontrato. Ascolto tantissimo, ho imparato molto dagli altri»

 

Sin dalle prime puntate l’abbiamo vista a proprio agio, un incontro azzeccato quello con “La porta magica”…

Mi sono innamorata del format dopo averne visto dei pezzi in passato. Ora, rimaneggiato in Italia, “La porta magica” ha un potenziale enorme, spero di essere all’altezza di quel potenziale (sorride).

Al termine della prima settimana di messa in onda la mission del programma appare chiara.

Dobbiamo cercare di fare divertire dando una speranza, che nella vita può essere ovunque. Dietro l’angolo, in un bar, dallo psicologo, al supermercato, in un programma televisivo, vogliamo essere un luogo in più in cui puoi trovare una scintilla.

In quali mondi ci porteranno i protagonisti del programma? Quali storie avete scelto?

Ci sono storie leggere che possono rappresentare tanti di noi. Nel corso della prima settimana abbiamo incontrato una signora che dopo quarant’anni ha ritrovato sulla sua strada quello che fu il suo primo fidanzatino e tra loro è rinata una relazione. Un tempo andavano in giro in moto, cosa di cui lei però oggi ha paura, e per questo motivo ci ha chiesto di insegnarle di nuovo a salire su una motocicletta, per potere fare una sorpresa al suo compagno. Ci sono poi storie più profonde, come quella di una mamma che ha un figlio con uno spettro autistico, ragazzo che ama follemente il racconto e la scoperta dei luoghi storici. Fino a ora è sempre andato in giro accompagnato, ma a breve sarà maggiorenne e potrà farlo da solo. È stato un nostro coach a seguirlo per la prima volta tra i monumenti di Torino dandogli importanti consigli. L’emozione è stata molto grande per la mamma, il figlio e tutti noi.

C’è un tratto che accomuna queste storie e queste vite?

Il fatto di non essersi arresi. L’averci scritto, anche se in modo spensierato, vuol dire che vuoi ancora provarci. Quindi c’è ancora la possibilità. Il non arrendersi è sempre stato il motto della mia vita. Anche per questo ho accettato il programma, che è una sfida complicata, che ha un orario di messa in onda difficile. Un progetto ambizioso quasi da prima serata e che noi, invece, facciamo tutti i giorni.

Che rapporto ha con il cambiamento?

Ne sono sempre incuriosita. Personalmente ho capito che stavo cambiando verso i quarant’anni. Ora sono in piena conoscenza di me stessa, è come vivere con una persona nuova ogni giorno, e mi va bene. È chiaro, vorrei avere la resistenza fisica di quando avevo vent’anni, quando dormivo una notte su tre, ma questa è un’altra cosa (sorride).

Un cambiamento che può riguardare anche il nostro aspetto estetico…

Siamo finalmente in un contesto storico in cui possiamo essere rappresentati veramente da noi stessi ed essere quello che vogliamo, vestirci come vogliamo, piacerci. A volte ci sono persone che sono bloccate, perché pensano di dovere interpretare dei personaggi per essere accettate. Ma è importante cercare di andare oltre. Saper accettare il cambiamento significa anche saperlo accompagnare. Penso ad esempio a quando una donna viene operata di tumore al seno e deve fare terapie che la portano spesso a perdere i capelli. Un momento molto difficile. Ecco, ci sono molti ospedali che hanno sezioni che preparano parrucche, ti insegnano a tenerla, a scegliere i colori, a truccarti il viso.

È possibile trasformare la nostra vita senza perdere di vista ciò che siamo e siamo stati?

Una domanda complessa. Sono molto legata al mio passato, di cui vado fiera. Sono fiera anche delle persone che mi hanno cresciuta, che ho incontrato nel corso della mia vita. È tutto molto dentro di me. Ma a volte hai bisogno di sapere che non sei solo le tue radici, sei tu.

Nel corso degli anni tra radio e televisione ha raccontato e incontrato tantissime storie e altrettante persone, come hanno influito su ciò che è lei oggi?

Totalmente, io sono le storie delle persone che ho incontrato. Ascolto tantissimo, ho imparato molto dagli altri. Ci sono persone che hanno sbagliato al posto mio, al posto nostro. Abbiamo imparato dai loro errori senza doverli fare di nuovo. È un lusso che abbiamo tutti, se riusciamo ad ascoltare ci mettiamo in una posizione di vantaggio.

Chi è Andrea oggi?

Una donna di 42 anni in piena trasformazione, felice di quello che sta facendo. Pronta a cadere, a rialzarsi, a vedere come vanno le cose.

Questo è sufficiente per definirla una donna felice?

Sì. Se penso al punto da dove sono partita, un’adolescente in cerca di se stessa, sicuramente.

Ha dato sempre grande importanza alle parole, ce n’è una che racconta più di altre il suo oggi?

Potrebbe essere indipendenza. Indipendenza da tutto. Non parlo di quella adolescenziale, ma di quella vera. Oggi sono me stessa, forte di quello che ho costruito.

L’indipendenza è cosa faticosa…

Arrivarci sì (sorride), in quanto a tenerla sta andando bene. Chissà quanto durerà, spero per sempre.

Cosa rappresenta per lei la Rai?

La Rai per me è casa. Ci sono arrivata dopo tanti anni di gavetta, mi ha accolta e mi ha dato la possibilità di crescere. E questa è un’occasione che poche persone riescono ad avere, se penso a quante vogliono fare il mio lavoro in Italia.  Sono molto grata di quello che è successo. La radio mi ha dato anche la certezza di non essere solo un’immagine. A volte ti viene il dubbio. Quando passi dalla radio capisci se questo lavoro lo sai fare.

Il suo augurio al Servizio Pubblico?

Di stare sul futuro, che sia ancora più fruibile da parte di tutti anche attraverso le nuove tecnologie.

 

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Apulia Digital Experience

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Dal 25 al 27 ottobre l’Apulia Film House di Bari ospiterà la Conferenza internazionale sull’innovazione digitale nelle industrie creative. L’intelligenza artificiale, i contenuti immersivi, gli sviluppi del metaverso saranno al centro della tre giorni organizzata da Rai Com e Apulia Film Commission e finanziata dalla Regione Puglia

Al via la seconda edizione di ADE, Apulia Digital Experience, Conferenza Internazionale che si svolgerà a Bari dal 25 al 27 ottobre all’Apulia Film House (Fiera del Levante). Tre giorni di panel, tavole rotonde e contest, dedicati all’innovazione digitale nelle industrie creative e al ruolo dell’Intelligenza Artificiale nel processo produttivo di cinema e audiovisivo.

«Si apre la seconda edizione di Apulia Digital Experience, un appuntamento fortemente voluto da Apulia Film Commission a partire dal 2023 – afferma Anna Maria Tosto, Presidente di Apulia Film Commission – Ancora una volta, lo sguardo lungimirante assunto fin dalla sua costituzione, dalla Fondazione, la porta a intraprendere iniziative destinate ad individuare anticipatamente le esigenze del mondo produttivo dell’audiovisivo e a ricercare le soluzioni per soddisfare quelle esigenze. L’avvento dell’IA nel sistema produttivo comporta ricadute specifiche, proprie del settore dell’audiovisivo: ad esse vuole guardare ADE per esplorarne ogni potenzialità e, al tempo stesso, per disinnescarne eventuali rischi comportanti effetti negativi sullo sviluppo e la crescita di quanti si muovono in quel settore. Resettare il sistema esistente per governare il nuovo: questa la sfida che ci attende e questa la finalità’ di un evento immaginato da AfC e Rai Com. Il successo conseguito da ADE lo scorso anno rappresenta la conferma che si è intercettata una domanda importante delle produzioni e che occorre proseguire con questo appuntamento destinato al confronto, alla ricerca ed all’aggiornamento».

 «Dopo la positiva esperienza dello scorso anno, la seconda edizione di ADE rappresenta un ulteriore passo avanti, in qualità e impegno, per focalizzare l’attenzione sul futuro dell’industria cinematografica e audiovisiva, di fronte alla rivoluzione dell’introduzione di tecnologie digitali rivoluzionarie – dice Roberto Genovesi, Direttore Artistico di ADE e Direttore del settore Progetti Speciali di Rai Com –  L’Intelligenza Artificiale e il metaverso stanno ridefinendo le modalità di creazione, produzione e fruizione dei contenuti, offrendo nuove opportunità e sfide. Questa conferenza internazionale mira a esplorare come l’innovazione tecnologica stia trasformando il settore, portando la creatività a un nuovo livello. Siamo orgogliosi di riunire esperti e professionisti da tutto il mondo per discutere e plasmare il futuro delle industrie creative».

Preview di Apulia Digital Experience giovedì 24 ottobre alle 20.30 al cinema Galleria Multisala di Bari con l’anteprima del film d’animazione “Flow – Un mondo da salvare” che, dopo i consensi ottenuti ai festival di Cannes e di Annecy, è in corsa per l’Oscar. La proiezione sarà aperta al pubblico e gratuita fino a esaurimento posti. Molti i panel in programma sul palco dell’Apulia Film House da venerdì 25 ottobre, da Evolving landscapes: is technology nurturing vreativity?, con l’analisi degli scenari digitali connessi agli universi della creatività ad AI in Film & Audiovisual, sulle opportunità e sulle sfide create dall’Intelligenza Artificiale. E ancora Movies in the Metaverse, Metaverse in the Movie theatre, su come i luoghi tradizionali del cinema si stanno adattando al cambiamento aprendosi a esperienze virtuali e The AI Act: Implications for the Film And Audiovisual industry, con uno sguardo alla regolamentazione, alle sfide future e alle recenti introduzioni nel sistema italiano di incentivi fiscali al settore. Attesa la rotonda Building Global IPs, dedicata allo sviluppo delle IP di successo in universi multipiattaforma, i panel Building immersive storytelling: Vr, Ar & Metaverse sull’impatto delle tecnologie immersive sulla narrazione; Virtual production for Film and Audiovisual, dagli effetti visivi in real-time agli ambienti digitali, passando per la motion capture; Digital transformations: the new frontier of content sull’adattamento e sull’evoluzione del contenuto nell’era digitale; Technological advancement in Animation and Vfx sull’ottimizzazione dei processi e lo scouting di talenti, e ancora incontri sugli scenari digitali connessi agli universi della creatività, su come le innovazioni digitali stiano  rimodellando il licensing e creino nuovi business per l’industria, sull’impatto delle tecnologie immersive sulla narrazione.

Ad Apulia Digital Experience anche i contest Digital licensing excellence awards, primo premio a livello globale che celebra i progetti di licensing digitale, e A visual storytelling of Puglia through AI, che promuove l’applicazione dell’Intelligenza Artificiale per creare e produrre racconti innovativi sulle bellezze geografiche e sul patrimonio culturale.

Tra gli ospiti che prenderanno parte ai lavori di ADE Derrick De Kerckhove, Maria Pia Rossignaud, Gennaro Coppola CEO One More Pictures and Vice President Unione Editori e Creators Digitali ANICA, Marina Lanfranconi, Principal of KPMG Intellectual Property, Media and Technology Practice, Diego Grammatico Business Development Executive, Games London, Daniele Lunazzi, Head of Product Marketing, Juventus Football Club, Omar Rashid, Immersive Film Director, Nicola Di Meo, CEO Unspace, Marco Lanzarone, Director of Digital Radio and Podcast Rai, Antonio Parente, Direttore Apulia Film Commission, Paola Furiosi, Director, PwC Legal, Euclide Della Vista, Presidente Fondazione ITS Apulia Digital Maker, Steve Manners, Licensing International UK, Alessia Auriemma, Metaverse Manager, PwC Italy.

Promosso da Rai e realizzato sotto la Direzione Artistica di Roberto Genovesi, Direttore del settore Progetti Speciali di Rai Com, Apulia Digital Experience è un evento organizzato da Rai Com e Apulia Film Commission e finanziato dalla Regione Puglia, nell’ambito dell’intervento “Promuovere il Cinema 2024” a valere su risorse POC Puglia 2014-2020, Azione 6.7.

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BINARIO 2

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Il buongiorno tra la gente

Carolina Di Domenico, Andrea Perroni e Gianluca Semprini conducono il nuovo people show del mattino in diretta dalla Stazione Tiburtina di Roma. Dal 21 ottobre, dal lunedì al venerdì, dalle 7.15 alle 8.15 su Rai 2

 

Giù dal letto al mattino… con il piede destro o il sinistro?

ANDREA: Con entrambi i piedi, perché se uno cede l’altro sostiene (sorride).

CAROLINA: Oddio! Entrambi… forse… non ci ho mai fatto caso, soprattutto alle cinque del mattino.

GIANLUCA: Dal lato in cui sto con il piede sinistro.

Il vostro rito del mattino…

ANDREA: Sono dipendente dal caffè, rigorosamente amaro. Immancabile anche quando il mio colon irritabile fa le bizze. Assumo la tecnica di mangiarci sopra (sorride). Non rinuncio mai. Del resto, non ho riti particolari perché non sono scaramantico.

CAROLINA: Dipende da quello che dovrò fare nel corso della giornata. Se mi sveglio presto do poco spazio al relax, salto anche la colazione. Al contrario, quando posso, sono contenta di prendermela con più calma.

GIANLUCA: Do da mangiare subito ai miei due gatti che mi cominciano a girare intorno. E poi ci sono i miei figli…

Più impegnativi i figli o i gatti?

GIANLUCA: I figli, soprattutto gli ultimi, i gemelli, al mattino non si sbrigano mai (sorride), da ora in poi toccherà a mia moglie.

Quanto tempo deve passare dallo squillo della sveglia perché appaia sul vostro volto un primo sorriso?

ANDREA: Di base sono predisposto al sorriso, è di default, anche se a volte non lo mostro. Mi capita di sorridere anche semplicemente scorrendo la chat degli amici, quelli di sempre, o vedendo un video. Amo molto quelli delle cadute, mi diverte la comicità fisica.

CAROLINA: Sono abbastanza mattiniera e serena, divento operativa quasi immediatamente. È stato così sin da ragazza, quando mia madre mi svegliava e mi diceva immediatamente 350 cose: forse è questo ad avermi insegnato ad avere subito il cervello acceso.

GIANLUCA: Ho già lavorato tanto in radio la mattina presto, il sorriso non manca. Sei in una sorta di bolla, lì per lì non te ne rendi conto, poi arrivi a mezzogiorno e ti chiedi chi sei.

C’è un brano musicale, una canzone, che possono rendere più lieto il vostro risveglio?

ANDREA: Ce ne sono tanti, penso a “Mornin’” di Al Jarreau, a “The dock of the bay” di Otis Redding, solo per citarne un paio.

CAROLINA: C’è una consuetudine, che ho adottato da un po’ di tempo, ascolto un podcast che fa la rassegna stampa: accade mentre faccio colazione e mi preparo, mi piace avere un panorama di quello che succede.

GIANLUCA: A seconda dell’umore. Quando entro in macchina accendo invece la radio sulle notizie.

A uso e consumo dei vostri compagni di viaggio, c’è qualcosa che proprio non bisogna chiedervi di prima mattina?  

ANDREA: “Perché sei arrivato tardi?” Una domanda della quale conosco la risposta, ed è “per divertirmi di più”. Amo molto l’improvvisazione, soprattutto in un programma che va in onda per 177 puntate dove il rischio di abituarsi alla routine è facile. Devi essere bravo ogni giorno a crearti un imprevisto buono.

GIANLUCA: Come sarà l’organizzazione del resto della giornata, tipo “cosa facciamo stasera?”. Arrivarci a stasera (sorride).

Il vostro ruolo a” Binario 2” …

ANDREA: A tutti gli effetti il conduttore insieme a Carolina Di Domenico. Gianluca Semprini è con noi, e di questo siamo molto felici, porta l’informazione che vogliamo affrontare in maniera molto leggera. Il nostro sarà un gioco di squadra, un palleggiamento, io lo chiamo fare jazz, dove è importante essere in ascolto.

CAROLINA: Arrivare alle 8.15 (sorride). Andrea ha la tendenza ad aprire molte parentesi, io avrò il ruolo di traghettare il tutto fino a raggiungere degli obiettivi tenendo le fila.

GIANLUCA: Darò notizie e racconterò storie, a uso e consumo di Carolina e Andrea e del resto del racconto. Cercheremo anche di capire quali siano le notizie di cui discute la gente mentre viaggia, mentre esce di casa.

Che rapporto avete con i treni e con le stazioni?

ANDREA: Sono figlio di un tramviere e questo mi ha portato a familiarizzare con gli autobus, un ambiente molto simile a quello delle ferrovie: i rumori, le botte di aria compressa che partono di tanto in tanto. La stazione è un crocevia di vite che si sfiorano, di individualità che vanno al lavoro, è un romanzo da scrivere ogni giorno.

CAROLINA: Ho delle abitudini che tendo a rispettare. Per me, ad esempio, il treno all’ultimo momento non esiste, devo arrivare in anticipo altrimenti non sono in grano di gestire il tempo, per me dieci minuti possono essere dieci secondi. La stazione mi ha sempre portato a cose belle: il treno e il viaggio sono anche occasioni di riflessione, di preparazione.

GIANLUCA: La stazione Tiburtina fortunatamente è vicina a casa, e per questo è la mia stazione d’elezione. Non mi dispiace viaggiare in treno, però devo farlo secondo il senso di marcia altrimenti mi sento male. Quando salgo sono sempre con il fiato sospeso non sapendo in che senso viaggerò.

Chi vorreste incontrare in una stazione ferroviaria?

ANDREA: Quegli eroi precari che quotidianamente onorano una passione e una necessità, anche con grande sacrificio. Raccontare le storie di chi lavora e porta avanti il Paese per dare luce e speranza al cambiamento.

CAROLINA: Non la vedo come luogo di incontri, ma mi piace molto guardarmi attorno, immaginare le storie delle persone. Non mi metto a farmi i fatti degli altri, ma osservo molto.

GIANLUCA: Friedkin il presidente della Roma, per dirgli: “Ma che avete in testa?”. Ma soprattutto vorrei incontrare mia figlia grande, Federica, ha 23 anni e vive a Milano, la vedo poco. Mi piacerebbe tanto incontrarla per caso.

Cosa avete pensato quando vi è stato proposto di prendere parte a “Binario Due”?

ANDREA: Ho pensato che fosse arrivato il momento di rischiare. Avevo trovato il mio centro, il mio equilibrio a “Radio 2 Social Club”, dove sono stato per quindici anni, e che considero tutt’ora casa mia. Questa è una possibilità irrinunciabile.

CAROLINA: Che era una grande occasione, che ero felice di farla con Andrea che, pur conoscendo da tanto tempo, non ho mai avuto come compagno di lavoro. Lui è una persona un po’ di famiglia per me. E poi ho sentito entusiasmo da parte di tutti, una cosa per me trascinante: ci sono i presupposti per partire carichi.

GIANLUCA: Sono stato molto contento. Essere nel ruolo di colui che deve dare notizie e al tempo stesso intrattenere non mi dispiace affatto.

Come vivete le nuove sfide?

ANDREA: Sono molto fatalista, detto questo credo che sia giusto avere un progetto, prepararsi e trovare anche una propria stabilità psicologica per affrontarlo. Nonostante l’ambizione, la regola numero uno è comunque quella di non avere troppe aspettative, che possono essere tradite da qualsiasi cosa.

CAROLINA: Non mi agito di fronte alle sfide e cerco di ovviare all’ansia con la preparazione. Cerco di studiare, ho un po’ un approccio da “secchiona”, ma essere preparata mi fa stare tranquilla e mi fa godere la sfida.

GIANLUCA: Sono abbastanza freddo. Non mi esalto quando le cose vanno bene e non mi deprimo quando vanno male. Cerco di avere in testa l’obiettivo e gli strumenti per raggiungerlo.

Come saluterete i nuovi amici del mattino di Rai 2?

ANDREA: dirò loro che staremo insieme un bel po’ di tempo e che in un modo o nell’altro dovremo diventare amici. “Da parte mia ce la metterò tutta, spero che lo facciate anche voi, perché quando lo si vuole in due, nascono cose belle”.

CAROLINA: Il programma sarà molto ricco e ci sarà molta festa, ma vista l’ora saluterò nel più classico dei modi, con un semplice “buongiorno”.

GIANLUCA: Non ci ho pensato, ma spero con una buona notizia che faccia un po’ rasserenare, rallegrare e pensare.

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LUCA BARBARESCHI

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Un momento magico

Le sfide del sabato sera a “Ballando con le Stelle”, la conduzione di “Se mi lasci non vale”, nuovo docu-reality del lunedì di Rai 2. Il popolare showman si racconta al RadiocorriereTv: «Il palcoscenico è la mia vita. Sin da bambino facevo ridere e intrattenevo, a casa come a scuola». L’emozione più grande? «Andare in scena. La gente ti dà energia, lo senti quando entri in sala. Se hai la capacità di prenderla e di restituirgliela il pubblico ti adora»

 

Un autunno nel segno delle sfide, come sta Luca?

In forma, centrato, come si direbbe per un atleta che deve fare le Olimpiadi. Ho due programmi, un film, sto scrivendo un film nuovo, una nuova fiction, stiamo lavorando come dei pazzi e io sono molto contento perché, malgrado l’età, riesco a usare meglio le mie energie (sorride).

“Se mi lasci non vale”, partiamo dal titolo per raccontare l’idea che sta dietro al programma…

L’idea è quella di fare un reality normale, chi ha voluto fare polemica è andato contro un muro da solo. “Se mi lasci non vale” non c’entra nulla con altri programmi, protagoniste sono coppie normali che mettiamo al centro di un esperimento sociale, molto garbato, leggero, molto analitico nei problemi reali. La gente è abituata a essere ripresa, a stare davanti allo schermo, a fare selfie, siamo nella generazione del post reality, non c’è voyerismo, paradossalmente cerchiamo di mettere a confronto i componenti delle coppie sui problemi più semplici e più banali.

Per lei è un po’ un ritorno al passato…

Ho fatto 1.400 puntate di “C’eravamo tanto amati” tra Italia e America, e potrei farne altre 1.400, è un lavoro potenzialmente infinito, considerando quanto è frastagliata l’intermittenza dei cuori, dei sentimenti. La gente è talmente sorda all’amore, all’ascolto: sente ma non ascolta, guarda ma non vede, parla ma non pensa a quello che dice. Rimettere ordine a queste cose all’interno di una coppia è una scommessa divertente, io agisco dalla sala di regia come fossimo in una specie di “Truman Show”, a volte esco e piombo in mezzo alle situazioni come una sorta di grillo parlante, ma sempre in maniera molto garbata, non ci sono pruderie. È gente normale che qualche problema ce l’ha, e tu cerchi di affrontarlo, ti accorgi che tutto può diventare tragedia ma anche commedia.

Lei è un grande osservatore, quali sono le cause che fanno entrare in crisi una coppia?

Prendi una macchina Balilla e mettile il motore di una Ferrari, quando inserisci la seconda si stacca la portiera. La struttura matrimoniale ottocentesca, fatta di balle, di mariti che andavano al casino prima di tornare a casa, di coppie che facevano l’amore tre volte giusto per fare i figli, di mogli che dovevano solo cucinare e stirare, non esiste più, la società oggi non è quella ottocentesca. Per questo è necessario che i componenti di una coppia si conoscano bene. Si sposa gente improbabile, dico, ma vi siete parlati? Vi siete conosciuti? Li hai visti i genitori del tuo futuro marito o di colei che sarà tua moglie? Perché nel novanta per cento dei casi, si diventa uguali al proprio padre o alla propria madre, lo scarto è veramente minimo. Il matrimonio dovrebbe essere impostato in una maniera totalmente diversa. Quando decidi di sposarti inizia un’avventura complicatissima fatta da due perfetti sconosciuti che hanno un DNA e un’educazione che sono molto diversi. Non è possibile fare un figlio sull’onda dell’entusiasmo di una notte, o semplicemente perché una ragazza ti attrae. I social, questo mondo finto, orribile, hanno fatto sì che i riferimenti siano gli influencer, che danno consigli da un pulpito inesistente. Non c’è mai stata tanta facilità di comunicazione e al tempo stesso una così grande assenza di reali notizie come in questo periodo. Una coppia dovrebbe riflettere su cosa succederà dopo il primo figlio, dopo il secondo, su cosa significhino il rispetto dell’altro nelle fatiche, nelle malattie, nei dolori, partendo dal fatto che, come esseri umani, cambiamo ogni 5-6 anni, in noi convivono tante persone diverse.

Più difficile lasciare, essere lasciati o provare a salvare la relazione?

Salvare una relazione, ed è la scommessa più bella. Nel rapporto di coppia devi solo scavare e riportare alla luce i diamanti che sono le persone, che in realtà sono nascosti sotto tante sovrastrutture. Tutto il resto è inutile, vedo donne e uomini che si rifanno totalmente sperando di avere la giovinezza eterna, forse anche pensando di continuare a mantenere l’interesse erotico del marito o della moglie. In palestra vedo gente pompata sopra, sotto, invece, una gambina con lo stemma maori. Tutto questo mi fa molto ridere, penso risponda a forme di fragilità, a una mancanza di personalità, al desiderio di appartenenza tribale a qualcosa che non ti appartiene. In realtà alcuni sono tatuati perché sono fragili, più tatuaggi hanno, meno hanno personalità, se la sono dipinta, ma non ce l’hanno. Pensiamo anche ai bambini, io li manderei a scuola col grembiule o con la divisa fino a 14 anni, mentre oggi i genitori li travestono già da modelli, con abiti firmati sin dall’asilo. Io andavo a scuola col grembiule e la mia personalità era quello che c’era sotto. Tutto questo si riflette anche nella coppia, nel rispetto dell’altro, anche in relazione alle malattie. Oggi ti sposo, ma se mi viene l’Alzheimer sarai con me? Come cantavano i Beatles, “Will you still love me when I will be 64?”. Il tema è questo qua.

Lei crede nella coppia?

Credo nella coppia e, malgrado abbia sbagliato, ci riprovo ogni volta. La condivisione a due di momenti di bellezza, di un tramonto, di un film, di un libro, o il sorriso di un bambino, è molto più bello della solitudine. E poi le società che smettono di vivere in comunità muoiono.

Passiamo al sabato sera, al suo “Ballando”. Come è stato ritrovare Luca showman?

Per me molto emozionante, è stato come ritrovare la parte più bella di me, che è quella per cui sono nato. Sono nato showman a scuola, dove facevo ridere, a casa, dove cercavo di intrattenere mia madre che vedevo poco: cercavo di riconquistarla dopo che mi aveva abbandonato. Facevo ridere mio padre, che vedevo piangere perché viveva solo, e gli suonavo la batteria e il pianoforte. Ho dentro questa roba qua che trasmetto al pubblico. Quando salgo su un palco mi accendo e di colpo sono a mio agio. Accade in Tv come in teatro, ed è anche una maniera per sconfiggere la morte perché penso che, se faccio molto bene un personaggio, che sia Riccardo III, Amleto o qualsiasi altro, magari quella sera arriva la morte non mi riconosce e se ne va.

Come è cambiato nel tempo il suo rapporto con il pubblico?

La gente ti dà energia, lo senti quando entri in sala. Se hai la capacità di prenderla e di restituirgliela, il pubblico ti adora. Che tu sia musicista, pittore, scultore, attore, la vita artistica è fatta di periodi, legata alla tua età, al tuo cuore, al tuo dolore, alla tua fatica, alla malattia, alla vicinanza della morte, che è un passaggio inevitabile per tutti noi. Io vado ancora come in moto, come fossi un ragazzino (sorride). Ogni tanto poi freno e penso di avere un angelo custode: a 70 anni, con una moto che fa i 260 km all’ora, potrei andare anche più piano. Ogni tanto mi dimentico, ho una testa complicata.

Il complimento più bello che ha ricevuto in queste settimane…

Che sono una persona sincera.

Il suo augurio a Luca…

Di tener duro.

 

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MIKE – L’eterna Allegria

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Due giornate dedicate a una leggenda della tv, andando a svelare l’aspetto più intimo, e più difeso, del conduttore. Il RadiocorriereTv ha intervistato il cast principale, Elia Nuzzolo, Claudio Gioè, Valentina Romani e il regista Giuseppe Bonito. Il 21 e il 22 ottobre in prima serata Rai 1

 

Una vita complessa, tormentata e fatta di distacchi familiari, e poi i primi passi nell’intrattenimento di qualità (dalla radio alla nascita della tv). Mike Bongiorno è per tutti una leggenda. Cosa vi ha convinto a dire “Rischio tutto” e mi metto in gioco?

Elia Nuzzolo: Per un giovane attore come me è stata un’occasione incredibile, un grande onore. Un viaggio incredibile ho potuto intraprendere con più serenità grazie al sostegno di un regista bravissimo, che ci ha guidato egregiamente. Insieme a lui abbiamo lavorato molto tempo per individuare la chiave giusta per dare valore al personaggio, ma soprattutto per far emergere l’uomo Mike.

Claudio Gioè: La prima domanda che ci siamo fatti non è stata “perché fare una fiction su Mike Bongiorno”, ma “perché non farla”! Stiamo parlando di una vita straordinaria, che attraversa la nostra storia recente, fotografia un’Italia nei suoi momenti più difficili, affronta il periodo immediatamente dopo la Seconda guerra mondiale, quella del boom economico, quando per la prima volta le persone si confrontano con i mezzi di comunicazione di massa. Credo che oggi sia necessaria una riflessione su “da dove veniamo” e “dove stiamo andando”, è utile per spingerci tutti a riflettere un pochino di più sul ruolo della televisione, su ciò che oggi è diventata, sui propositi che hanno accompagnato la sua nascita e come la stiamo trattando oggi. Abbiamo fatto del nostro meglio per avvicinarci alla temperie di quegli anni e aprire una riflessione per il futuro.

Valentina Romani: Uno degli aspetti più interessanti del nostro mestiere è quello di avere il permesso di conoscere cose che prima ignoravi. Girando questa serie mi sono resa conto di ignorare molto della vita di Mike, e questo è stato un aspetto molto interessante su cui lavorare, una spinta per andare più a fondo. E poi era una scusa bellissima per tornare a lavorare con Giuseppe, un regista che stimo molto, con cui si lavora molto bene, anche con divertimento, un ingrediente fondamentale.

Giuseppe Bonito: Il carburante principale è stata la curiosità. Non nascondo che all’inizio ero molto spaventato, sapevo bene quello che non avrei voluto raccontare, ovvero quello che tutti già sappiamo. Per me ha senso fare qualcosa se si porta allo spettatore il proprio percorso di conoscenza e all’inizio ovviamente era un’incognita. Poi ho avuto il problema contrario, conoscendo più a fondo il mondo di Mike, c’erano così tanti motivi degni di racconto che, alla fine, con Salvatore De Mola, lo sceneggiatore, avevamo il problema di come riuscire a far entrare tutto. Devo dire però che è stato un viaggio sorprendente, e spero che questo arrivi allo spettatore.

Quale è stata la parte più difficile nell’essere Mike?

Elia Nuzzolo: Forse immedesimarmi. La parte più difficile è stata capire cosa avesse significato vivere quella parte della sua vita, le drammatiche esperienze di Mike durante la guerra, la detenzione e, una volta libero, la possibilità di ricominciare una vita in America con suo padre. È stato un lavoro complesso arrivare nella profondità del suo animo.

Claudio Gioè: Per me, vista la chiave estremamente interessante adottata da Giuseppe e dalla sceneggiatura, probabilmente è stato proprio trovare il Mike dietro le telecamere, rappresentare il suo aspetto più intimo, quando era da solo a casa, quando chiamava sua madre al telefono, o mentre riceveva la notizia della perdita di suo padre. Tutti i lati del carattere, insomma, che il suo pubblico non ha potuto cogliere e che noi abbiamo tentato, con responsabilità, di mettere in scena in maniera credibile, rimanendo il più possibile aderenti alla sua personalità così complessa.

Valentina, a lei il compito di portare in scena una donna – Daniele Zuccoli – che per quarant’anni è stata accanto a Mike Bongiorno, realizzando il suo sogno di creare una famiglia felice…

Valentina Romani: Sicuramente il racconto di questo amore che esiste perché è destinato ad esistere, è una cosa straordinaria. Soprattutto se penso oggi quanto facciamo fatica a renderci accoglienti a ciò che la vita ci propone. Quello che mi ha colpito è stato proprio questo un amore nato con gentilezza, ma così intenso, molto profondo, tanto da far diventare l’uno il punto di riferimento dell’altra e per sempre, qualcosa che solitamente siamo abituati a sentire solo nelle favole. Quando questo accade nella vita reale è un qualcosa di estremamente prezioso, da custodire con amore.

Cosa rimane dell’Allegria così amata da Mike?

Giuseppe Bonito: Il paradosso è che nel nostro racconto questa è una parola che non verrà pronunciata da Mike, ma dal giornalista Sebastiano Sampieri (un personaggio che non è esistito realmente), l’uomo che conduce questa sorta di intervista-seduta psicanalitica che accompagna le vicende umane e professionali del nostro protagonista. Il senso di tutta la nostra storia sta proprio nel discorso finale del personaggio interpretato da Paolo Pierobon, che incarnano ciò che Daniela (Zuccoli, moglie di Mike) mi ha raccontato privatamente. In queste parole è custodita l’eredità di Mike Bongiorno, e spero che lo spettatore abbia voglia di arrivare in fondo alla serie per capire.

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DON MATTEO 14

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Un crocevia di sentimenti

«Ci hanno spalancato le porte, e non è scontato» è un po’ il mantra che ripetono i nuovi protagonisti della quattordicesima stagione di una serie che da ben 25 anni ha conquistato il cuore del pubblico. Il RadiocorriereTv ha raccolto le loro esperienze. Ogni giovedì in prima serata Rai 1

 

EUGENIO MASTRANDREA

Dopo molte esperienze all’estero, è un ritorno per lei…

Nel 2021 e nel 2022 ho lavorato tantissimo all’estero, questo progetto rappresenta, dunque, un felicissimo ritorno a casa, in una serie così amata nel nostro Paese. Sono contento di recitare interamente nella mia lingua, non perché farlo in inglese non sia divertente, ma perché è una sfida più complessa, più difficile.

In che senso?

Esprimersi nella propria lingua madre ci costringe a pensare di più come attori, si comprende meglio il senso di tutto, c’è uno sforzo emotivo superiore. Farlo poi in una serie che riscuote tantissimo affetto, che è entrata nella storia della televisione, è straordinario. Ne avverto, però, anche un certo peso e responsabilità (sorride).

Ci presenta il suo Capitano?

Diego Martini, nuovo capitano della caserma dei Carabinieri di Spoleto, uomo rigorosissimo, ligio al dovere e al ruolo che ricopre. Sentimentalmente direi molto confuso, non sa proprio cosa deve fare con la sua vita affettiva. Il trasferimento a Spoleto non è certo arrivato per caso, ma lo ha richiesto per “riconquistare” la sua ex fidanzata Vittoria che, guarda caso, è la nuova PM (Gaia Messerklinger). Ma la vita, si sa, ci sottopone sempre a nuove e imprevedibili sfide…

Cosa ha significato per lei entrare a far parte di questo cast?

Credo che una serie di questo tipo, che va avanti da tantissimo tempo, porta con sé naturalmente delle dinamiche umane e relazionali molto strutturate. Venticinque anni di storia hanno permesso che si creasse un gruppo – di attori e di maestranze – unito, molto affiatato, una famiglia nella quale io, come gli altri nuovi attori, siamo entrati in punta di piedi, ma meravigliosamente accolti. Non mi era mai successo di far parte di un team circondato da così tanto affetto, tra noi si è stabilito subito un legame molto forte, ci vogliamo bene.

 

FEDERICA SABATINI

Come si è sentita nella famiglia di “Don Matteo”?

Direi benissimo, abbiamo trovato un ambiente molto accogliente, dei grandissimi professionisti, persone sempre pronte a supportarsi certamente sul lavoro, ma soprattutto umanamente. Si sono potute create tantissime connessioni, anche personali che, per come sono fatta io, sono un valore fondamentale.

Ci presenta il suo personaggio?

Nella serie interpreto Giulia, la sorellastra di Don Massimo, una ragazza molto dinamica che dal nulla piomba nella vita del fratello, dopo un’assenza di ben quattordici anni. Con sé porta però tutti i suoi guai e tanto scompiglio. È molto istintiva, riflettere non è il suo forte, ma ha un gran cuore e, un po’ alla volta, vedremo se riuscirà a entrare in quello del fratello. Puntata dopo puntata emerge il suo estremo bisogno di amore familiare, e in questo giocherà un ruolo fondamentale la mitica Natalina – interpretata magistralmente da Nathalie Guetta -, mediatrice perfetta del percorso affettivo.

Com’è stato lavorare a stretto contatto con Raoul Bova?

Molto piacevole, ci siamo confrontati molto per rendere la relazione tra i nostri personaggi più vera, per fondere le caratteristiche dell’uno e dell’altra. Tra Giulia e Don Massimo esiste un passato di conflitto, ma lavoreranno per trovare un punto di incontro, un equilibrio, esattamente come abbiamo fatto io e Raoul, con meno difficolta però (ride).

 

GAIA MESSERKLINGER

Che aria tira a Spoleto per la nuova PM?

Innanzitutto, diciamo che ci sono un sacco di crimini e per Vittoria il lavoro non manca mai. È una donna in carriera, dal punto di vista professionale ha sicuramente raggiunto i risultati che si era prefissata, riesce a gestire in maniera equilibrata il potere che deriva dalla sua posizione. La vulnerabilità esce fuori immediatamente nella sfera dei sentimenti, dove sta per iniziare un nuovo percorso. Esce fuori da una delusione amorosa e finalmente vive una relazione serena con il suo nuovo fidanzato Egidio, con il quale cerca di costruire un futuro.

E invece…

I fantasmi del suo passato riaffiorano tutti e la metteranno molto in difficoltà (ride). Vittoria dovrà imparare a gestire queste due anime contrastanti, una determinata, ambiziosa, che sa bene quello che vuole, quella del cuore più fragile e confusa.

E sul set? Ci racconta la sua esperienza?

Ci hanno spalancato le porte, e non è scontato. A volte, quando ci troviamo a parlare del nostro luogo di lavoro, tendiamo a descrivere i set con un po’ di retorica, li presentiamo spesso come una famiglia, ma non sempre è così. Si possono infatti creare situazioni professionali molto difficili, anche dal punto di vista umano. In questo caso è stato tutto perfetto. La squadra di “Don Matteo” è super rodata, una macchina che funziona alla grande perché tutti hanno a cuore ciò che fanno. Le “new entry” non hanno dovuto far altro che partecipare attivamente a questo sentimento, contribuire alla forza del progetto. È una storia che parla di una comunità che, pur nelle differenze, si sostiene, e di un’altra comunità che lavora, spesso dietro le quinte, che agevola questo amore. Proprio come nelle famiglie.

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Stucky

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«Il metodo investigativo di Stucky è interamente basato sullo studio delle psicologie umane, si basa sul dialogo, sulla parola, sui colloqui con i diversi personaggi legati in vario modo con la vittima, tra cui chiaramente si nasconde sempre anche l’assassino. E quando l’ispettore punta il presunto assassino non gli dà scampo…» racconta il regista Valerio Attanasio. La serie con Giuseppe Battiston è in programma su Rai 2 da mercoledì 30 ottobre

 

Liberamente ispirata ai romanzi di Fulvio Ervas, la serie esplora il cuore inquieto della provincia italiana. Origini persiane, temperamento flemmatico e sornione, Stucky è un ispettore della Questura di Treviso, si muove a proprio agio nelle pieghe oscure del nord-est italico, tra vecchi centri storici, periferie postmoderne e campagne sonnolente. Affronta casi in cui lo studio di un delitto non è solo disvelamento razionale dell’enigma, ma anche, e soprattutto, un pretesto per osservare e indagare la condizione umana. Ad accompagnarlo in questo viaggio il medico legale Marina, con cui Stucky ha un rapporto di intensa e di una maldestra intimità, l’oste Secondo, consigliere e mentore, e i due poliziotti a lui assegnati, Guerra e Landrulli, che hanno imparato ad amarlo, ma non ancora a capirlo.

 

Il regista Valerio Attanasio racconta…

«Quando mi hanno chiesto di immaginare un adattamento televisivo dei gialli di Fulvio Ervas, ho pensato istintivamente che le trame contenute nei romanzi sarebbero state troppo dense per essere trasposte in puntate di 60 minuti. Volevo trovare una chiave originale che si distaccasse nettamente dal film realizzato qualche anno fa, tratto da uno dei libri della serie. Mi sono preso la libertà di prendere il protagonista, l’ispettore Stucky, e di modificarlo un po’ nei suoi tratti caratteriali ed estetici. Mi piaceva l’idea di raccontare un poliziotto talmente ossessionato dal proprio lavoro, e dagli assassini che insegue, da non trovare il tempo di portare avanti la propria vita privata. Pur essendo una persona con inaspettati slanci di empatia e tenerezza – questo è un aspetto che ho rubato a quel grande attore che è Battiston – Stucky di relazioni personali non sembra averne, tanto che non ha una compagna né figli. Ha un solo amico, Secondo, proprietario di un’osteria in cui si rifugia spesso. Altro di questo solitario ispettore non sappiamo, se non che non sopporta la vista del sangue, non porta la pistola, non guida la macchina, non possiede uno smartphone, indossa sempre un trench piuttosto liso, legge Kafka ed è nato in Iran, a Tabriz, da madre persiana, anche se per parte di padre proviene da antenati svizzeri trasferitisi nell’Ottocento a Venezia. Stucky l’ho immaginato, vestito e inquadrato, come una specie di antieroe mitteleuropeo fuori tempo massimo, un personaggio antico e contemporaneo allo stesso tempo che, con il suo sigaro in bocca, solca le vie e i canali del centro storico di Treviso alla ricerca ossessiva dei suoi assassini, perennemente in bilico tra il senso di giustizia verso la vittima e la curiosità per l’infinita varietà della Commedia Umana, per dirla alla Balzac. E per innalzare il livello della sfida tra il protagonista e l’antagonista, anche le trame dei sei gialli si sono via via andate a formare attorno a dei casi di omicidio in cui gli assassini fossero persone ricche e potenti, talvolta anche arroganti. Stucky invece è un semplice ispettore di provincia che per indole personale non farà mai carriera. Troppo discreto e allergico alle dinamiche del carrierismo, porta avanti il proprio lavoro in solitaria, con la costanza e la tigna del bravo artigiano. È questo suo aspetto che ci ha fatto venire in mente il Tenente Colombo, una serie che da adolescente ho amato e che ci è tornata utile come modello strutturale. Anche in Stucky, come in Colombo, a differenza dei gialli classici, la rivelazione al pubblico dell’assassino avviene nei primi minuti. Ci è sembrato il modo migliore per concentrare l’attenzione sugli aspetti più psicologici di un omicidio, omettendo completamente la parte procedurale dell’indagine o le scene d’azione. Ecco perché non vediamo mai Stucky nel suo ufficio in Questura, così come non lo vediamo mai impugnare una pistola. Il metodo investigativo di Stucky è interamente basato sullo studio delle psicologie umane, si basa sul dialogo, sulla parola, sui colloqui con i diversi personaggi legati in vario modo con la vittima, tra cui chiaramente si nasconde sempre anche l’assassino. E quando l’ispettore punta il presunto assassino non gli dà scampo, lo tampina ovunque, che sia a casa, al lavoro o al circolo del tennis, alla ricerca di quel piccolo errore che tutti commettono. E alla fine lo incastra sempre.»

 

 

 

 

I PERSONAGGI

Giuesppe Stucky (Giuseppe Battiston)

Ispettore capo della Polizia in forza alla Questura di Treviso è un tipo sui generis: apparentemente compassato e solitario, odia la vista dei cadaveri, non ama la tecnologia e organizza le indagini a modo suo, servendosi di tanti foglietti fitti di appunti, che si diverte a disporre su un tavolo come tasselli di un puzzle per mappare l’animo di chi incontra e porsi le domande giuste, fino a ricomporre la vicenda che lo porta alla soluzione del caso. Non ama lavorare nel suo ufficio, ma preferisce formulare le sue ipotesi e i suoi ragionamenti passeggiando per Treviso o seduto davanti ad un buon bicchiere di vino nell’osteria del suo amico Secondo.

 

Marina (Barbora Bobulova)

Medico legale forte, determinata e risolutiva sul lavoro. Nella vita privata, invece, sembra vivere continui alti e bassi che Stucky osserva e accoglie con dolcezza e premura, mentre lei sorride con tenerezza delle piccole manie dell’ispettore. I due sono sulla stessa lunghezza d’onda e si bilanciano a vicenda: lui tutto istinto, lei tutta testa. Marina potrebbe essere la partner perfetta per Stucky, ma per ora sono solo buoni amici.

Secondo (Diego Ribon)

Professione oste, amico di una vita di Stucky. Tra un bicchiere e l’altro, i due condividono gioie, dolori e pensieri. Secondo gestisce la sua osteria, divertendosi con tutti gli avventori, ma al nostro ispettore dedica sempre del tempo (e un piatto speciale) per ascoltarlo o stimolarlo. È con Secondo, infatti, che Stucky ricostruisce i tasselli del delitto per metterli insieme, perché in osteria si pensa meglio e perché in casa di amici ci si sente protetti!

Ilaria Landrulli (Laura Cravedi) e Fabio Guerra (Alessio Praticò)

Sono i due poliziotti che affiancano Stucky nelle indagini. Ilaria, giovanissima e piena di voglia di fare, è molto attenta, precisa, sempre sul pezzo. Fabio, meridionale, simpatico con la sua aria sbadata, è a volte un po’ inopportuno ma sicuramente fidato. Niente di meglio di questa strana coppia per accompagnare il nostro Ispettore che spesso si dimentica di loro ma, altrettanto spesso, li sottopone a prove inaspettate. Eppure, Landrulli e Guerra – senza sapere il perché – non possono fare a meno di Stucky e delle sue stranezze…

 

La storia inizia così

 

Il sole di Tabriz

Malik, giovane immigrato magrebino, viene trovato morto sul selciato sotto casa sua. Il giovane avrebbe dovuto recarsi all’inaugurazione di una mostra fotografica promossa da un’agiata famiglia trevigiana, gli Zanon, che curano un’associazione per ragazzi stranieri da cui lo stesso Malik è transitato. Tutto lascerebbe pensare che il giovane si sia suicidato, eppure qualcosa non quadra. Stucky si convince che si tratti di un omicidio e inizia a marcare stretto l’assassino.

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GENTILE & VAGNATO

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In Playlist la fotografia della Gen Z

I brani più ascoltati del momento. Al via “Playlist – Tutto ciò che è musica”, una finestra aperta sull’attualità musicale arricchita da preziose performance live. Le interviste ai conduttori, Federica Gentile e Gabriele Vagnato, protagonisti da sabato 19 ottobre alle 14.00 su Rai 2

FEDERICA GENTILE

Come si sta preparando al primo appuntamento di “Playlist”?

Con grande entusiasmo. Siamo molto contenti di riportare la musica in televisione con un appuntamento fisso che mancava.  Siamo strafelici di avere questa opportunità che è un po’ anche una scommessa, perché parleremo soprattutto ai giovani e quindi intercetteremo un po’ il loro mondo. Io che amo molto i giovani, e da anni dedico loro la mia vita professionale e non solo, sono molto felice di continuare a farlo con un nuovo progetto come questo.

Mancava proprio un appuntamento dedicato alla musica oltre i contest, le esibizioni…

Vero, verissimo. Vogliamo dare spazio alla musica, agli artisti delle nuove generazioni che piacciono ai ragazzi e che in qualche modo stanno scrivendo anche una nuova modalità di espressione.  La musica, da sempre, ci restituisce i confini di una generazione. La televisione penso che sia un mezzo, nonostante tutto, giovane, e che vogliamo continuare a mantenere tale.

Coppia inedita con Gabriele Vagnato, come lavorate insieme?

Benissimo perché è un ragazzo di una creatività incredibile, genuino, autentico, gentile, educato. Lavoreremo molto bene insieme perché abbiamo tra l’altro dei gusti molto coincidenti e una grandissima intesa, oltre che stima reciproca.

“Palylist” è un programma dall’impostazione contemporanea. Ma quali possiamo considerare le novità della musica oggi?

C’è una grande varietà, nel senso che gli ultimi sono stati anni di grande sperimentazione da parte della musica, soprattutto giovane. C’è stato il periodo della trap in cui sembrava che fosse l’unica via di espressione di una generazione. Ma in realtà c’è molto altro, c’è l’urban, il pop, il cantautorato, c’è tutta la parte di sonorità elettroniche, la scrittura delle barre che permette di fare una narrazione. In “Playlist” anche anche le persone più adulte possono curiosare, affacciarsi e scoprire magari tante cose che i loro figli seguono, fanno. Un occhio di riguardo lo avremo anche per i grandi fenomeni internazionali che racconteremo insieme ai ragazzi, anche per fotografare una generazione.

Della musica contemporanea cosa apprezza e cosa invece non le piace proprio?

Apprezzo molto la varietà e la voglia di scrivere nuovi linguaggi, nuove sonorità oltre che la capacità che hanno molti ragazzi di oggi di fare da soli, nel senso che comunque ci sono tanti cantautori. Non mi piace a volte l’eccesso contenutistico, chi usa la musica per veicolare, forse in modo anche un po’ superficiale, delle immagini e dei concetti che sono assolutamente lontani da me, ma probabilmente, a volte, anche da molti di loro. Di bello trovo che spesso ci sia un uso molto evoluto della lingua italiana, con figure retoriche sofisticate, immagini, riferimenti anche letterari, perché molti artisti hanno studiato, sono colti, hanno la capacità di far tesoro di un passato che in qualche modo rilanciano.

Quale genere musicale preferisce?

A me piace tutto, ma ho passione particolare per il rock e il cantautorato.

Oggi c’è un po’ meno rock…

C’è un po’ meno rock, sì. Però, per esempio, c’è il ritorno del folk. Pensa a un cantautore come Alfa, giovanissimo, che di fatto mette tanto folk nella sua musica e questo potrebbe sembrare strano. In realtà c’è tanta contaminazione.

Un invito ai nostri lettori a seguire “Playlist”…

Fatelo, perché c’è anche un modo per comprendere, appunto, i ragazzi. E ai giovani dico fatelo perché via via ci saranno tutti gli artisti che amate di più. Cercheremo di approfondire insieme tanti fenomeni e la conoscenza di tanti artisti. Sarete protagonisti proprio voi.

 

GABRIELE VAGNATO

“Playlist” è indirizzato ad un pubblico giovane ma non solo…

Stiamo provando a fare un programma contemporaneo ed è una bellissima sfida. La Rai ci ha messo davanti un foglio bianco dal quale partire, insieme agli autori, insieme a Federica, e siamo riusciti a costruire qualcosa che ci piace, speriamo possa piacere a tanti, non solo ai giovani.

Coppia inedita con Federica Gentile. Come lavorate insieme?

Io e Federica ci conosciamo da tempo anche se ci eravamo persi di vista. Abbiamo tanta voglia di fare, siamo sulla stessa lunghezza d’onda e poi lei è molto esperta di musica, è una mano santa anche per me, per un po’ di cultura musicale.

Quanto sono presenti i social in playlist?

Stiamo provando a fare un programma che comunichi, sul web, sulle piattaforme e che vada bene anche in tv. Che sia veloce, dove le cose durano due, massimo tre minuti dato che oggi la soglia dell’attenzione su internet si è abbassata drasticamente. Arrivo dall’esperienza con Fiorello a “Viva Rai2” dove era tutto stretto in un minuto e mezzo, massimo due. I social sono fondamentali per amplificare anche durante la settimana quello che fai in onda.

E invece quale sarà l’interazione con il pubblico presente?

Un programma giovane ha bisogno di persone giovani in studio. Ci saranno delle belle situazioni che stiamo creando e che possano far sentire a proprio agio anche gli artisti che vengono come ospiti.

Quale genere musicale ascolta?

Mi faccio guidare dalle playlist. Le “scrocco” ai miei amici, ai parenti. Se una mi convince o se scopro delle nuove canzoni, continuo ad ascoltarle in loop per un periodo finché non mi annoio. Se dovessi ascoltare sempre un artista mi stancherei, quindi cerco di variare, cerco di farmi sorprendere anche da una  canzone che magari non avrei mai ascoltato.

Un invito ai nostri lettori a seguire “Playlist”…

So che è difficilissimo accendere la televisione sabato alle 14,00, so che è una cosa che non si fa più se non per Milo Infante, il maestro che ogni giorno racconta l’Italia. Il sabato non c’è, però accendete la TV, perché nell’ambito della musica il nostro è un programma nuovo, che non si vedeva da tanto, dato che non si parla più di musica in televisione se non con i talent, le sfide o delle gare. Se siete interessati alla musica, se la musica vi piace, “Playlist” è il vostro programma.

 

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Raoul Bova

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A letto con il sorriso

«In questo straordinario gruppo di lavoro, tutti sono orgogliosi di far parte del progetto, lo amano e lo rispettano, non c’è mai stanchezza nel lavoro, ma solo una grande passione, un’assoluta armonia» racconta l’attore impegnato per la seconda volta nei panni di Don Massimo nella quattordicesima stagione di Don Matteo. Da giovedì 17 ottobre su Rai 1

Uno dei meriti della serie è proprio essere riuscita a trovare un equilibrio tra spiritualità e vita concreta…

È una serie scritta in modo incredibilmente vero, tra i racconti televisivi più longevi che, pur ricorrendo a temi tipici della commedia e a situazioni da teatro, presenta allo spettatore personaggi molto credibili, mai sopra le righe, o quando lo sono, perfettamente funzionali alla linea più comedy che conferisce leggerezza alla narrazione. Gli ambienti in cui si svolgono le scene, gli interni in particolare, sono caratterizzati da atmosfere familiari che creano calore; il tavolo della canonica, per esempio, è il simbolo perfetto dei legami forti tra le persone, è qui che si pranza e si cena tutti insieme, è qui che ci si confronta. Le partite a scacchi tra Don Massimo e Cecchini diventano fortemente simboliche di un rapporto saldo, di complicità, ma anche di confronto professionale. Quest’anno è stata per me una scoperta ancora più forte della prima volta, abbiamo lavorato a fondo sul dare verità alla storia, tutto quello che raccontiamo potrebbe essere potenzialmente reale, anche nella sua follia perché, come ben sappiamo, a volte la realtà è molto più folle della finzione. I casi di puntata sono interessanti e aderenti all’attualità, e per questo affrontati con estrema attenzione, cercando di non cadere troppo nella profondità del dramma, senza però essere superficiali. Lo scopo è mantenere il giusto equilibrio per intrattenere lo spettatore in un contesto di “piacevole profondità”. Diciamo che “Don Matteo” ti manda a letto con un sorriso.

Cosa significa entrare nell’intimità di un personaggio come don Massimo?

Le location, in particolare la casa dove vive Don Massimo, hanno qualcosa di speciale, perché racchiudono un mondo, quello di un uomo complesso, pieno di fascino che, a un certo punto della sua vita, ha compiuto scelte determinanti, come lasciare la divisa da carabiniere e indossare quella da prete, abbracciando con una consapevolezza diversa la vita spirituale.

Cosa ha rappresentato nella vita di quest’uomo questa scelta di vita?

Una scelta che rivela un uomo in continua ricerca di sé stesso, del suo rapporto con Dio, con una naturale spinta a stare in mezzo alla gente, come San Francesco che, per fare un riferimento concreto, amava le persone, non si curava né dei vestiti, né della propria immagine. La regola era “fare” più che “sembrare”.  Don Massimo è un uomo che, di volta in volta, in base alle esperienze, cresce come prete e come essere umano, e lo vedremo bene anche in questa stagione quando si troverà costretto a gestire l’arrivo di una sorella con la quale condivide un passato di contrasti.

Possiamo dare qualche dettaglio in più?

La relazione tra questi due fratelli non è mai stata facile e i rapporti si erano interrotti da tempo. Ora, però, che Massimo è diventato prete, non può fuggire ai problemi del suo passato, ma questa volta è animato da una diversa sensibilità e, complice anche la “spinta” del vescovo, vede il mondo con occhi diversi, più aperti.

Una serie di successo, un modello per altri racconti?

È importante raccontare ciò che rende unica questa serie che, al di là della scrittura, della regia, ha qualcosa di speciale: il rapporto umano e di grande rispetto all’interno della troupe, dagli attori, alle maestranze tutte. In questo straordinario gruppo di lavoro, tutti sono orgogliosi di far parte del progetto, lo amano e lo rispettano, non c’è mai stanchezza nel lavoro, ma solo una grande passione, un’assoluta armonia.

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