Il Giro è scuola di vita

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Alessandra De Stefano

Dal 6 al 29 maggio su Rai2, Rai Sport e RaiPlay, tornano l’evento sportivo più amato e il grande romanzo popolare. A pochi giorni dalla partenza della Corsa rosa, il RadiocorriereTv incontra la direttrice di Rai Sport: «Vedremo un ricambio generazionale. Mi piace l’idea che questo “romantico giro” riparta con tanti giovani all’assalto della maglia rosa»

© Matteo Bazzi

Da giornalista e da appassionata di ciclismo cosa provi quando si avvicina il Giro?

Il Giro è qualcosa che ti porti dentro, un’emozione difficile da spiegare, è un appuntamento che si fa in strada. Ogni anno ti ritrovi con la squadra, con i tuoi compagni di viaggio, è un po’ come quando all’arrivo dell’estate ritrovavi gli amici delle vacanze. Al Giro c’è un pezzetto delle tue abitudini, del tuo modo di fare, un pezzetto di vita che fai per un mese intero in cui la corsa ti assorbe completamente. Ci auguriamo che porti davvero il sole dopo i due anni difficili della pandemia, con la bolla dei corridori. Il Giro è un’emozione che si rinnova.

Si parte dall’Ungheria, si vola in Sicilia e si risale lo Stivale, che Giro sarà?

L’Italia che viene raccontata dal Giro è un’Italia bella, che poi diviene l’Italia del Giro. Si dice che i corridori facciano la corsa, ma è anche la corsa a fare i corridori. Sarà un Giro giovane in cui sentiremo tanti nomi nuovi, vedremo il cambio di generazione tanto invocato negli ultimi anni. Un Giro aperto e interessante da un punto di vista altimetrico. L’itinerario è molto bello, mi fa molto piacere che ci sia la tappa Napoli-Napoli per celebrare Procida Capitale della Cultura.

Quali sono le tappe che attendi di più?

Saranno interessanti sia la partenza da Budapest che il ritorno della corsa in Sicilia. Dal Sud mi aspetto un calore pazzesco, lì l’attesa del Giro è qualcosa di straordinario, arrivano le strade nuove, si fa l’asfalto, ci sono i concorsi di disegno tra i ragazzi nelle scuole. Mi emoziona l’idea di tornare a Catania, a Messina, di fare la riviera dei Cedri a Scalea, di raggiungere la cima del Blockhaus sulla Maiella dove trionfò Eddy Merckx. Il Giro è tornare a Reggio-Emilia, spingersi sulla Sanremo-Cuneo con il pensiero di Coppi. Ogni luogo ha una storia.

Che valore assume il Giro nel contesto storico attuale?

C’era Buzzati che si chiedeva se servisse ancora una cosa “assurda” come il Giro d’Italia, che definiva “ultimo baluardo della fantasia”. Della fantasia e del romanticismo, di fatto il Giro è uno degli eventi più romantici che esistano. Una vicenda stramba, emotiva, che coinvolge tutti coloro che seguono la carovana. Hai la vittoria, la disfatta, le sconfitte, le difficoltà meteorologiche. Vedi cambiare la pelle dei corridori, da quando si schierano alla partenza a quando corrono sotto il sole a 40 gradi. Il ciclismo è in assoluto l’evento sportivo più simile alla vita, dove però chi va in fuga è coraggioso (sorride).

Di quali corridori sentiremo parlare?

C’è attesa per Carapaz e per tanti giovani, per quelli che vorranno provare a prenderselo questo Giro d’Italia. Vedremo una corsa particolare che rappresenterà un momento di svolta. Ci saranno certamente Simon Yates, Mikel Landa, Miguel Ángel López, Vincenzo Nibali, ma sono curiosa di conoscere i nomi nuovi. Mi piace l’idea che questo romantico giro riparta con tanti giovani all’assalto della maglia rosa.

Mi presenti la squadra che la Rai manderà in campo?

Una squadra pazzesca per un racconto che prenderà il via la mattina su Rai Sport, per poi passare su Rai2 e concludersi su Rai Sport. Ci sarà una telecronaca nuova, affidata a Francesco Pancani, e sarà a tante voci. Ci sarà la voce di Giada Borgato per farci conoscere il gruppo, la voce tecnica di Alessandro Petacchi per conoscere le strategie e le tattiche, la voce di Fabio Genovesi per raccontare l’Italia che attraversiamo. Le moto saranno parte integrante del racconto con Stefano Rizzato e Marco Saligari. Al mattino ci saranno Tommaso Mecarozzi e Beppe Conti per “Aspettando il Giro”, al via 45 minuti prima della partenza della tappa, mentre nel dopo corsa avremo Alessandro Fabretti alla conduzione del “Processo alla tappa”, con lui Stefano Garzelli e, per la prima volta a commentare ciò che è avvenuto in corsa, quattro campionesse di ciclismo. Alle 20 ci sarà “Arriva il Giro” a cura di Antonello Orlando e dalla mezzanotte in poi “Km0”, la tappa integrale riproposta dal primo all’ultimo chilometro.

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Un amore a Torpigna

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Phaim Bhuiyan

Cosa vuol dire per un giovane italiano di seconda generazione e musulmano praticante vivere in un mondo così lontano dai precetti dell’Islam? Cosa accade quando il desiderio bussa forte alla sua porta? In “Bangla”, la serie prodotta da Fandango e Rai Fiction, disponibile su RaiPlay e in onda dal 27 aprile su Rai3, il giovane attore, regista e sceneggiatore romano originario del Bangladesh, veste i panni di Phaim: «Mi ci rivedo in tante cose, se potessi dargli un consiglio gli direi di prenderla con più leggerezza»

© Christian N.

Dal film alla serie, come si è evoluta la storia di Phaim?

La storia riparte da dove finiva il film, con Asia e Phaim che si stanno baciando prima della partenza del protagonista per Londra.

Ma succede qualcosa di inatteso…

Phaim riceve una telefonata da parte della madre che gli annuncia che non partiranno più… da lì le sue insicurezze cresceranno, perché il trasferimento gli avrebbe consentito di scappare e di non affrontare più i problemi, la nuova situazione lo costringerà invece a farlo.

Che sentimento prova, da spettatore, nei confronti del personaggio Phaim?

Provo compassione ed empatia. Mi ci rivedo in tante cose, se potessi dargli un consiglio gli direi di prenderla con più leggerezza (sorride).

E da regista come vede l’attore Phaim?

Non pensavo che avrei mai fatto l’attore, mi ci sono ritrovato, e sono sempre molto autocritico.

Tutta la vicenda si svolge a Tor Pignattara, che mondo descrive nella serie?

Quello che è anche il mio mondo personale. Tor Pignattara è un po’ la mia madeleine: ci sono il caos, la street art. L’idea è quella di portare sullo schermo un quartiere multietnico, raccontare le vicende delle prime e delle seconde generazioni di migranti, così come di chi ci risiede da sempre.

È cambiato il suo modo di essere cittadino di Tor Pignattara dopo aver portato “Torpigna” al cinema e in Tv?

Mi piace l’idea di non cambiare questo rapporto, poi capita che qualcuno ti fermi per la strada e questo ti fa anche piacere. Ma l’idea di potere essere ancora “invisibile” e guardare tutto ciò che accade con lo sguardo di uno spettatore mi stimola tanto. Spero di non cambiare mai. Da Tor Pignattara ho ancora tanto da imparare, gli spunti di riflessione sono molti, a partire dall’integrazione che è ancora in fase di sviluppo, non è completa.

Quali sono i registi e gli attori della commedia all’italiana che sente più vicini?

Penso a Dino Risi, a Mario Monicelli, al Vittorio Gassmann de “Il Sorpasso”. Dal post guerra raccontato dal Neorealismo in poi, un filone incredibile.

“Bangla” è una commedia romantica. Come le piace raccontare l’amore?

L’idea è quella di potere essere universale perché l’amore è un problema comune a tutti. “Bangla” lo racconta dal punto di vista di un musulmano praticante, una storia nella quale possono rivedersi i cristiani come gli ebrei, che magari hanno ancora delle radici forti da questo punto di vista. Mi piaceva l’idea di potere raccontare quei valori lì.

Definisce l’amore un “problema”?

I lati positivi dell’amore sono tanti, ci sono il supporto, la passione. Dipende da come va la relazione (sorride). Si dice però che l’amore non è bello se non è litigarello…

La sua esperienza in “Bangla” ha cambiato il suo modo di pensare all’amore?

Fare esperienze di questo genere ti cambia la prospettiva in meglio, “Bangla” mi ha dato speranza. Il film mi ha aiutato anche a parlare con i miei genitori, è stato un elemento di rottura che ha scosso un po’ tutti. Sono una persona timida e introversa, film e serie sono stati una terapia d’urto, mi hanno aiutato a esorcizzare queste tematiche.

Nel suo 50 per cento italiano l’ironia è di casa. Nel restante 50 per cento?

L’ironia asiatica ha elementi che sono più semplici, legati al cibo, alla lingua, agli stereotipi. Anche i meccanismi dell’umorismo sono completamente differenti.

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The Sound of beauty in viaggio

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Angelo Torchetti

Una passione nata fin da ragazzo che oggi vive in radio con la storia e la musica dell’Eurovision Song Contest. Isoradio ci accompagna al 10 maggio, giorno di inizio di Esc made in Italy. Il Radiocorrieretv ha incontrato il conduttore e ideatore di “Welcome Europe”


© Eleonora Ferretti

Sessantasei anni di Eurovision nel racconto radiofonico di “Welcome Europe”…

Una passione che nasce da ragazzino, anche quando l’evento veniva trasmesso in orari difficili o non trovava collocazione nel palinsesto e lo cercavo nei canali di Capodistria. È qualcosa che mi ha sempre affascinato e mi ha aiutato a viaggiare con la mente, entrare in contatto con Paesi e lingue diverse, canzoni mai ascoltate abitualmente. Devo dire però che amo da sempre tutti i concorsi musicali, le Hit Parade di Lelio Luttazzi, le varie Canzonissima, Disco per l’estate, Sanremo… l’Eurovision era, ed è, un’occasione in più per vivere qualcosa di speciale.

Come nasce l’idea del programma?

L’organizzazione della manifestazione in Italia, che coinvolge tutta la Rai, era davvero un’ottima occasione, una vetrina in più. Nella ormai oltre trentennale storia di Isoradio, l’osso duro della programmazione è ovviamente l’info mobilità, ma nel tempo si è dato spazio a diverse tematiche, ospitato cantanti, raccontato Sanremo, spaziando tra molti argomenti. La musica ha un ruolo importantissimo, perché chi viaggia non può sentire solo le chiacchiere (ride), e poi sulle nostre strade circolano, non solo per lavoro, tantissimi stranieri che con “Welcome Europe” possono ascoltare canzoni nelle loro lingue. La nostra direttrice, Angela Mariella, ha accolto la proposta con molto entusiasmo, soprattutto dopo gli ottimi risultati ottenuti nel nostro racconto del Festival di Sanremo.

Come si è preparato a questo viaggio?

Ho studiato parecchio, anche perché l’argomento non è facile. Sono 66 anni di storia musicale europea e per il pubblico italiano la maggior parte degli artisti dell’Eurovision sono dei perfetti sconosciuti. Non ho voluto solo presentare un elenco di canzoni o di classifiche, ma offrire a chi ci ascolta una visione geopolitica. D’altra parte, è un evento che accoglie ben 40 Stati, ciascuno con la propria musica, cultura e soprattutto bandiera. La sfilata delle bandiere all’Eurovision è importante tanto quanto quella dell’inaugurazione dei Giochi Olimpici.

Ogni cantante porta una bandiera, ma gareggia per sé…

Sì, non necessariamente deve essere nato nel Paese che rappresenta. È il caso di Achille Lauro che rappresenta San Marino, così come per Celine Dion, una canadese che vinse per la Svizzera.

Questo circo della musica in Italia non ha sempre goduto di grande fama. Come e quando è cambiato il destino dell’Esc?

Dal 2011 quando l’Italia è tornata in gara. Dal 1997, l’anno della partecipazione dei Jalisse, ci fu un lungo stop, interrotto con Raphael Gualazzi (2011) che arrivò secondo. Da quel momento l’Esc comincia a prendere piede anche in Italia, anche se, dobbiamo ricordare, che la maggior parte dei big nostrani nel tempo sono saliti su questo palco, dai vincitori Gigliola Cinquetti a Toto Cutugno, da Villa a Ranieri, da Morandi a Mia Martini. È vero, da noi non ha avuto lo stesso seguito che all’estero, forse perché eravamo abbastanza sazi di Sanremo, lo abbiamo collocato al margine dei palinsesti, a volte anche cancellato. Nel 1974, per esempio, la Cinquetti si presentò con “Sì”, ottenne il secondo posto dopo gli Abba, ma l’Eurovision fu trasmesso in differita perché in Italia si votava per il referendum sul divorzio. La nostra canzone fu censurata e nessuno ebbe la possibilità di ascoltarla, anche se all’estero molto apprezzata.

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Cannes 2022

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Rai Cinema al Festival

La Costa Azzurra è pronta ad accogliere la 75esima edizione di una delle più importanti rassegne cinematografiche mondiali. Dal 17 maggio

“L’Envol” di Pietro Marcello sarà il film di apertura alla Quinzaine des Réalisateurs del Festival di Cannes. Il film è prodotto da CG Cinema, Avventurosa con Rai Cinema, The Match Factory e ARTE France Cinéma, ed è realizzato con il contributo e il patrocinio della Direzione generale Cinema e audiovisivo – Ministero della Cultura. Il film sarà distribuito in Italia da 01 Distribution. Rai Cinema partecipa inoltre alla produzione del già annunciato “Les Amandiers” di Valeria Bruni Tedeschi. Il film è prodotto da Ad Vitam Production e Agat Films et Cie, in coproduzione con Bibi film tv, Lucky Red con Rai Cinema. “Pietro Marcello è un autore che ha seguito un percorso molto personale nella sua crescita artistica”, dice Paolo Del Brocco amministratore delegato di Rai Cinema, società produttrice al fianco di Pietro Marcello dai suoi primi passi.  “Nel segno della ricerca di strade stilistiche innovative e della fusione dei diversi linguaggi, spaziando dal documentario alla finzione, e maneggiando con rara capacità l’uso dei materiali d’archivio, il suo cinema ha lasciato sin dai primi lavori, un’impronta originale e profondamente evocativa, che gli ha permesso di diventare uno tra i principali rappresentanti di quella nuova generazione di autori che si sta affermando sul piano internazionale.

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All’insegna della spensieratezza

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Ciro Giustiniani

Risate e divertimento per Made in Sud che nei suoi dieci anni si è rinnovato ma senza stravolgimenti. Nella grande squadra, il comico con i suoi monologhi: «Il nostro punto di forza – dice al RadiocorriereTv – è il gioco collettivo».

©Francesco Fiengo

Com’è partita per lei questa edizione di Made in Sud?

Bene, all’insegna della spensieratezza. Questo è un periodo in cui ce n’è davvero bisogno, insieme alla leggerezza. C’è una conduzione giovane e fresca con Lorella e Clementino e abbiamo avuto modo di far vedere che Made in Sud non è solo comicità, ma una squadra vera e propria e come tale puntiamo a vincere lo scudetto, calcisticamente parlando.

Vive tutta la squadra di Made in Sud da tempo e ne ha seguito l’evoluzione. C’è un elemento che caratterizza il vostro successo?

La squadra, lo ribadisco. Qui ci sono tanti singoli al servizio della squadra ed è il gioco collettivo a vincere. Oggi c’è tanto bisogno di unione e noi ne siamo un esempio. Io sono sempre il monologhista incorporato in una squadra di vari personaggi dove cerco di trovare il mio spazio, anche se è più facile a Made in Sud che per parcheggiare la macchina. Essere comici in una trasmissione come Made in Sud però non è facile, non è come essere protagonisti dei social. Stare su Rai2 in prima serata è sempre una grossa responsabilità.

Quali saranno i personaggi che porterà sul palco nelle prossime puntate?

La prima cosa che ho cambiato di me è che ho perso un po’ di chili… Per il resto saremo una bella insalata mista. Da noi a Napoli quella bella è con pollo, olive, mozzarella e tanti altri ingredienti, che se qualcosa non piace, ne piace un’altra.

Da San Giorgio a Cremano a Napoli per Made in Sud la strada sembrerebbe breve ma…?

Io sono nato a San Giorgio a Cremano ma sono cresciuto a Barra che è l’ultimo quartiere di periferia. La strada per Made in Sud è quella di giovani e ragazzi che vengono dalle periferie dove c’è davvero un tesoro, un contenitore di talenti, escludendo me che non sono un talento. Made i Sud racchiude, proprio al centro di Napoli, tutti questi talenti, come i Re Magi che vanno al Presepe. Noi siamo giunti a Made in Sud, convogliati in questo Presepe che è la Rai.

Cos’hanno in comune un sindacalista ed un cabarettista?

Che il sindacalista faceva più ridere. Io lo sono stato, ma la mia vita era già questa. Ho sempre vissuto per fare quello che sto facendo. Mi sono ritrovato a fare un po’ di tutto, rifiutando il classico posto fisso perché volevo fare questo nonostante i posti mi rincorrevano. Anche se facevo altri lavori, di notte facevo il cabarettista.

Il monologo è il suo elemento. Perché?

Perché io con il monologo sono me stesso, lo sento nella pancia. Osservo e poi racconto in modo comico quello che la gente vive tutti i giorni. Non sono più il comico che corre dietro alla battuta, ma sono come il fotografo che coglie le sfumature.

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Nel cielo al di là delle nuvole

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Tommaso Ghidini

La conoscenza e la conquista dello spazio, la sfida più grande di sempre: l’uomo è pronto a raggiungere altri mondi, a dare vita a generazioni multiplanetarie. Il RadiocorriereTv incontra il capo della Divisione di Strutture, Meccanismi e Materiali dell’Agenzia Spaziale Europea, autore del volume “Homo caelestis – L’incredibile racconto di come saremo” (Longanesi). «Per la prima volta nella loro storia i sapiens sono capaci di portare la propria vita altrove, insediandosi dove la vita non c’è. La Luna prima, Marte poi» afferma l’alto funzionario ESA, protagonista di una delle prossime puntate di PlayDigital su RaiPlay

©SJM Photography

Studiare il cielo, lo spazio, per capire come saremo. Da homo sapiens a homo caelestis, quanta strada abbiamo percorso e dove possiamo arrivare?

Quello che il sapiens è riuscito a compiere è stato un percorso straordinario, se pensiamo che il Big Bang, l’evento che ha generato tutto ciò che conosciamo, è avvenuto circa 14 miliardi di anni fa, che quattro miliardi di anni fa si sono manifestate le prime forme di vita sulla Terra e che 2 milioni e mezzo di anni fa facevano il loro ingresso sul nostro pianeta umanoidi simili ai sapiens. Questi particolari individui hanno vissuto senza nessun impatto sul mondo per milioni di anni, poi, con un’accelerazione straordinaria, divenuti sapiens, sono stati l’unica specie capace di costruirsi, grazie al loro coraggio, alla loro visione, alla loro caparbietà, i mezzi per lasciare il proprio pianeta in maniera consapevole. E non solo, oggi hanno addirittura preso il controllo del proprio mondo. Pensiamo a quali risultati il sapiens è riuscito a ottenere in così poco tempo, pur non essendo l’essere più forte che c’è sul pianeta né tantomeno quello più adatto a viverci.

E ora la sfida più grande…

Per la prima volta nella loro storia i sapiens sono capaci di portare la propria vita altrove, là dove la vita non c’è, insediandosi su altri mondi. La Luna prima, Marte poi. Trovo che questo sia un messaggio straordinario di grande fiducia, di grande speranza nelle nostre capacità rispetto al mondo che ci circonda e alle specie che popolano la nostra Terra.

Le chiediamo di fare un passo indietro per capire meglio chi siamo in questa vastità difficile da comprendere. Da dove partiamo?

Direi dal Big Bang, il cui nome però ci può trarre in inganno. Sì, perché in realtà non fu un’esplosione, ma un’espansione: se ci fosse stata un’esplosione questo implicherebbe che ci fosse un quando e che ci fosse un dove. Ma non è così che funziona. Prima del grande Bang non c’è tempo e non c’è spazio, non c’è un quando e non c’è un dove, è il Big Bang stesso che crea il tempo e lo spazio, svolgendoli. Un’espansione vertiginosa che in pochissimo tempo ha creato l’Universo come lo conosciamo. Poi, dai primi tre minuti nei quali, come dice Steven Weinberg (Nobel per la Fisica nel 1979), tutto è avvenuto, ci sono stati 14 miliardi di anni del “solito tran tran”, con qualche sporadico evento degno di nota. Il primo “cerino” acceso nel buio dell’universo, la prima stella, e da lì una distesa di altri cerini che appaiono uno dopo l’altro. Sono miliardi di stelle, che si mettono subito all’opera e producono gli elementi che formeranno i pianeti attorno ad esse. Poi, su un pianetino sperduto che noi chiamiamo Terra è nata la vita come la conosciamo, quella a base di carbonio, che si è evoluta caparbiamente fino ad arrivare a noi sapiens. Sconcerta pensare che se volassimo alla velocità della luce, cosa impossibile, impiegheremmo 200 mila anni per lasciare la nostra galassia e due milioni e mezzo di anni per raggiungere quella successiva, Andromeda. E di galassie ce ne sono altri 200 miliardi. E noi, con la potenza del nostro pensiero, in questo granello di sabbia che si chiama Terra, siamo riusciti ad avere coscienza, a comprendere questo fatto straordinario.

Una consapevolezza che ci spinge ad andare oltre…

L’Universo potrebbe schiacciarci in un istante, un asteroide potrebbe cancellarci dal pianeta Terra, eppure noi, straordinariamente, abbiamo un cervello che ci permette di sapere che questo potrebbe accadere. Siamo gli unici esseri del pianeta ad avere questa consapevolezza. Trovo che la potenza del nostro pensiero sia davvero portentosa: essa ci rende consapevoli della potenza che l’Universo ha su di noi. Potenza della quale l’Universo stesso non sa nulla. E dalla consapevolezza di ciò che ci circonda ecco che in noi nasce la spinta a esplorarlo.

“Homo Caelestis” è il titolo del suo primo libro, successo editoriale che testimonia quanto lo spazio affascini e incuriosisca. Quanto spazio c’è già nella nostra vita?

Lo spazio è presente quotidianamente in moltissime delle commodities che utilizziamo e nemmeno ce ne rendiamo conto. Io e lei, ad esempio, stiamo parlando attraverso un sistema di telecomunicazione satellitare, stiamo utilizzando Internet. Chi di noi non usa un telefonino oppure una televisione con segnale satellitare? Ci arrabbiamo se lo smartphone non ha campo, se la Rete è un po’ in ritardo o se il segnale GPS per un momento manca. Tutte queste informazioni si muovono attraverso sistemi satellitari che ci vengono messi a disposizione in particolare dall’Agenzia Spaziale Europea. Durante la pandemia, proprio grazie a queste tecnologie, abbiamo potuto lavorare a distanza e i ragazzi hanno continuato a studiare da casa, abbiamo avuto la possibilità di continuare a relazionarci gli uni con gli altri, insomma, non ci siamo fermati. In più, grazie allo spazio, osservatorio ideale, possiamo controllare tutte le cinquanta variabili che dominano il cambiamento climatico. Un’informazione di straordinaria importanza, se pensiamo a quanto il mutamento del clima condizioni la vita di tutti noi e si prefiguri come la più grande e attuale sfida per l’umanità intera. Lo spazio è cruciale per permetterci di ottenere dati scientifici incontrovertibili, che vengono forniti ai governi del Pianeta per intervenire in maniera efficace proprio sul climate change.

Nello spazio le risposte ai nostri più grandi interrogativi…

È lo spazio che ci consente di capire da dove veniamo: il Big Bang, la formazione delle galassie, l’evoluzione del Sole, la nostra stella, che influenza la nostra vita sulla Terra, non soltanto da un punto di vista meteorologico. Tutte le esplosioni nucleari che avvengono sul Sole hanno un impatto diretto sulle nostre apparecchiature elettroniche, sui centri di calcolo terrestri, sulle linee elettriche, ma anche sulla salute dei satelliti che orbitano attorno alla Terra e sulla Stazione Spaziale Internazionale a bordo della quale vivono e lavorano astronauti. Informazioni cruciali per la nostra vita. Con lo spazio possiamo in un certo senso prevenire le catastrofi, capire il movimento degli tsunami a seguito dei terremoti, misurare movimenti millimetrici di tutte le opere che l’uomo ha realizzato, i ponti, le dighe, le scuole dei nostri figli. Monitoriamo la qualità dell’aria, la quantità di CO2 e di gas serra che fanno innalzare la temperatura, così come possiamo identificare l’umidità, riuscendo dunque a realizzare l’agricoltura di precisione e ottenere raccolti anche dove si pensava che le terre fossero aride e inadatte alla coltivazione. Oggi utilizziamo sistemi nati dalle missioni spaziali per fare fronte addirittura al Covid e alle sue conseguenze, così come a molte altre problematiche che abbiamo sulla Terra. Si pensi che dalla missione Apollo abbiamo avuto 135 mila brevetti, tra i quali il microprocessore, utilizzato in ogni sistema medico, di trasporto, in ogni computer terrestre, la stessa TAC è un brevetto dell’Apollo 11, serviva per trovare difetti nei materiali e nelle strutture delle astronavi. La telemedicina, che consente diagnosi a distanza, e la telerobotica per assistere la chirurgia a distanza, sono nate grazie a brevetti della Stazione Spaziale Internazionale. Brevetti significa anche posti di lavoro, aziende, economia, benessere.

Continua a leggere sul Radiocorriere Tv N.17 a pag.28

Che anno meraviglioso!

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Maria Chiara Giannetta

L’attrice pugliese è una delle interpreti più apprezzate del momento. Da “Blanca” a “Don Matteo”, passando per il Festival di Sanremo conduttrice insieme ad Amadeus, ha conquistato il cuore della grande platea televisiva. Sorridente ed empatica, ma anche timida e riservata. Al nostro giornale racconta la sua stagione straordinaria: «La passione? Non ti fa nemmeno accorgere della stanchezza»

Una stagione davvero speciale quella che la vede protagonista. Prima “Blanca”, poi “Sanremo”, ora il ritorno di “Don Matteo”. C’è un’emozione che lega questi momenti?

Mi sono fermata poco a riflettere su quanto è accaduto (sorride). Amo godermi i momenti e di solito mi capita di realizzare solo dopo un po’ di tempo. Sono comunque molto contenta di questo ultimo anno.

C’è un aggettivo con il quale lo definirebbe?

Inaspettato (sorride).

“Don Matteo” è per lei un tornare a casa, come è andata con questa stagione numero tredici?

Ogni volta è tornare alla mia seconda famiglia. Siamo un gruppo coeso, ci divertiamo e ci sorprendiamo per le piccole cose. “Don Matteo” è sempre una garanzia.

Terence Hill se ne va e arriva Raoul Bova, ma Anna Olivieri rimane salda al suo posto in caserma…

In queste stagioni è cresciuto il rapporto tra Anna e gli altri personaggi, con il Pm, con le new entry. Per quanto mi riguarda l’approccio è sempre più consapevole, una familiarità che non mi porta comunque a lasciare nulla al caso.

All’inizio pensavo che con il tempo sarebbe stato meno faticoso, ma se lavori con aspettative molto alte, con responsabilità, l’impegno e la fatica non vengono meno. Aspetto positivo è che quando a trascinarti è la passione non ti accorgi nemmeno della stanchezza.

Si dice che nel tempo attore e personaggio arrivino ad assomigliarsi sempre di più, come va tra lei e Anna?

Ogni volta che finisco le riprese mi stacco subito da lei, cambiando ad esempio il colore dei capelli. Nonostante nella mia prima stagione io e Anna un po’ ci somigliassimo, oggi ci assomigliamo sempre meno. La mia vita va in una direzione, la sua in un’altra. Stiamo facendo scelte diverse, lei sta prendendo delle decisioni che io non prenderei mai ma…non posso andare oltre per non spoilerare troppo (sorride).

Quali sono le parole di Terence Hill che porterà sempre con sé?

Terence è una persona di poche parole. A insegnare sono state l’atmosfera serena che ha saputo creare sul set, la sua professionalità, la capacità di trasmetterci l’unicità di ogni istante.

La recitazione per gli inglesi è “un gioco”, per lei quanto è gioco e quanto è mestiere?

Pur non salvando vite umane l’attore deve avere un comportamento serio, fino all’ultimo. Dobbiamo dare il massimo nello studio, nel lavoro: una fatica, un peso, che però il pubblico non deve percepire. Dobbiamo raggiungere lo spettatore con naturalezza e leggerezza.

Cosa prova quando si ripensa ragazzina, impegnata nei primi spettacoli?

Vedo Maria Chiara che sta facendo le scelte giuste, che fa esperienza, che a volte sbaglia, vedo una ragazza che è capace di trarre insegnamento anche dagli errori, una giovane donna che sta formando la propria mentalità.

Torniamo per un istante allo scorso febbraio, al “Festival di Sanremo”, a due mesi e mezzo di distanza che ricordo ha di quella sera?

Tanto divertimento e grande adrenalina.

Continua a leggere sul Radiocorriere Tv N.17 a pag.6

La Bellezza ritrovata

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Marco Frittella

I beni artistici e culturali nazionali godono oggi di nuova luce e attenzione. L’arida imperante burocrazia ha lasciato spazio a un approccio manageriale di alto livello, a sinergie virtuose tra pubblico e privato, all’iniziativa dei cittadini. Perché l’arte è di tutti. Il volume, in libreria e negli store digitali dal 28 aprile, è un viaggio a trecentosessanta gradi nel nuovo corso del patrimonio artistico nazionale, attraverso le testimonianze di archeologi, manager culturali, specialisti di ogni genere, volontari e militari. Il RadiocorriereTv incontra l’autore, popolare giornalista della Rai, che ha recentemente assunto l’incarico di direttore di Rai Libri

“Dall’abbandono alla rinascita, viaggio nel Paese che riscopre i suoi tesori (e la sua anima)”. Un sottotitolo che è già un manifesto, come nasce questo suo nuovo lavoro?

Dalla constatazione che sotto il profilo della valorizzazione e della tutela dei beni culturali abbiamo voltato pagina rispetto alla situazione esistente fino ai primi anni Duemila. Ricordiamo lo scandalo per il crollo della schola Armaturarum di Pompei. Il sito era nel degrado più assoluto, abbandonato, chiuso per scioperi, senza una vera valorizzazione, mentre oggi, grazie a una serie di riforme, a una idea diversa del rapporto tra pubblico e privato, a una consapevolezza maggiore da parte degli italiani del tesoro di cui devono occuparsi e godere, le cose sono cambiate. Dopo “Italia Green”, dedicato alle tematiche del made in Italy ambientale, “L’oro d’Italia” racconta storie di eccellenza della tutela e della valorizzazione dei nostri beni artistici, storico culturali, paesaggistici. Da Pompei, risorta rispetto alla decadenza in cui si trovava, alla reggia di Venaria Reale di Torino, residenza sabauda di grandissimo pregio, immensa struttura caduta nel più completo abbandono e oggi completamente restaurata, scintillate, piena di eventi, di giovani che la vanno a visitare. Lo stesso discorso vale per la reggia di Caserta, altro sito che oggi funziona bene.

Quali sono i punti di riferimento di questo nuovo modello di gestione?

Il complesso di riforme di cui parlavamo e una concezione diversa del rapporto tra Stato, enti locali e privato. Quest’ultimo non è più demonizzato o visto come il vampiro che si cala sul bene culturale per scempiarlo, volgarizzarlo, per ottenerne il massimo profitto. Ovviamente, non tutto il privato è buono, bisogna sempre controllare e vigilare. Abbiamo visto come criteri privatistici di valorizzazione del bene culturale, che resta di proprietà dello Stato, consentono di sviluppare energie fenomenali. Il secondo punto è quello della riforma dei musei. Ne abbiamo 44 con un loro statuto di autonomia, che non sono più uffici periferici delle sovrintendenze che se ne occupavano quando potevano, ma ci sono direttori scelti con concorso di livello internazionale che hanno tutti fatto bene. Sono realtà che hanno un loro consiglio d’amministrazione, un loro comitato scientifico, che possono lavorare in maniera profittevole. Basta pensare al Museo Egizio di Torino, che è riuscito a fare cose fantastiche ammirate da tutti. Rispetto a prima, quando i musei erano luoghi oscuri, polverosi, il visitatore non è più un intruso: l’arte, la cultura, la storia, sono patrimonio del cittadino stesso.

Continua a leggere sul Radiocorriere Tv N.16 a pag.12

Che musica il venerdì!

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Carlo Conti

Hanno risposto con entusiasmo all’annuncio di Rai1 da tutta Italia e ora sono pronti a mettersi in gioco per l’ambito titolo di “The Band”. Dal Tetro Verdi di Montecatini condurrà il nuovo talent dedicato ai gruppi musicali, in giuria Carlo Verdone, Gianna Nannini e Asia Argento. Dal 22 aprile in prima serata

© Assunta Servello

Come sarà “The Band”?

Un talent in cui non si vince niente, in cui non ci sono contratti discografici, non ci sono soldi (sorride). Si vince solo la soddisfazione di essere sul palco. Vogliamo stimolare la voglia a questi ragazzi, a queste band, di fare musica dal vivo, di riprendere a suonare nei locali, nelle feste paesane, nei matrimoni. Quelle in gara sono band non professioniste che saranno seguite da otto grandi professionisti. “The Band” è un talent atipico, si vince la soddisfazione di essere eletti la band più forte.

Cosa deve avere una band per essere vincente?

I componenti devono capirsi tra loro, sapere fare squadra, essere parte integrante l’uno dell’altro, non viaggiare da solisti, ma sapersi amalgamare trovando il clima giusto, il mood giusto, quell’originalità che ti fa diventare forte.

Come è andata la selezione dei gruppi in gara?

Siamo rimasti sorpresi, temevamo di essere un po’ in ritardo. Con la messa in onda dello spot sono arrivate più di due mila iscrizioni, di queste ne abbiamo selezionate sedici, nella prima puntata saranno scelte le otto band che proseguiranno la gara. Siamo andati al di là delle più rosee aspettative, questo significa che c’è un mondo che ha un bel fermento musicale. Alcuni gruppi erano troppo bravi e non li abbiamo selezionati anche per questo. Il nostro programma deve stimolare band giovani e più acerbe, ma che hanno la voglia di fare musica, di imparare grazie all’intervento dei nostri tutor.

Andrete in onda da Montecatini, dalla sua Toscana, e le band si esibiranno davanti a una platea gremita, cosa significa tutto questo per lei?

Abbiamo cercato nel centro Italia la disponibilità di un luogo in cui si facesse musica abitualmente, questo per avere un pubblico reale, vero, e per dare alle band la sensazione di qualcosa straordinario, che va oltre lo studio televisivo. Degli otto tutor tutti hanno fatto un concerto al teatro Verdi, che è un luogo in cui i concerti si fanno abitualmente. Tutto questo, per le nostre band, è uno stimolo in più.

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Crime, ma con ironia

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Claudio Amendola

“Nero a metà” è il protagonista assoluto dei lunedì televisivi. L’attore romano, che delle prime tre puntate della serie è anche regista, veste i panni dell’ispettore Carlo Guerrieri, personaggio entrato ormai nel cuore del pubblico: «Chi ci guarda è contento di quello che vede perché si riconosce in ciò che trasmettiamo». In prima serata su Rai1

La terza stagione di “Nero a metà” è stata accolta a braccia aperte dal pubblico, soddisfatto?

Sono molto contento. Avevo percepito l’attesa, che ha fomentato e accresciuto la voglia di seguirci. I numeri ci confortano molto.

E questa volta la serie porta anche la sua firma come regista, come è andata?

I primi sei episodi li ho diretti io ed è stata una bellissima esperienza. Era un gruppo di lavoro che conoscevo molto bene, gli attori erano i miei compagni di viaggio delle precedenti stagioni e devo dire che con tutti si è instaurato un rapporto di scambio, di fiducia, da capocomico, per utilizzare un termine un po’ desueto. Guidarli, condividere con i loro personaggi, è stata una bellissima esperienza. Certo, mi sono avvalso del lavoro fatto da Marco Pontecorvo nelle stagioni precedenti, e di questo non smetterò mai di ringraziarlo. “Nero a metà” è una serie che avevo nella pelle e che avevo contribuito a delineare, a fare crescere. Sono un attore collaborativo nei confronti dei progetti che seguo, mi piace condividere con chi scrive e dirige, tanto da scegliere, alla fine, di dirigere io stesso le cose che faccio.

Cosa significa dirigere se stessi?

Tra attore e regista subentra un piccolo conflitto, è quindi importante avere il supporto di tutti i collaboratori, dal direttore della fotografia all’aiuto regista, il nostro è un lavoro di collaborazione, mi fido molto del giudizio di chi lavora con me.

L’elemento di novità più evidente di questa stagione è la comicità, come ha vissuto questa svolta?

È stata una scelta precisa anche in fase di sceneggiatura. Abbiamo voluto rischiare un minimo sull’idea che anche nelle situazioni più serie, seriose, tragiche, come accade in un poliziesco, in un crime, le persone che fanno professioni anche molto impegnative hanno comunque lo spazio per potersi rilassare un secondo, per fare una battuta, per avere un momento più leggero. Ci siamo chiesti perché i nostri poliziotti dovessero essere sempre così cupi, in qualche modo tristi…

… quindi la svolta…  

Avevamo capito, nelle passate stagioni, che quei piccoli toni di commedia che c’erano tra il mio personaggio e quello di Malik Soprani (Miguel Gobbo Diaz), o Cantabella (Alessandro Sperduti), cominciavano a funzionare. Abbiamo voluto spingere in questo senso, senza mai essere grevi, volgari. Tra l’altro è abbastanza nelle mie corde. Come già accade in “Montalbano”, in “Don Matteo”, nella tradizione della grande fiction di Rai 1, abbiamo pensato che fosse giusto condire vicende estrapolate dalla cronaca, che hanno un fondo di verità, con momenti più leggeri. Nel cast, tra le new entry, ci sono attori forieri di una vena comica, più leggeri, da Caterina Guzzanti ad Adriano Pantaleo.

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