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Maria Falcone: i giovani cercano valori

Il RadiocorriereTv intervista la sorella del magistrato ucciso dalla mafia nell’attentato di Capaci, insieme alla moglie e a tre agenti della scorta, il 23 maggio 1992. “Giovanni affermava che la mafia è un fatto culturale – dice la presidente della Fondazione Falcone – e come tale doveva essere sconfitta culturalmente e non solo con la repressione”

Il 23 maggio è diventato nel corso degli anni un’occasione di condivisione e riflessione. Quest’anno vivremo la ricorrenza in modo diverso: lontani ma vicini…
Il 2020 è sicuramente un anno particolare, dopo le stragi del 1992 questa è l’emergenza più grave che l’Italia sta vivendo. In questi mesi di riflessione non ho potuto fare a meno di pensare che in fondo l’Italia, nei momenti difficili, è salvata da persone che sanno fare il proprio dovere. L’emergenza mafia è stata affrontata da Giovanni, da Paolo, da quel famoso pool, da tanti altri magistrati che, anche dopo il 1992, hanno continuato a lavorare. Tutti soggetti che hanno fatto, come diceva mio fratello ai miei figli, solo e semplicemente il proprio dovere. I medici, gli infermieri, tutti coloro che in questi giorni ci hanno aiutato a vivere nell’emergenza, cercando di limitare i danni, sono persone che hanno operato con spirito di servizio. Credo che questo accostamento con Giovanni e Paolo, il 23 maggio, fosse la cosa più doverosa che potessimo fare. So quanto è stato di consolazione, per me, quando Giovanni è morto, avere l’appoggio di tutti i cittadini italiani, e credo che sia importante, per chi ha perduto oggi i propri cari, per chi ha lavorato con sacrificio, come medici, infermieri, forze dell’ordine, sapere di avere l’apprezzamento dell’Italia.

Che cosa significa insegnare la legalità ai giovani, lei ha fiducia in loro?

Nel suo testamento morale Giovanni diceva che la mafia sarebbe stata sconfitta con un salto generazionale, quando i giovani sarebbero riusciti ad avere atteggiamenti diversi da quelli che avevano avuto coloro che appartenevano alla nostra generazione. Mi sono dedicata a loro perché Giovanni affermava che la mafia è un fatto culturale e come tale doveva essere sconfitta culturalmente e non solo con la repressione.

Cosa dice ai ragazzi che incontra da anni nelle scuole?

Ho portato nelle scuole la lezione della legalità e del rispetto delle regole, che proprio in questi giorni abbiamo capito, messo in pratica. Rispettarle, in qualsiasi campo, è importante. Le regole servono a far sì che la società possa vivere meglio.

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Anita Caprioli

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Scelgo le strade in cui mi riconosco

L’attrice, protagonista insieme a Giorgio Tirabassi di “Liberi Tutti”, serie in onda su Rai3 e su RaiPlay, si racconta al RadiocorriereTv: “Per come sono fatta, non so se riuscirei ad affrontare una condivisione estrema come quella vissuta dal mio personaggio”. E ancora: “Ho attorno a me tanta ironia, mi ritengo molto fortunata”

Come è avvenuto l’incontro con “Liberi Tutti” e con la sua Eleonora?

I registi e autori Giacomo Ciarrapico e Luca Vendruscolo mi hanno raccontato di questa idea totalmente inaspettata, di questa donna che decide di fondare un “cohousing”, realtà di cui non sapevo molto. Mi piaceva un sacco il pensiero di interpretare un’idealista, anche strampalata, che ha un progetto particolare e che decide di portarlo avanti in un modo per certi versi estremo. Il Nido, il luogo in cui si svolge tutta la vicenda, risponde a una scelta etica di sostenibilità, all’idea del vivere insieme. La possibilità di raccontare un personaggio simile mi ha immediatamente conquistata.

Cosa ha portato il suo personaggio a fondare il Nido, da cosa scappava?

Si è rifugiata in questa idea perché forse aveva bisogno di equilibrio. Lei ha certamente degli ideali, ma nella storia viene a scontrarsi con le sue stesse debolezze e con quelle delle persone che incontra. Un problema che riscontrerà anche all’interno di quel microcosmo che è il Nido, dove gli ideali vengono inevitabilmente a incastrarsi con le caratteristiche dei vari protagonisti. Nonostante abbia il desiderio di rigore all’atto pratico è diverso, Eleonora si deve confrontare con i propri e gli altrui limiti. Ha aperto il cohousing per sfuggire a un tipo di vita che le dava nulla.

Nel Nido Eleonora ha ricostruito il proprio mondo, con tanto di compagno ed ex marito. Lei accetterebbe mai, nella vita reale, una situazione del genere?

Per come sono fatta, non so se riuscirei ad affrontare una condivisione continua (sorride). Amo stare con le persone, ma condividere tutto rappresenterebbe una scelta abbastanza estrema. Per quanto riguarda l’ex che da marito diventa amico… può essere fattibile. La scelta di Eleonora di ospitare Michele, mettendosi a disposizione per gli arresti domiciliari, è in parte obbligata. Nel corso delle puntate si capirà che tra loro c’è comunque ancora un legame di un certo tipo, qualcosa che non si è risolto.

Quello di “Liberi Tutti” è un racconto ironico, talvolta parodistico…

È un mix di tutto, ci sono ironia, cinismo, irriverenza, e questo a mio avviso è la chiave forte della serie. Non vuole essere un manifesto di niente, si racconta con leggerezza una realtà un po’ folle. Così la vedono i due supervisori, gli “intercettatori” che controllano, attraverso microfoni spia nascosti nel Nido, i comportamenti di Michele e che osservano dall’alto ciò che accade tra gli abitanti di questo posto. Lo stesso protagonista mette in evidenza con ironia, cercando di scardinarli, tutti quei meccanismi del cohousing che ritiene singolari, bizzarri.

Quanta ironia c’è nella sua quotidianità?

Ho la fortuna di averne tanta attorno, anche grazie alle persone che mi sono vicine, parlo degli amici, della famiglia. Mi ritengo molto fortunata.

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Maurizio Costanzo

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La nostra cara TV

Le parole e i ricordi di Maurizio Costanzo e Umberto Broccoli, le immagini delle teche della Rai, le pagine storiche del Radiocorriere per raccontare settant’anni di storia italiana. “Gli archivi sono una miniera e una salvezza – afferma Costanzo – conservano anche tanti programmi che feci come autore, per me sono un ritorno al passato e al tempo stesso un elisir di lunga vita”. “Grazie alla televisione, a programmi come ‘Lascia o raddoppia?’ ci fu la corsa a parlare tutti quanti la stessa lingua” dice Broccoli, che auspica un ritorno alla Tv d’autore: “Non è sinonimo di noia, ma di televisione scritta, pensata, vale per il varietà come per l’inchiesta”. “Rai, storie di un’italiana” è in onda il sabato alle 14 su Rai2

Che cosa rappresenta per lei la televisione?

Una seconda patria. Ho cominciato come giornalista sulla carta stampata, ho fatto molta radio e poi sono arrivato alla televisione. È una conseguenza delle cose che ho fatto prima, è sicuramente un pezzo del mio cuore.

Insieme a Umberto Broccoli dà vita a un programma che ripercorre la nostra storia recente…

È l’incrocio tra la storia e i programmi televisivi, quanto la televisione ha raccontato l’Italia. Sono sicuro che in questo periodo di gente bloccata a casa, specialmente le persone non più giovanissime abbiano ritrovato nella compagnia della televisione la maniera per trascorrere tante giornate. Sostengo che con questa pandemia molti italiani abbiano sfondato i divani.

“Rai, storia di un’italiana” è un punto d’incontro tra intrattenimento e Servizio Pubblico…

Si racconta quello che accadeva in Italia e lo si rivive attraverso la televisione. Il Servizio Pubblico… sì certo, però non credo che ci sia una televisione pubblica e una privata. Credo che ci sia chi la televisione la fa bene e chi la fa male.

Nei suoi tanti programmi ha incontrato e intervistato migliaia di persone, c’è un incontro che rimane indelebile nella sua memoria?

Forse la prima volta che intervistai Giulio Andreotti a “Bontà loro”, la prima di una serie di volte, e poi alcuni anonimi, storie private di persone anonime, quelle sono rimaste più a lungo dentro. L’intervista memorabile è quella che ancora devi fare.

La televisione ha unito l’Italia, per i suoi tempi fu rivoluzionaria…

La televisione ha dato lentamente una lingua agli italiani. Prima del suo avvento un contadino calabrese e un contadino veneto che si fossero incontrati in treno non si sarebbero capiti. Nel tempo, con la rete, il linguaggio è poi diventato globale.

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Marco Carrara

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Tanto digital e tanta passione

Al fianco di Serena Bortone in “Agorà” e conduttore di “Timeline” su Rai3, porta sul piccolo schermo volti e storie della rete. “La curiosità è alla base di tutto – afferma – cerco di andare a fondo, non mi accontento mai, nel lavoro come nella vita”

Cosa significa raccontare la quotidianità al pubblico di Rai3?

Cerco sempre di mettere in campo rigore e chiarezza per fare capire fino in fondo ciò che accade. Per quanto riguarda il Coronavirus, sia in “Agorà” che in “Timeline” abbiamo parlato tantissimo dell’emergenza sanitaria, ora cerchiamo di affrontare anche quella economica, sempre con il massimo equilibrio, ascoltando la voce degli esperti. Al nostro fianco c’è una grande squadra che rende tutto questo possibile. La chiarezza è uno strumento ancor più indispensabile di fronte all’aumento delle fake news, cresciute in questi mesi del 5-6 per cento, noi usiamo la voce della scienza per smentire o confermare le voci dei social. Fare chiarezza in un momento tanto complesso è uno dei compiti del Servizio Pubblico, ci proviamo ogni giorno.

Cosa ti è piaciuto (e cosa meno) della rete e della televisione nel corso della quarantena?

Sono contento che la rete abbia avuto un proprio riscatto. Sono passati anni in cui si riteneva che i social fossero solamente il luogo in cui si perdeva tempo, in cui c’erano solo fake news. In questo periodo, invece, i social hanno fatto tanta compagnia, pensiamo ai conduttori che hanno incontrato online il proprio pubblico non potendo andare in onda con i programmi. I social sono stati una fonte di intrattenimento anche dove la tv non è riuscita a intrattenere. Il digital ha connesso davvero tante persone. Mi è piaciuto meno vedere, sia in rete sia in televisione, un dibattito polemico nei giorni dell’emergenza sanitaria.  Aspetto positivo è anche come la Tv abbia mutato il proprio linguaggio, evolvendo, capendo il potenziale rappresentato da internet, utilizzato per collegarsi con gli ospiti che non potevamo accogliere negli studi. Questa immagine un po’ più sporca, casalinga, ha introdotto un linguaggio, prima ritenuto impensabile, che è stato invece un valore aggiunto capace di arricchire la televisione stessa.

La televisione, nonostante la rete, ha dunque un futuro?

Ha confermato di sapere cambiare in base ai tempi. E questo è molto interessante.

Come ti difendi, personalmente, dalle fake news?

In questo momento l’arma più pericolosa è rappresentata dalle bufale che girano sulle chat personali. Nel corso della pandemia, sono state molte le persone che ci sono cascate. In questi casi, in assenza di una fonte certificata, è necessario fare verifiche, perché la miglior difesa è proprio quella della ricerca in rete, magari incrociando un sito di “debunking”, specializzato nello smentire le fake news. L’invito, dunque, è proprio quello di cercare, chiedendosi se quanto ascoltato o letto corrisponda al vero. L’importante è non essere passivi, non subire le notizie.

Continua sul RadiocorriereTV N. 20 a pag.38

Bianca Guaccero

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Felice di regalare un sorriso

La conduttrice è tornata su Rai2 con “Detto Fatto” dopo la lunga pausa dovuta all’emergenza sanitaria. Al nostro giornale rivela l’emozione del ritorno: “Ritrovare il mio pubblico è stata una gioia fortissima”. E sui mesi di lockdown, trascorsi in casa con la piccola Alice, confida: “Ho utilizzato l’escamotage della fiaba, del racconto, per spiegarle il virus e l’emergenza”

Dalla scorsa settimana “Detto Fatto” è tornato in onda su Rai2. Cosa ha provato al riaccendersi delle telecamere?

Emozionata come il primo giorno, temevo di avere perso la mano, invece mi è bastato poco per risentirmi di nuovo a casa. Nel programma abbiamo introdotto delle piccole novità, dei collegamenti con i tutor, ci siamo riassestati. Anche emotivamente non è stato facile, un mix di gioia e di adrenalina. È bello ricominciare, tornare a una pseudo normalità, spero sia così anche per chi ci segue da casa.

Come è stato ritrovare l’affetto del suo pubblico?

Il contatto con il pubblico di “Detto Fatto” è energia allo stato puro, siamo ritornati per loro. Sento la responsabilità di regalare quei sorrisi che fino a due mesi fa erano una cosa quasi scontata.

Come molte donne del Sud, sembra avere un approccio molto concreto, possiamo dire che “detto-fatto” sia anche una sua filosofia di vita?

Ho due anime, una più pratica e una più sognatrice. Nella quotidianità sono proprio “detto-fatto”, non perdo tempo, quando devo fare qualcosa passo subito all’azione.

In questi due mesi è stata ancora più vicina alla sua bambina, che parole ha trovato per spiegarle ciò che stava accadendo?

Sono stati due mesi molto intensi. Con Alice ho utilizzato l’escamotage della fiaba, del racconto, per spiegarle il virus e l’emergenza. È stato un po’ come nel film “La vita è bella” di Roberto Benigni, ho cercato di farle vivere una sorta di gara tra noi e il mostriciattolo cattivo che è il Coronavirus. Avrebbe vinto chi sarebbe riuscito a rimanere più tempo in casa, in palio c’era un premio: un viaggio a Disneyland (sorride).

Come ha risposto Alice?

Si è motivata tantissimo, tanto che alla finestra, vedendo passare qualcuno davanti a casa, diceva: “Mamma, quel signore ha perso!”.

Continua a leggere sul RadiocorriereTV a pag.08

Costanzo Broccoli

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Rai, storie di un’italiana

Al via sabato 16 maggio alle 14 su Rai2 il nuovo programma con Maurizio Costanzo e Umberto Broccoli per rivisitare la storia del nostro Paese attraverso il pregiatissimo archivio della tv di Stato

Rivisitare la storia del nostro Paese attraverso il pregiatissimo materiale d’archivio Rai: è quanto si propone “Rai, storie di un’italiana”, il nuovo programma di Maurizio Costanzo e Umberto Broccoli, che prenderà il via sabato 16 maggio alle 14 su Rai2. Grazie ai filmati delle teche della Tv di Stato, il giornalista e l’archeologo e saggista, con l’intento di narrare storie della nostra storia, ripropongono uno spaccato culturale dell’Italia. Attraverso ricordi, aneddoti e filmati d’archivio ci raccontano i  grandi protagonisti del nostro Paese dagli anni cinquanta ad oggi: dalla ricostruzione al boom economico, dalle complessità degli anni Settanta fino alle vicende più recenti di fine Millennio.

Continua a leggere sul RadiocorriereTV N. 19 a pag.16

Francesca Fialdini

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Il desiderio di essere amati

La popolare giornalista indaga il disturbo del comportamento alimentare, uno dei disagi giovanili più diffusi e meno raccontati, spesso dai risvolti drammatici: “Questi ragazzini usano il loro corpo per dire: non ho fame di cibo, ma d’amore. Non vedete che sto soffrendo? Che cosa aspettate a darmi una mano?”. L’appuntamento con “Fame d’amore” è il lunedì in seconda serata su Rai3

Come ti sei avvicinata a questo progetto?

È un tema che non può essere affrontato con un racconto superficiale fatto alla maniera di un daily, dove dai una notizia ma non hai molto tempo per svilupparla. Bisogna entrare nelle storie e nelle vite di chi patisce il problema per toccare il dolore che c’è dietro, per non rischiare di avere una reazione un po’ stereotipata, del tipo “questi sono ragazzini che giocano con il loro corpo, che vogliono fare i modelli e le modelle e non sanno che sofferenza provocano nelle loro famiglie”. Altrimenti rischiamo di non capire cosa c’è sotto, per paura, per indifferenza, perché la società dell’immagine ci impone dei modelli e non guardiamo oltre. Vedendo che quella dei disturbi alimentari è una fenomenologia ad ampio spettro, sempre più complicata e più diffusa, e che ha a che fare con la società dell’immagine, ma non necessariamente nasce da lì, ho pensato che fosse necessario affrontarla. Ho trovato questo percorso stimolante, urgente, importante, è un tema di servizio pubblico.

Anoressia e bulimia sono termini che sembrano fare paura, talvolta c’è quasi vergogna di parlarne. Cosa hai scoperto di queste malattie che prima non sapevi?

Le parole vergogna e paura vanno a braccetto. La vergogna di chi ha un caso in famiglia e non ha gli strumenti per affrontarlo, la vergogna dei ragazzi che ne soffrono. E non necessariamente perché arrivi a pesare 20 chili, ma perché forse arrivi a pesarne 120 e non sai più come nasconderli, la vergogna è anche nelle motivazioni che possono avere portato questi ragazzi ad ammalarsi. Quando scavi dentro queste ferite ti rendi conto che alla base ci sono le relazioni più importanti per noi, quelle che hanno a che fare con i genitori, con gli insegnanti, con la figura di riferimento emotiva del ragazzo. È sempre un tema delicato e scottante da affrontare. In questo programma non puntiamo il dito su una sola causa, perché abbiamo scoperto che le cause possono essere le più diverse. Ci siamo resi conto che il primo muro da abbattere è proprio quello della vergogna e della paura di ammettere che il problema esiste. La scala di diffusione è tale che oggi i posti nelle comunità sono talmente pochi che i genitori non sanno come aiutare i propri ragazzi.

Un problema che va oltre il rapporto genitori-figli, quale ruolo ha la società?

Ci sono casi in cui il problema nasce in famiglia perché alle volte, come nel caso di Beatrice, una delle ragazze che conosceremo, l’investimento dei genitori non è adeguato. Loro vogliono che diventi un magistrato, lei non ne vuole sapere e continua a guardarsi allo specchio con occhi che non sono i suoi. Non vede se stessa, ma quello che il padre vuole da lei. Questo può accadere anche nella vita di Alberto al quale viene chiesto di diventare un medico di successo, proprio come era il nonno. Altre volte il vizio non è in famiglia, ma nel rifiuto di una ragazzina o un ragazzino di cui ti sei innamorato o innamorata, o anche nel rifiuto del gruppo dei pari al quale vorresti tanto partecipare, ma che non ti riconosce come membro. Altre volte ancora è una serie di concause. Evidentemente nella società di oggi, dove è così importante essere bello, pieno di filtri che ti coprono anche i nei, diventi la maschera che vuoi mostrare agli altri. Non è importante ciò che fai, ciò che pensi e come ami, ma come ti mostri, e questo messaggio è dirompente tra i ragazzini.

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Ciro Giustiniani

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Sono un comico da sofà (perché in cucina c’è la ZTL)

Incontro semiserio del direttore del RadiocorriereTv, Fabrizio Casinelli, con l’attore napoletano, storico protagonista di “Made in Sud”

Ciro come va a casa?

Ci siamo organizzati per bene… la cucina è zona a traffico limitato, c’è il controllo della telecamera. Dovendo stare in casa ci siamo dati delle regole, anche politicamente, siamo andati al voto, mia moglie ora è sindaco…

Ha vinto le elezioni?

Democraticamente con votazione bulgara. È anche vicesindaco, assessore e opposizione. Fa le leggi, le emenda. Io devo semplicemente eseguire ciò che decide.

Ho saputo che nella tua abitazione non mancano i divieti…

Quello per la cucina era obbligatorio, poi, con mia moglie in politica… meglio evitare il “magna magna”.

Avete messo altri cartelli?

C’è un divieto davanti al bagno: “Vietato al…cesso”. Mia moglie dice che perdo peli, quindi… meno vado meglio è. Mi ha centellinato gli sciacquoni, posso andare tre volte al giorno e una la notte, ma solo con autocertificazione…

L’hai già compilata?

Non me l’ha ancora rilasciata, la pratica è in lavorazione… sto aspettando…

Continua a leggere sul RadiocorriereTV N. 19 a pag.42

Silvia Mazzieri

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Regalare emozioni mi rende felice

Giovane astro nascente delle fiction targate Rai, dopo aver indossato i panni della specializzanda in “Doc”, è tra le protagoniste di “Vivi e lascia vivere” con Elena Sofia Ricci e Massimo Ghini: «Anch’io, come Giada, nonostante l’età, mi sono dovuta rimettere in gioco molte volte»

Buongiorno Silvia, prima di tutto come sta?

In ansia! Sono una persona molto emotiva e questo lungo periodo di lockdown l’ho vissuto da sola a Roma, lontano dalla mia famiglia. È stato difficile e al tempo stesso importante, perché mi ha permesso di compiere un bel viaggio dentro di me stessa.

Da “DOC” a “Vivi e lascia vivere”, è un bel momento della sua carriera…

Sono state delle esperienze bellissime, arrivate una dietro l’altra. Più lavoro fai, più hai voglia di metterti in gioco e per me che sono una perfezionista, è stato fondamentale. In questi due ultimi progetti ho imparato moltissimo sia del mestiere che di me stessa. Un aiuto importante è venuto dal gruppo di lavoro, soprattutto in “Doc”. Abbiamo trascorso molto tempo insieme e il pubblico ha premiato il nostro affiatamento. È stato veramente un peccato interrompere bruscamente le riprese (per emergenza Coronavirus). Ma torneremo…

Cosa la conquista di un personaggio?

Sono una persona empatica e in ogni ruolo cerco sempre qualcosa di me. Non giudico mai un personaggio, vado piuttosto alla ricerca della sua anima, delle sfumature che provo a restituire con la mia interpretazione. In Alba Patrizi (la giovane specializzanda di “Doc”) ho ritrovato alcune mie fragilità, la forte emotività, caratteristiche che rendono una persona viva, reale e che, al momento opportuno, possono trasformarsi in forza, in desiderio di prendere in mano la propria vita e cominciare a volare. Mostrare le proprie debolezze non significa non avere carattere, a volte è vero il contrario. Andare oltre i propri limiti è una sensazione unica.

Si è emozionata nel portare il camice da medico?

In realtà non era la prima volta, perché ho studiato chimica a scuola e per tre anni ho avuto l’onore di indossarlo.

Continua a leggere sul RadiocorriereTV N. 19 a pag.22

Bruno Vespa

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Secondo Vespa

Da venticinque anni, dal salotto di “Porta a Porta”, è testimone attento dei fatti e degli eventi che hanno segnato e segnano la vita del Paese. Il RadiocorriereTv incontra il noto giornalista, colonna portante dell’informazione della Rai anche nei mesi difficili dell’emergenza Coronavirus. “La storia ci insegna che dalle crisi più grandi ci possono essere dei miglioramenti insospettabili – afferma – e spero che l’Italia possa approfittarne”

Nella sua carriera ha raccontato l’Italia, i grandi eventi che hanno cambiato la nostra storia recente, ha intervistato i grandi della Terra, come ha vissuto la “prima volta” del Coronavirus?

Come tutti, con straordinaria sorpresa. Una cosa non solo mai accaduta né in Italia né nel mondo, ma nemmeno immaginabile. È stato un unicum. Da un punto di vista professionale è stata un’esperienza importante, da un punto di vista personale è stato uno shock, al punto che mi sono talmente abituato a un ritmo di vita diverso, pur avendo continuato per fortuna a lavorare, che non ho nessuna voglia di riprendere quello abituale, il che è abbastanza preoccupante (sorride).

In queste settimane l’informazione “per bene” si è trovata a difendere i lettori e gli spettatori dalle fake news, come fermare un assalto sempre più “violento”?

Si fanno addirittura dei comitati contro le fake news, io sono sempre stato abituato dai maestri che ho avuto e in particolare da Emilio Rossi, il primo direttore del Tg1 dopo la riforma della Rai del 1975, a fare un controllo scrupolosissimo delle fonti. I miei colleghi sanno benissimo che non possono dire “l’ho letto sul giornale”, così come sui siti, perché sanno che una cosa del genere è impensabile. Devono fare sempre una verifica diretta, e quando si fanno le verifiche dirette le fake news non esistono.

Come fa ad accorgersi se un suo interlocutore è, per così dire, un “bluff”?

Cerco intanto di intervistare delle persone minimamente accreditate. Mi è capitato, in questo momento, di trovare delle persone più fragili, meno preparate, meno idonee di quello che immaginavamo e l’intervista è stata rapidamente conclusa.

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