Clementino

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Mi aspetto ironia, emozioni e sentimenti

Ha preso il via venerdì 27 novembre su Rai1 “The Voice Senior”,  che ha come protagonisti concorrenti over 60. “Non pensavo di fare il giudice ad un talent – ci dice il rapper  – E’ un programma speciale, anche perché ogni cantante ha una storia da raccontare”

Come si sente nelle vesti di coach di “The Voice Senior”?

Sicuramente fino a qualche mese fa non mi sarei mai aspettato di fare il giudice ad un talent, anche perché è sempre stato lontano dai miei standard rap. Ho accettato perché c’è anche una bellissima opportunità sia di farmi conoscere nelle vesti televisive, sia di divertirmi. E’ un programma speciale, anche perché ogni cantante ha una storia da raccontare. Come si fa a dire di no ad una proposta del genere, dato che nella mia vita ho fatto anche teatro e l’animatore nei villaggi, prima di iniziare a fare musica?

La quota rap è ormai sempre più presente all’interno dei programmi di musica.

Certo. Io vengo da un tipo di rap che è quello delle gare di Freestyle, underground e a tutto ho pensato tranne che potessi andare a fare un giudice ad un talent.

I concorrenti non devono diventare necessariamente famosi, ma partecipare ad un grande gioco, seppur mossi dal talento. Cosa si aspetta da loro?

Ironia, perché mi piace questo punto di vista. Emozioni, sentimenti.

Con chi sarà un giudice impietoso?

E’ difficile esserlo. Io sono uno dei giudici più giovani. Posso soltanto dire il mio gusto su una canzone, ma fondamentalmente sarò tra i più buoni.

Ha annunciato sui social il suo ruolo di coach. Come lo hanno accolto i suoi fan?

Bene! Anche i colleghi mi hanno detto che ero l’unico che lo poteva fare. Sono sempre stato quello che sta a capotavola alle cene, che intrattiene, che fa i monologhi, che racconta le barzellette. Mi diverto tantissimo anche sui social e mi piace fare lo show, sia nelle vita che sul palco.

E’ molto attivo sui social, anzi, durante la prima quarantena, è stato molto presente con diverse iniziative, non ultima quella di esibirsi su un tetto.

Sono un sagittario, vivace, cordiale, distratto, disordinato. Nonostante i miei 38 anni, ho il cervello di un ragazzo di 18 e quindi quando sono rimasto “chiuso” come tutti a marzo scorso, ad un certo punto ho iniziato a fare delle dirette Instagram. Un giorno sono salito sul tetto di casa mia e tutti i vicini di casa si sono affacciati al balcone e hanno iniziato a fare le riprese e a divulgarle. Un giornale scrisse “Clementino come i Beatles, concerto sul tetto”. C’era tutta la gente che con le bandiere si divertiva con me…

Continua a leggere sul RadiocorriereTv N. 48 a pag.18

Platinette e Dario Gay

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Inno della pettegola

Primo singolo dall’inedita coppia composta dal cantautore Dario Gay e da Mauro Coruzzi, in arte Platinette. Una canzone divertente, ironica e leggera in omaggio a Franca Valeri.

Da dove arriva l’idea di questa particolare canzone?

Dario: Arriva dall’osservazione dei personaggi nella quotidianità. L’ho scritta insieme a Giovanni Nuti, che è un altro curioso come me. Ridiamo delle stesse cose. Siamo sempre rimasti affascinati da personaggi un po’ bizzarri come lo è la pettegola. Abbiamo scritto questa canzone anni fa ed è rimasta ferma nel cassetto. Poi, risentendola, ho sempre immaginato di cantarla con Mauro Coruzzi, nei panni di Platinette, perché era perfetto per l’ironia che solo lui sa trasmettere in quel modo.

Come ha accolto l’idea di cantare insieme a Dario “Inno della pettegola”?

Mauro: Il contatto è avvenuto durante la prima fase della clausura, chiamiamola così, come una cura alla malinconia e all’ansia. L’idea è maturata in varie fasi. Con Dario ho un rapporto da tanti anni, io sono un radiofonico, lui un artista, mi ha stupito quando mi ha chiamato con la sua idea di cantarla insieme a me. Durante l’estate, poi, abbiamo deciso di realizzarla e per me è stata una specie di cura palliativa. In questa seconda ondata, una canzone così, sorridente ma innocente, ha un ottimo risultato. Una sorta di sorriso che non guasta, piacevole.

Un omaggio a Franca Valeri che con i suoi personaggi ha rappresentato l’arte del pettegolezzo…

Dario: Lei è un monumento e penso sia unica nella storia. Poi apparteneva alla borghesia milanese, quindi sapeva osservarne tutte le caratteristiche. Ha trasformato il pettegolezzo in un’arte. I suoi personaggi chiacchieravano dicendo le peggiori cose.

Quindi il pettegolezzo può essere un’arte?

Dario: Fatto come da Franca Valeri, sicuramente sì. Anch’io e Mauro siamo pettegole, però sempre con il rispetto, perché è divertente fino a quando è un chiacchiericcio non dannoso. Il pettegolezzo deve viaggiare sulle vicende piccanti, sui tradimenti, mai su argomenti pesanti, altrimenti diventa calunnia e cattiveria.

Mauro: Assolutamente sì. La morte di Franca Valeri è stata poco commentata. Io l’ho amata molto e, avendola conosciuta, ho sempre trovato il suo umorismo eccezionale. Ha trascorso buona parte della sua carriera al telefono, sia che fosse Sora Cecioni, Cesira o la Signorina snob, mi ha fatto sempre pensare alla borghese seccata, che non sa come passare la giornata e inizia a parlare e straparlare degli altri in un linguaggio sublime, come ha fatto lei. Franca Valeri è una borghese milanese del dopoguerra, un tipo di borghesia ben strutturata. Il suo pettegolezzo è l’arricchimento della notizia, che passa di bocca in bocca e aggiunge qualcosa. Sapeva descrivere benissimo i vizi della conversazione apparentemente inutile, ma invece decisiva per rendere le giornate meno noiose.

Quanta verità c’è in un pettegolezzo?

Mauro: Si parte sempre da una verità presunta. E’ importante il tramandare da una bocca alla successiva senza fermarsi alla correttezza della notizia in sé, nel senso che deve rimanere un gioco verbale o un arricchimento barocco, o  un ricciolo o un volant. Se invece passa alla vera cattiveria, non appartiene più a quella categoria, ma scende in maniera abissale verso la delazione pura.

Dario: C’è sempre una parte di verità, non è mai completamente vero, anche perché, passando di bocca in bocca, viene trasformato, come il gioco del telefono senza fili che parte con una parola, ma l’ultimo capisce una cosa completamente diversa. Il pettegolezzo, secondo me, è esattamente questo meccanismo. C’è una parte di verità sempre, però viene molto romanzata e condita, riempita di orpelli.

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Claudio Gioè

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La vita, un eterno cambiamento

L’attore siciliano è protagonista, insieme ad Anna Valle, della serie di Rai1 “Vite in fuga”. Al RadiocorriereTv parla del suo personaggio, che si ricrea un’identità per sottrarsi a pesanti accuse, e del suo mestiere d’attore: “Dagli occhi della gente che incontro per strada capisco se ho fatto bene il mio lavoro”

Cosa l’ha spinta a vestire i panni di Claudio?

Intanto la grande fiducia e stima che ho nei confronti del regista, Luca Liguori, che mi ha coinvolto in questo suo progetto. Poi il fatto che fosse una storia molto interessante dal punto di vista psicologico, narrativo, un thriller che vive tra i fatti che accadono e nelle dinamiche delle relazioni dei personaggi.

Ognuno di noi è portato a pensare che certe cose, nella propria vita, non avverranno. Si è chiesto come avrebbe reagito se quel Claudio fosse stato proprio lei?

Non me lo sono chiesto. È vero che certi eventi ti sconvolgono al punto di scordarti che cos’eri prima di quell’accadimento. Il personaggio ha avuto la necessità di reinventarsi in seguito a un evento, ricreare se stessi è un fatto evolutivo molto importante.

Giustifica la fuga?

Dipende da che cosa si sta scappando. Per la famiglia Caruana c’è la vita in ballo, fuggire è un’extrema ratio che si affronta con rassegnazione. Una fuga necessaria che diventa un’occasione per indagine su se stessi.

Che rapporto ha con i cambiamenti?

Credo che la vita sia un eterno cambiamento. Ho cercato di trovare un’attività che non fosse troppo cristallizzata, che non fosse uno spazio in ufficio. La precarietà di questo lavoro, dove nulla è programmato, ha sempre a che fare con i cambiamenti. Ritengo anche che il cambiamento sia una condizione normale per gli esseri umani. Cercare di contrastarlo, arginarlo, porta, di solito, a fare disastri.

Il cambiamento va dunque assecondato…

Mettersi in una condizione di rigidità di fronte al mutare delle cose non porta mai bene.N

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Manuela Villa

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Sei nell’aria

Manuela Villa torna con una nuova canzone, che interpreta con il  tenore genovese Fabio Armiliato. Un duetto dall’intreccio vocale appassionante, per un brano dal ritmo incalzante e vibrante, che la cantante, che è anche scrittrice, autrice e attrice teatrale, ci descrive così: “L’ho scritto pensando a mia madre. Avevo bisogno di un suo abbraccio, ma poi mi sono resa conto che lei è ovunque”

“Sei nell’aria” è interpretato in un duetto con  il tenore Fabio Armiliato. Come nasce questo ritmo incalzante e vibrante?

Quando ho scritto il pezzo ho immaginato di cantarlo insieme ad una grande voce, però non sapevo con chi. Poi, ho parlato con Giovanna Nocetti, che mi ha suggerito la voce giusta, quella di Fabio Armiliato. Non lo conoscevo e non immaginavo potesse interessargli un mio pezzo. Invece, gli è piaciuto moltissimo e lo abbiamo inciso. Per altro, non ci siamo mai conosciuti di persona e quindi non vediamo l’ora di cantare questo pezzo di fronte ad una bella platea, perché è quello che ci manca.

Dove ha tratto ispirazione per scrivere questa canzone?

Mi trovavo sola a casa, un po’ triste, come capita a tutti in questo periodo. Avevo voglia di sentire la sensazione dell’abbraccio, del tocco con le mani di mia madre, che manca da qualche anno, e quindi mi sono messa al pianoforte dicendo “come faccio a risentirti, come faccio a ritoccarti e a riprovare almeno una volta questa sensazione”. Ad un certo punto ho iniziato a suonare e ho pensato che era inutile cercarla, ero abbattuta per questo, ma mi sono resa conto che lei è ovunque, nell’aria, in quella che vivo e che respiro, tutti i giorni. Mi è venuta l’ispirazione, ho scritto di getto il pezzo, la musica e poi l’ho fatta realizzare.

Come ha vissuto, nell’interpretazione di questa canzone, l’intreccio vocale con un tenore?

Per anni ho cantato con mio padre che era un tenore leggero. Quindi non è stato difficile né cantare né pensare a un brano dove si intrecciano due voci diverse, ma con una forma mentis simile. Io sono un crossover e come tale sono al limite tra il pop e il classico. Quindi non è stato difficile per me immaginare questa collaborazione.

Lei non è solo la cantante che tutti conosciamo, ma è anche autrice, scrittrice, attrice teatrale. Cosa le manca del teatro in questo momento?

Del teatro mi manca salire sul palcoscenico e tirar fuori tutto quello che so fare per dare emozione al pubblico. Più in generale, mi manca l’apprezzamento di alcuni addetti ai lavori, che sono ancora pieni di preconcetti, e che non mi fanno fare il volo che dovrei fare.

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Antonella Clerici

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La passione vera non ha età

Da venerdì 27 novembre, in prima serata su Rai1, arriva la variante over 60 del talent show che ha conquistato più di mezzo miliardo di spettatori nel mondo. Al fianco dei concorrenti e a introdurne le loro esibizioni, uno dei volti più amati del piccolo schermo. Coach delle quattro squadre Loredana Bertè, Gigi D’Alessio, Al Bano e sua figlia Jasmine (team Carrisi) e Clementino

Un programma di grande successo che torna in una veste nuova, come sarà “The Voice Senior”?

Il nome dice tutto. Gli over sessanta sono persone che non devono diventare famose, che non hanno la prospettiva di fare una grande carriera. In molti casi sono arrivate a un passo dal farcela, in altri hanno fatto cose diverse nella vita professionale, ma hanno tutte, come minimo comune denominatore, la passione per la musica, sono talenti che suonano e cantano da sempre, la loro è un’energia tipica di chi non ha età, perché la passione vera non ha età. E poi, quando hai dei sogni, sei sempre giovane. Chi prende parte al programma ha delle storie molto belle e intense da raccontare, sono persone che mettono in palio tutto quello che hanno. Un palcoscenico importante come quello di Rai1 rappresenta un’esperienza bellissima, pur senza vincere niente, senza prospettive di contratti discografici o di diventare famosi.

Come è strutturato il programma?

Nelle prime tre puntate ci sono le audizioni al buio. I coach non vedono i concorrenti e non ne conoscono le storie, ascoltano solo la loro voce. Ma sono proprio i coach a fare la parte del leone, dalla loro interazione con i cantanti nascono situazioni davvero interessanti. La conduzione in un format come “The Voice” è un po’ defilata. C’è il divanetto sul quale accolgo gli artisti che poi si esibiscono. Li accompagno dal racconto della loro vita, dai loro sogni, fino al momento del palcoscenico. Mentre li sento cantare conosco già la loro storia. Ascolto voce e cuore. Dopo le “blind auditions”arrivano la semi finale, chiamata “Knock out”, e la finale, alla quale accederanno solo due talenti per ogni team.

Quando la colpisce una voce?

Quando mi trasferisce un’emozione, deve farmi sentire i brividi sulla pelle, indipendentemente da quello che canta. Abbiamo tanti concorrenti, vista la loro età, che cantano musica rock, che fa parte della loro generazione. Non è solo il melodico a farmi emozionare.

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Elena Sofia Ricci

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Nella passione e nei giovani il senso della vita

Giovedì 26 novembre in prima serata su Rai1 l’atteso film per la televisione su Rita Levi-Montalcini diretto da Alberto Negrin. «La poetica del suo essere scienziata si incentrava sulla scelta di dedicare agli altri, allo studio, la propria vita – afferma la protagonista – diceva che il sapere è anche un dovere, perché un uomo non è solo responsabile di se stesso, ma di tutta la sua specie».

Come è stato vestire i panni di Rita Levi-Montalcini?

Un’esperienza entusiasmante, ancor prima di portarla sullo schermo avevo già studiato molto della professoressa Montalcini, della sua attività scientifica, lo avevo fatto per altre ragioni. Ho letto il copione qualche mese dopo la scomparsa della mia agente Marina, che da molto tempo voleva che interpretassi quel ruolo. Fino a quando la professoressa era viva pensavo che lei si raccontasse bene da sola, mi chiedevo perché dovessi farlo io. Dopo la morte, leggendo quel copione meraviglioso, una delle cose più belle che abbia letto in questi ultimi anni, mi sono detta: si vede che lassù qualcuno ha deciso che io debba farlo (sorride).

Cosa la attraeva di quella figura?

Sono sempre stata molto affascinata da quella donna, dalla passione con cui faceva il suo mestiere, che la spingeva a essere quella che era, sempre protesa verso gli altri, con un profondo senso del dovere che la portava a dedicarsi al prossimo, perché in questo trovava il senso della vita. Invitava tutti, a partire dai giovani, ad avere il coraggio di sapere, di conoscere, di andare avanti, di perfezionarsi.

Il film tv di Rai1 ci porterà in uno dei luoghi più cari alla professoressa…

Abbiamo girato nella sua casa, la nipote e i parenti, molto generosamente, ci hanno aperto le porte e sono rimasta sconvolta. L’abitazione della professoressa, che si trova di fronte alla clinica dove sono nate le mie figlie, e già questo mi ha fatto tenerezza, è di una semplicità incredibile, inverosimile. Ho visitato tanti conventi, anche di clausura, ma non ho mai visto qualcosa di così francescano come la sua camera da letto. Lei non aveva un letto con una testiera, ma una rete a una piazza con un materasso, appoggiata a un muro. C’erano alcune foto della sorella, vinili e CD di musica classica, la stessa che amo anche io.  Sulla libreria alcune frasi scritte a mano su pezzettini di carta, attaccati con il nastro adesivo, rimasti lì da sempre. Tra tutti spiccava l’incitazione latina “Sapere aude”, frase celeberrima fatta propria da Immanuel Kant, filosofo dell’Illuminismo: abbi il coraggio di sapere, osa sapere, conoscere.

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Luisella Costamagna

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La realtà sulla grande piazza di Rai3

Quello di “Agorà” è un successo crescente di stagione in stagione. Luisella Costamagna, da settembre alla conduzione del programma in onda dal lunedì al venerdì alle 8, al RadiocorriereTv: «Faccio questo mestiere per andare a capire, con le mie curiosità di cittadino, ma anche per dare risposte alle domande che si fa il pubblico»

Da circa due mesi alla conduzione di “Agorà”, hai voglia di fare un primo bilancio?

Sono contenta sia nel merito che nei numeri, siamo a oltre 600 mila spettatori al giorno. Sono molto soddisfatta di una macchina che funziona e che ha sempre funzionato. Ovviamente ci sono le levatacce e la stanchezza di fare un programma quotidiano ricco come una prima serata.

Cosa ti ha spinto ad accettare questa nuova sfida?

Da ospite e telespettatrice amavo “Agorà”, lo ritengo l’apertura della giornata dell’informazione, politica ma non solo, un programma che ho sempre seguito e stimato. Per me era anche un modo di tornare a fare il mio mestiere dopo anni da opinionista. Non vedevo l’ora di poterlo fare. Ringrazio la Rete e il direttore che mi hanno permesso di andare in onda al meglio.

Dall’osservatorio di “Agorà” che Italia stai raccontando e che Italia vedi?

Poniamo l’accento sulla realtà. Rispetto al talk “chiuso”, “Agorà” apre il muro dello studio e va a vedere come stanno le cose. Questa è da sempre la sua forza e non posso che valorizzarla. Apriamo il programma con gli ospiti andando subito nella realtà, che in questo momento vedo un po’ fiaccata dalla nuova emergenza, da parte degli italiani c’è un atteggiamento sensibilmente diverso. Penso che come tasso di responsabilità gli italiani siano stati straordinari nella prima fase, adesso ci sono stanchezza, esasperazione, un po’ più di insofferenza nei confronti delle regole, che sono un po’ più complicate rispetto a un lockdown nazionale, che era uguale per tutti. Noi cerchiamo di fare capire cosa cambia da una zona all’altra. L’insofferenza è dovuta all’avere fatto dei sacrifici e a ritrovarsi, nonostante tutto, nell’autunno, stagione in cui si ha un atteggiamento diverso rispetto alla primavera, alle prese con una nuova emergenza. A marzo si cantava dai balconi ed era un’esperienza di vita nuova e diversa, che lasciava spazio alla fiducia. Quando ti ricapita e sei dentro a un conteggio di morti, di ricoveri in terapia intensiva, in una situazione di paura, c’è un tasso di esasperazione e di depressione maggiore. Pensavamo di esserne usciti, invece ci stiamo di nuovo dentro.

Continua a leggere sul RadiocorriereTv N. 47 a pag.22

Matteo Martari

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Detective senza licenza, ma con un cuore puro

«Abbiamo deciso di raccontare solo alcuni aspetti, cercando però di preservare l’animo del protagonista di Carlotto. Questa è stata la nostra sfida» racconta l’attore veneto al RadiocorriereTv a proposito de “L’Alligatore”, strepitoso personaggio letterario, dal 25 novembre in prima serata su Rai2

Marco Buratti, prima si ritrovarsi ingiustamente in carcere per sette anni, era un cantante blues, il frontman della band “The Old Red Alligators”. Quando esce di prigione il suo unico obiettivo è riprendersi la vita e, in un mondo direi quasi poetico, rendere giustizia laddove lui non l’aveva avuta. È un uomo con una grande morale.

Da cosa siete partiti per mettere in scena questa storia?

Quando mi hanno chiamato per propormi questo personaggio – al netto di quanto ci ho messo a metabolizzare la richiesta (ride) – mi sono fiondato in libreria a comprare tutti i romanzi di Massimo Carlotto, anche quelli che non c’entravano niente con la serie. Quando sono arrivate le sceneggiature, ho studiato prima da solo, e successivamente con Daniele (Vicari, il regista) e il cast, facendo una profonda analisi del testo. A un certo punto è stato messo a nostra disposizione anche un teatro dove, per otto ore al giorno, tutti i giorni, abbiamo provato i personaggi. È stato un approccio davvero meticoloso.

La vita di Buratti sembra sempre in bilico tra luce e abissi…

Sette anni in carcere sono veramente un periodo lunghissimo nella vita di una persona, ma Marco Buratti li affronta con orgoglio. È finito dietro le sbarre per sua scelta e accetta la situazione senza buttare via il suo tempo. Io me lo sono immaginato come un uomo di una certa levatura, avvolto da una sorta di romanticismo rispetto ai tipi che incontra in galera, che ne subiscono il fascino e si fidano di lui. Appena tornato libero, Buratti approfitta, ovviamente, del suo carisma, sfruttando al massimo questa particolare rete di conoscenze, molto al limite della legalità, per realizzare i suoi piani: la ricerca della verità e ristabilire la giustizia. Si trasforma in un detective senza licenza, un percorso che affronta con immensa dignità e morale, rispettando le scelte altrui, anche quando non le condivide.

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Anna Valle

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Il fascino complesso della famiglia

Dal 1995, anno che l’ha eletta la più bella d’Italia, è diventata una delle attrici italiane più apprezzate, icona di stile ed educazione. Del suo ultimo ruolo da protagonista in “Vite in fuga” al Radiocorrieretv racconta: «Pur essendo un personaggio ben definito, Silvia è in continua evoluzione, e questo per un attore è una sfida affascinante, è il motivo per cui facciamo questo lavoro, cambiare pelle ogni volta»

Una nuova storia che la vede protagonista e che mette al centro la famiglia…

“Vite in fuga” racconta una vicenda sconvolgente che costringe un’intera famiglia, i Caruana, a rinunciare alla propria vita, lasciarsi tutto alle spalle e dimenticare il proprio mondo. Costretti a sparire nel nulla, far finta di essere morti, senza neanche avere il tempo di riflettere, cambieranno identità, diventando di fatto degli invisibili. Io non sapevo che in Italia esistessero tantissime persone in queste condizioni, è come azzerare il contachilometri e ripartire da zero.

Chi è questa madre in fuga?

La serie mostra all’inizio una famiglia borghese, molto benestante, un marito dirigente di un grosso banco, due figli adolescenti e Silvia, il personaggio che interpreto, una donna che ha rinunciato a una sua carriera lavorativa per diventare la moglie discreta di un uomo di successo e avere così la possibilità di crescere i propri figli in armonia. Quando la situazione precipita, accetta più degli altri il destino a cui stanno andando incontro, tra i quattro è la più convinta e propositiva, pronta a una nuova vita, purché la famiglia rimanga unita. Man mano che la storia va avanti tutta questa certezza comincia a vacillare, assistiamo a una profonda trasformazione in lei che la porterà a prendere decisioni inaspettate e conoscere nuovi lati della sua personalità.

Che cosa l’ha colpita di Silvia?

Il suo essere costantemente alla ricerca di se stessa, arrivando a mettere in discussione quello che era stata nella sua vita precedente, il suo avere fiducia incondizionata nel marito. Pur essendo un personaggio ben definito, Silvia è in continua evoluzione, e questo per un attore è una sfida affascinante, è il motivo per cui facciamo questo lavoro, cambiare pelle ogni volta. È una donna che mi ha colpito subito, fin dalla sceneggiatura, è avvincente, è verosimile, ci puoi credere a una storia così. La regia di Luca Ribuoli, con il quale ho già lavorato in passato in “Questo nostro amore”, è moderna e vera, sono certa che il pubblico ne rimarrà colpito. Abbiamo lavorato bene, con Claudio Gioè, al quale devo tanto, si è subito stabilita un’ottima sintonia, bravissimi poi i giovani, Tecla e Mattia, un cast davvero ben affiatato.

Continua a leggere sul RadiocorriereTv N. 46 a pag.8

Isabella Potì

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Radici e sperimentazione, la cucina del nuovo millennio

Il RadiocorriereTv incontra la giovane chef, in libreria e negli store digitali con “Millennial Cooking”, edito da Rai Libri. Un viaggio che alterna storie e ricette, un percorso in cui l’autrice miscela il suo presente, alla guida della cucina di un ristorante stellato del Sud Italia insieme al collega e fidanzato Floriano Pellegrino, con gli anni della sua formazione all’estero, il grande rispetto per la gastronomia pugliese con la voglia di esplorare i mondi culinari più diversi

Incontro e sperimentazione, che cosa rappresentano nella sua vita?

Sono due concetti sempre presenti. Nell’incontro c’è tutta la conoscenza di culture e persone differenti. A formarmi, nei viaggi, sono stati proprio gli incontri che ho fatto, cosa che capita ancora oggi con coloro che vengono a lavorare nel nostro ristoranteda tutte le parti del mondo. È un incontro con culture, tradizioni e cucine diverse. La sperimentazione, invece, ci ha portato a creare quello che siamo. Ogni step è stato ed è un momento di sperimentazione, di crescita, di attuazione di un processo creativo che ci fa dar vita a nuovi menù.

Giuliano Sangiorgi, che firma la prefazione del libro, ha definito la sua cucina “stellare”…

Un piccolo sogno che si realizza, è un complimento, un riconoscimento enorme. Lui, ancora prima di noi, è riuscito a muovere milioni di persone e ad avvicinarle ancora di più al nostro territorio, a fare conoscere il Salento in tutto il mondo.

Che cosa significa essere salentina?

Personalmente vivo l’essere salentina in maniera un po’ diversa, perché sono per metà polacca, da parte di mamma, e per metà salentina. C’è un distacco notevole tra le due tradizioni. Essere salentina significa ritrovarsi nel calore di casa, il profumo dell’erba appena tagliata, il saluto di ogni vicino in paese mentre vai al mercato, è conoscere tutti quanti.

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