Aiello

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Pronto per sudore, lacrime e gioia

Contaminazione di generi, sperimentazione musicale, milioni di visualizzazioni sui social e disco d’oro per “Ora”, la canzone presentata al Teatro Ariston. Aiello, ci racconta il dopo Festival e ci parla di “Meridionale”, il suo secondo album: «Venivo da un anno di privazioni, a Sanremo ero come un vulcano tappato. Sto vivendo un momento bello, le recensioni sono molto buone e le persone che incontro cantano il mio motivo».

Gabriele Gregis

Come nasce la sua canzone, “Ora”?

Nasce nel primo lockdown, momento di solitudine profonda.  In quel periodo ho riflettuto molto e mi sono posto domande riguardo a macerie che avevo nel petto. Ho preso coraggio e mi sono detto che sono uno str…o. Nella canzone ho portato un messaggio forte, ho parlato di sesso, non pensavo affatto a Sanremo. L’idea di portarla al Festival è venuta in un secondo momento. Non era nata per questo evento.

Quindi la canzone nasce da una storia vera?

In realtà molto di ciò che scrivo arriva da esperienze personali. Per liberarmi in qualche modo, butto tutto su un pianoforte e su un pezzo di carta. Nascono così le mie canzoni.

Dopo tanti mesi di fermo, cosa ha significato per lei cantare in live al Festival di Sanremo?

Ha rappresentato un momento molto molto forte ma allo stesso tempo strano, per diverse ragioni. Senza un pubblico non era facile stare sul palco, ma ero cosciente che si trattava di un evento importantissimo. Venivamo da un anno di privazioni, c’è chi come me è arrivato lì come un vulcano tappato. Ho vissuto tutto molto intensamente.

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DIEGO DALLA PALMA

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Il valore dell’originalità

Prendersi cura dell’immagine è il suo lavoro, ma il racconto dell’anima è la sua passione più grande. Truccatore di fama mondiale, scrittore, amato personaggio televisivo, torna su Rai Premium con la quinta stagione di “Uniche”. Protagoniste Veronica Pivetti, Serena Bortone, Vittoria Schisano, Mirta Merlino, Paola Perego, Paola Saluzzi, Imma Battaglia e Tosca. Dal 28 aprile in seconda serata

Libero Produzioni TV

Diego, come nascono le sue interviste?

Le mie non sono interviste, perché io non sono un conduttore (sorride). La mia disinvoltura è legata a un passato non facile. Ho imparato a essere ferocemente me stesso, e grazie a questo non ho più paura di nessuno e di niente. Ogni puntata di “Uniche” è un confronto fra persone doloranti, con tragitti umani difficili, percorsi sassosi, con storie talvolta laceranti, ma comunque sempre storie provanti. Quando mi metto in quell’angolo di luce, dove non vedo quasi i cameramen, la regista, nessuno, ho davanti a me solo gli occhi di una persona, il suo sguardo. Se parlo del suo dolore mi immedesimo nel mio.

Uno scambio di esperienze e di energie…

È accaduto recentemente con Tosca che mi ha raccontato di avere avuto, a sei anni, una malattia che le ha creato tanti problemi. Io a sei anni ho avuto una meningite che mi ha mandato in coma. Sento il mio di percorso prima che il loro, le lascio parlare e mi porto a casa una lezione di vita. Sono incontri che mi stimolano. Per entrare nella mente, nelle gioie, nel dolore, nelle conquiste, nelle sconfitte di un altro, non puoi essere un conduttore, un intervistatore. Mi pongo quattro o cinque domande basiche e su quelle costruisco la puntata.

Cosa le fa capire che una persona è autentica?

I dieci minuti che precedono l’inizio della puntata. Se sviluppa snobismi fuori luogo significa che l’ospite è venuto solo per il cachet.

Se accade come cambia il suo atteggiamento?

Mi subentra lo stimolo di sfida, pur senza attaccare le persone. Punto sul dialogo, sull’apertura reciproca, comincio a parlare della sua infanzia. Se paradossalmente tiri fuori qualcosa di positivo di quell’infanzia, se ti rendi conto che quel periodo ha lasciato dentro qualcosa di importante, da lì si parte.

C’è qualcosa che non chiederebbe mai a una sua intervistata?

Quanti soldi ha.

Per quale motivo?

Perché ho passato tanto di quel tempo a non averne, e tanto di quel tempo ad averne, che so quanto si soffre quando non si hanno e quanto si è cretini quando si hanno. Le persone che hanno soldi e si beano, si convincono quotidianamente della loro ricchezza, sono fragili, molto spesso deficienti di qualcosa. Vedendo che questi meccanismi li ho vissuti entrambi, sia quello dell’agiatezza che quella dell’indigenza, non parlo di soldi. Non mi interessa.

Cosa ci rende, per davvero, unici?

Essere semplicemente diversi dagli altri, non essere omologati. L’unicità è paradossalmente anche ironizzare su se stessi. Le parla un uomo che l’ego l’ha coltivato all’inverosimile per un conflitto instaurato con mia madre. Viveva in una situazione di pastorizia insieme al babbo, dovevo farla riscattare, dovevo premiare questa donna che era scontenta della sua vita, avevo questa sfida. Era molto singolare rispetto alle sue sorelle, aveva un senso di libertà, quasi di insolenza, che la distingueva da tutti. Da lei ho cominciato a capire cosa fosse l’originalità.

Un percorso non sempre facile…

Non si può stare bene nei panni di un altro, ognuno di noi ha una propria particolarità. Si ha paura di metterla in gioco perché la gente è feroce, ci ghettizza, ci deride. Quando dico a una persona “che donna strana che sei” oppure “che uomo strano che sei”, è un complimento meraviglioso. La stranezza è molto spesso l’anticamera del fascino, del proprio stile.

Quando ha imparato ad ascoltare gli altri?

Mio padre mi diceva che non ascoltavo chi parlava con me, che interrompevo, che parlavo a voce troppo alta. Mi sembravano cavolate, poi, piano piano, ho capito che era vero, che interrompevo la gente, che non ascoltavo, che ero già proiettato sull’altra domanda che avrei dovuto fare, e che non avevo grande interesse per ciò che mi veniva detto. Quello di mio padre era un insegnamento tutt’altro che retorico o stupido. Sto imparando a non fare questo errore.

Come riempie di bellezza la sua vita?

Scrutando, a volte scuotendo la testa, l’enorme quantità di bruttezza umana che c’è in giro. Confrontandomi con questa mi salvo, perché mi dico: “Dei, mai così! Destino, mai così!”. Mi confronto con la bruttezza e mi sento una mongolfiera che prende il volo, che va in mezzo alla natura. Perché è la natura a darmi tutte le risposte immaginabili, da sempre. La bellezza la trovo anche nell’arte, nella musica, nella melodia.

Un equilibrio e una sintesi virtuosi…

Sa qual è la mia forza? Essere innamorato della vita e avere grande rispetto per la morte. È una formula che ti porta verso una vita piena, bella, priva di sorprese eccessivamente amare, è un buon tragitto.

Nel corso della sua carriera ha incontrato grandi personaggi, ce n’è uno che le è rimasto per davvero nel cuore?

In assoluto, la persona che mi ha ammaliato, stregato, affascinato, sconvolto per femminilità, mistero, sapienza espressiva, magia, è Amalia Rodrigues, la regina del fado portoghese. Aveva qualcosa di esoterico che andava oltre i confini della vita e della morte, di indefinibile, che condizionava non le persone, ma l’etere. Questo al femminile, al maschile cito due uomini che mi hanno affascinato in maniera totale, perché avevano la stessa identica dote, parlo di Giorgio Strehler e Demis Roussos. Lavoravo per il teatro alla Scala, stavamo aspettando Strehler. Eravamo in 52 dentro la sala prove, c’era un brusio generale, tutti chiacchieravano, ma a un certo punto ci zittimmo naturalmente. Dopo una quindicina di secondi si aprì la porta e lui entrò. Come facevamo a sapere che sarebbe arrivato in quell’istante? Demis Roussos, aveva gli occhi con dentro il mare, gli abissi, l’Egeo e il Mediterraneo. Lucio Dalla non era bello, ma aveva la potente dote di trasporto, presente nell’etere. Amalia era una donna minuta, ma quando saliva sul palcoscenico sembrava una donna di tre metri.

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Daniela Ferolla

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Le buone abitudini per una vita più green

La conduttrice di “Linea Verde Life” debutta in libreria con “Un attimo di respiro” (Rai Libri). Un diario di viaggio attraverso buone pratiche, scoperte e approfondite, suggerimenti per nutrirsi in modo più sano, mantenersi in forma e ristabilire un contatto profondo con noi stessi e il nostro meraviglioso Pianeta

Prendersi un attimo di respiro per ascoltarsi e conoscersi, quando hai cominciato ad ascoltare e conoscere per davvero Daniela?

Ho sempre provato a essere sintonizzata con il mio corpo, con la mia mente, di ascoltarmi nonostante la frenesia della vita quotidiana. Sono riuscita a farlo ancora di più durante il primo lockdown, che ha stravolto le nostre vite. Ho cercato di sfruttare il tempo con qualcosa di positivo, di utile, dedicandomi alla mia casa, al mio compagno, alle mie cose, e prendendomi ogni giorno quell’attimo di respiro. L’ho fatto anche attraverso la gyrokinesis, disciplina che mi ha fatto scoprire mia sorella e che mi ha aiutato a mettermi in contatto con me stessa attraverso una serie di esercizi e di tecniche di respirazione. Un vero antistress che mi ha aiutato a rilassarmi, a eliminare le tossine. Prendersi un attimo di respiro significa anche dare spazio alla meditazione, allo sport, così come mangiare sano. Tutto questo è diventato un appuntamento fisso della mia giornata.

Nel libro citi il detto “dimmi cosa mangi e ti dirò chi sei”. Cosa significa alimentarsi in modo equilibrato?

Quando mangi in maniera equilibrata sei anche una persona equilibrata. A ognuno di noi è capitato, almeno una volta nella vita, di essere depresso e di ritrovarsi sul divano con il gelato in mano. In quei momenti il cibo è una richiesta d’attenzione, d’amore. È pertanto necessario trovare un equilibrio con se stessi e con l’alimentazione. Certo, anche lo sgarro, di tanto in tanto, è contemplato, c’è e ci deve essere. Fa bene al metabolismo, alla testa.

Cosa non manca mai sulla tua tavola?

Inizio tutti i miei pasti con le verdure, che si tratti di un’insalata o di una vellutata di zucca, piselli o ceci, che prediligo nei mesi invernali. Mangiarle a stomaco vuoto è utile sia per una migliore assimilazione delle proprietà nutritive, sia per arrivare al primo un po’ più sazi e non eccedere nelle porzioni. Anche oggi, prima della pasta con sugo di pomodoro e basilico fresco che ho appena preparato, porterò in tavola un bel piatto di insalata.

Movimento ed energia sono elementi strettamente correlati. Quale equilibrio hai trovato?

Credo che l’uomo sia fatto per correre, per muoversi. Nel momento in cui lo metti dietro a una scrivania, a fare una vita sedentaria, si ammala. Abbiamo bisogno di sudare, di buttare via lo stress ed espellere le tossine. Per questo ci dobbiamo ritagliare quell’attimo di respiro che ci consente di fare sport, all’aria aperta fino a quando non sarà possibile andare in palestra, come a casa nostra, con un semplice tappetino, magari utilizzando delle bottiglie piene d’acqua o dei libri al posto dei pesi.

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Orietta Berti

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La mia vita è un film

Orietta Berti, oltre sedici milioni di dischi venduti, tournée in tutto il mondo, 55 anni di carriera, ha partecipato al Festival di Sanremo per la dodicesima volta con la canzone “Quando ti sei innamorato”: «Sembra – dice – la mia storia d’amore».

foto di Stefano Pilli

Dodicesimo Festival di Sanremo per lei. Come lo ha vissuto?

In modo molto singolare. Sono stata sempre chiusa in albergo e ho fatto tantissime interviste on line, spesso non avevo neanche il tempo necessario a prepararmi. E’ stato un po’ stressante perché adesso, rispetto al passato, ci sono tanti giornali, radio, tv e bisogna accontentarli. Avevo però paura che mi andasse via la voce, perché se si parla due o tre ore la voce va via. E poi temevo di presentarmi con un trucco non adatto in televisione, dato che dovevamo truccarci da soli. Ho portato le scarpe alte solo per entrare sul palco e le ho indossate poco prima. Alcuni facevano le prove, si sentivano urlare per scaldare la voce, però era tutto blindato, non conoscevamo le canzoni degli altri. Davvero tutto molto diverso dal passato.

Qual è il cambiamento più importante che ha visto in questi anni di Festival?

La musica cambia negli anni. Un tempo esportavamo la nostra musica in America, in Francia, in Germania, in Russia. Le canzoni italiane venivano raccolte, studiate, replicate. Poi dopo c’è stata l’importazione, come oggi, con una musica che non ci appartiene. Oggi c’è il rap che non conoscevo con giovani che sono molto forti sul web. Noi però siamo italiani, abbiamo le nostre radici, nessuno portava una canzone d’amore e di bel canto italiano sul palco da molto tempo. Anche i look adesso sono stravaganti e i cantanti sono molto sicuri di sé. Noi non avevamo mosse studiate, un elemento che non c’era e che c’è. Poi ho notato che i giovani non hanno paura del palco, anche se sono timidi hanno l’orgoglio di voler arrivare. Sono molto emotivi e anche romantici, ma nascondono bene i loro sentimenti. Oggi se sei romantico, diventi ridicolo.

Come è nata la sua canzone “Quando ti sei innamorato”?

Questa canzone me l’hanno portata Francesco Boccia e Ciro Esposito mentre ero a Napoli e partecipavo ad una trasmissione televisiva. Mi è piaciuta molto, sembrava la mia storia con Osvaldo. Mi aveva colpito molto anche la musica e così ho iniziato a lavorare al cofanetto e l’ho messa in archivio. Poi, invece, ho deciso di portarla a Sanremo, anche se non ci sono andata per gareggiare con tanti ragazzi giovani…

 “La mia vita è un film – 55 anni di musica” è la raccolta dei suoi successi. Cosa è racchiuso in questo cofanetto?

Ci sono sei Cd. I primi tre riguardano la prima parte della mia carriera, anni meravigliosi della musica. Il quarto, invece, la carriera più recente. Il quinto è una rarità: raccoglie sigle televisive, duetti che ho fatto e di cui mi ero dimenticata. Il sesto Cd contiene 20 canzoni nuove, mentre il vinile ne contiene due in più, con due diversi arrangiamenti.

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Hildegard De Stefano

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Suono e trovo la mia identità

Il RadiocorriereTv incontra Hildegard De Stefano, che nella fiction di Rai1 interpreta Sara Loffredi. La sua passione più grande? Il violino. «Nei momenti di difficoltà la musica è stata l’unica cosa in grado di attraversare la mia anima» afferma la musicista e attrice milanese

Sara-Petraglia

A due anni di distanza dalla prima stagione com’è stato ritrovarvi tutti insieme sul set?

Un po’ come ritrovarsi in famiglia. Abbiamo iniziato a girare lo scorso anno quando c’erano i primi casi di covid e si cominciava ad avere paura di quello che stava succedendo. Dopo due settimane di lavoro siamo stati fermati e per diversi mesi abbiamo avuto il timore di non riuscire a riprendere. Poi siamo ripartiti con le nuove norme da seguire, tra mascherine, tamponi e distanziamenti il set è cambiato. Riuscire a finire la seconda stagione è stata una vera fortuna, bellissimo. Vederla in onda è un risultato desiderato per tanto tempo.

Due anni sono tanti, vi siete trovati cambiati?

Ognuno ha fatto i suoi approfondimenti, siamo arrivati sul set cresciuti per età e, speriamo, anche un poco in questa nuova arte che abbiamo iniziato a conoscere. È stato interessante fare un gradino in più, affrontare nuove sfide. Abbiamo ritrovato anche i nostri personaggi un po’ più grandi, la storia è cresciuta con loro.

Come è cambiata Sara, il suo personaggio?

La mia Sara è più donna, per la prima volta si trova a fare i conti con l’amore. L’abbiamo sempre vista giocare con i ragazzi, lei non si era mai innamorata. Farà nuove esperienze e il pubblico scoprirà una sua nuova debolezza.

Da musicista, come ha vissuto l’assenza di musica dal vivo in questo ultimo anno?

La musica vive di pubblico, quella sullo streaming non arriva allo stesso modo. Il concerto è un’esperienza magica e anche un po’ spirituale, è la condivisione di un momento in cui giocano tanti fattori. Il pubblico dà energia all’artista che si esibisce e, anche in base alle reazioni del pubblico, cambia l’interpretazione. Per quanto mi riguarda ho avuto la fortuna di sfruttare questo anno per lavorare a un mio progetto, un libro, che prevede anche un album di musiche annesse. Anche in questa fase difficile la musica ha comunque accompagnato il mio percorso.

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Nicolas Maupas

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In equilibrio tra gli estremi

«Ho incontrato molti ragazzi con una personalità affine a quella di Vittorio. Appartengo a una generazione molto particolare, o troppo colorata, o troppo scura. Ci sono giovani che a vent’anni pensano di avere già tutte le risposte, di conoscere il mondo, quando, al contrario, a questa età dobbiamo cercare le giuste domande» racconta al RadiocorriereTv uno dei protagonisti di “Nudes”, serie diretta da Laura Luchetti in esclusiva su RaiPlay

“Nudes” affronta una realtà di cui gli adulti poco conoscono, o sottovalutano, e che i giovani subiscono anche quando sono coinvolti in prima persona…

Esiste uno stacco generazionale sulla vicenda affrontata con la serie, con la quale abbiamo cercato di realizzare un piccolo riquadro intorno alla realtà del mondo adolescenziale, a ciò che accade ai ragazzi in caso di revenge porn. In generale, credo che tra gli adulti ci sia poca coscienza di questo problema, anche perché rispetto a noi, sono la parte meno abituata all’uso dei social. Sono anche meno coinvolti, mentre tra i ragazzi, vittime o carnefici, è un fenomeno sempre più dilagante.

Ce lo racconta?

L’atto di revenge porn colpisce molte sfere del privato, con ripercussioni legali e sociali molto forti. Con la storia di Vittorio abbiamo messo in evidenza ciò che accade al carnefice, come cambia la sua vita fino a diventare vittima di se stesso. Tra gli adolescenti è spesso un’esperienza distruttiva, può iniziare per incapacità di qualcuno nel gestire la gelosia o per un eccesso di rabbia. Il telefonino e i social diventano allora strumenti con cui canalizzare le energie negative. Non è sempre un atto di vendetta, a volte di pura superficialità di chi non riflette sulle conseguenze del proprio comportamento. Con “Nudes” abbiamo provato a raccontare quello che accade una volta che il revenge porn invade la nostra vita, spiegando chiaramente cos’è, senza filtri.

Adulti spesso spettatori distratti delle vite dei propri figli, come ne escono da questo racconto?

Non sono il focus principale della storia, sono un binario parallelo della serie. Alcuni provano ad aiutare i figli, ad ascoltarli, ma spesso un dialogo è impossibile, perché chi è vittima di revenge porn fatica a raccontare, a liberarsi. I social non sono semplici applicazioni sul telefonino, per un adolescente rappresentano una finestra su altri mondi, spesso sconosciuti ai genitori.

Nel caso di Vittorio, che adulti ritroviamo?

Sono genitori che hanno impartito a Vittorio un’educazione agiata, priva di punizioni, e quindi impreparati di fronte agli errori del figlio. Nonostante sia un fenomeno sociale diffuso, il revenge porn è un fatto soggettivo, non si sa mai come rispondere, come prenderlo. Direi quindi che gli adulti ne escono scombussolati e confusi.

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Batman

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Il ritorno di Batman

Dal 19 aprile i pomeriggi di Rai4 si colorano con le irresistibili avventure dell’uomo pipistrello e del suo fido compagno Robin, nel classico anni Sessanta interpretato da Adam West e Burt Ward. Dal lunedì al venerdì alle 14

Nato dalla fantasia dei fumettisti Bob Kane e Bill Finger nel 1939, “Batman” si è posto fin da subito all’attenzione di grandi e piccini per l’originalità del personaggio e la complessità del suo background, tragico e allo stesso tempo intriso di un eroismo privo di superpoteri che lo differenziava dal contemporaneo Superman. Dopo due serial cinematografici, che negli anni ‘40 hanno fatto conoscere l’Uomo Pipistrello e il suo assistente, il Ragazzo Meraviglia, al grande pubblico che non leggeva i fumetti, Batman e Robin riscossero uno straordinario successo a partire dal 1966 con la serie tv ideata da William Dozier. Abbandonata quell’aura noir che contraddistingueva il personaggio dei fumetti, la serie televisiva puntava su una riscrittura colorata e farsesca del personaggio, caratterizzata da una morale utile a impartire i giusti insegnamenti a un pubblico di adolescenti. Contraddistinta in puro stile pop art dall’apparizione grafica su schermo dei suoni onomatopeici che replicavano con originalità il layout delle tavole a fumetti e accompagnata da una tema musicale composto da Neal Hefti divenuto memorabile, la serie di “Batman” è andata avanti per tre stagioni con grandissimo successo.

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Leonardo Mazzarotto

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La mia vita “in ascolto”

«Ho appena fatto il primo esame del biennio del Conservatorio, un bel trenta per iniziare con il piede giusto, c’è la seconda stagione de “La Compagnia del Cigno”, è uscito il mio libro… sono in un momento davvero emozionante della mia vita.» Il RadiocorriereTv incontra Leonardo Mazzarotto, il giovane attore e musicista romano lanciato dalla serie scritta e diretta da Ivan Cotroneo, la domenica su Rai1

foto-di-Sara-Petraglia

Una seconda prova da “Cigni”. Com’è andata?

Siamo stati chiamati a portare ancora una volta avanti quelle che come gruppo abbiamo fatto nella prima stagione. È una sfida importante che speriamo di vincere. Siamo quindi ripartiti da noi e dalla centralità della musica, dal valore delle passioni e del talento. Il tutto affrontato, questa volta, con una chiave più matura e adulta, con molti più colori “umani”.

Come ritroviamo Matteo, il suo personaggio?

È un ragazzo che ha certamente chiarito alcune parti in ombra della sua personalità che, come abbiamo visto nella prima stagione, condizionavano la sua vita. Matteo riesce a “normalizzare” il suo dolore, i suoi traumi, prendendo coscienza del fatto che nella vita certe cose possano capitare, anche se nel corso della storia qualche ombra riaffiora, mettendo in luce le sue debolezze e le sue fragilità di essere umano.

Cosa l’ha colpito di questo ruolo?

Il suo essere vero, la sua capacità di essere un compromesso e che non sempre riesce a gestire i suoi momenti di falsità e di invidia.

Qual è la sfida di questa nuova stagione?

Sicuramente cercare di fare bene almeno quanto nella prima occasione. È più difficile, anche perché se prima eravamo quasi tutti degli esordienti, ora non abbiamo più questo rifugio, e avremo, forse, gli occhi puntati con più attenzione. Fondamentale mantenere vivo lo sguardo sul mondo del Conservatorio, della musica e del talento. Ci saranno delle sorprese. 

Si è mai domandato cosa significa avere un sogno da realizzare?

Fare di tutto per raggiungere il proprio obiettivo, tanto da non accorgersi più che è un sogno. Quando è talmente alto quello che ti sei prefissato, nel mio caso essere un musicista, ma più in generale un artista, ti abitui così tanto all’idea di voler raggiungere questa dimensione che il sogno diventa la quotidianità. Può essere una cosa bella, ma anche pericolosa, bisogna essere sempre pronti ad affrontare il percorso in maniera aperta. Avere avuto l’occasione di prendere parte a “La Compagnia del Cigno” ha rappresentato un’opportunità talmente grande da cambiare la qualità e la specificità delle mie ambizioni. Sento di essere più aperto a quella che sarà la mia vita rispetto a quello che ero due o tre anni fa.

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Luca Barbareschi

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Una risata contro il conformismo

Una dialettica onesta e libera, una narrazione mai scontata e grande “sense of humor”. Il 19 aprile, in seconda serata su Rai3, debutta “In barba a tutto”. Un bancone, un biliardo, due poltrone e, sullo sfondo, una vista cittadina simbolo di una cultura underground. Un ambiente stimolante al dialogo in cui il conduttore accoglie ogni lunedì sera ospiti “che hanno molto da dire”

foto-di-Assunta-Servello

“In barba a tutto”, un titolo che ci fa pensare a un programma irriverente e fuori dalle righe, cosa sta preparando per il pubblico di Rai3?

Chi ha visto i miei one man show “Piantando i chiodi nel pavimento con la fronte” e “Cercando segnali d’amore nell’universo”, che sono stati due miei cavalli di battaglia teatrali, conosce il mio senso dello humor. In “Piantando i chiodi” mi chiedevo che cosa facesse Messner una volta arrivato in cima all’Himalaya. La risposta era: apre la sdraio, va di corpo e inquina tutto l’altopiano a 7 mila metri. Quando feci quello show mi documentai e scoprii che c’era una violenta rivolta del Nepal contro coloro che arrivati in vetta lasciavano ogni sorta di detrito e tornavano a valle di corsa, creando una pattumiera sul mondo. Non è che al mattino passa la nettezza urbana e porta via tutto. Su questa chiave ho costruito spesso il mio umorismo al contrario, dicevo che nel parco di Yellowstone non si può più andare a fare i picnic perché è pieno di orsi e gli orsi mangiano i bambini, allora forse sarebbe meglio limitare il numero degli orsi, almeno si potevano fare i picnic (sorride). Il momento più comico di Roma è stato il bioparco, perché se si chiamava zoo era brutto, incivile, cattivo, nel bioparco improvvisamente i leoni sono contenti, i ghepardi cantano Verdi. Il bioparco è uguale allo zoo, è cambiato il nome, ma bioparco, in qualche modo, fa sinistra colta progressista. Il mio programma vuole prendere in giro tutta questa roba, un processo semantico che ha distrutto tutto. La gente, se la fai ridere, si rende conto dell’idiozia. Il programma è in barba al conformismo intellettuale, alla cultura del piagnisteo, è un pozzo di petrolio di possibilità di comicità, è pop, ironico, divertente e provocatorio.

Un programma che segna un punto di rottura anche per gli argomenti affrontati, in televisione si può parlare proprio di tutto?

Aveva ragione Totò che diceva “castigat ridendo mores” (correggere i costumi ridendo).  Lui era molto spiritoso, geniale. Il problema è che solo da morto è diventato un genio, prima non lo si poteva dire. Io invece vorrei essere celebrato da vivo, cosa che faccio serenamente da 48 anni di attività. Tutto ciò che ho fatto, anche l’Eliseo (storico teatro romano gestito da Barbareschi), l’ho fatto in barba a tutto e a tutti, perché hanno cercato di fottermi tutta la vita. Potrei scrivere un libro sull’imbecillità, e lo dico perché sono un socialista ebreo che crede nella libertà di pensiero. Di fronte a tutto questo lo humor è fondamentale, in sinagoga si ride. Se racconto una parabola e ti faccio ridere sono sicuro che tu abbia capito, perché il momento comico è la catarsi drammaturgica. In ogni puntata di “In barba a tutto” si parlerà di un tema diverso, ma ognuno sarà analizzato pettinandolo dall’altra parte e svegliando un po’ la gente. Se lo fai in maniera comica secondo me la gente si diverte.

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Nudes

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Le ombre della rete

Le emozioni, le paure, la trasgressione, il rischio, la consapevolezza. La serie antologica diretta da Laura Luchetti per RaiPlay, disponibile dal 20 aprile in dieci puntate, è un viaggio in un’umanità parallela, quella degli adolescenti, dei loro sentimenti e della loro sessualità, della socialità virtuale. Il RadiocorriereTv incontra la regista del teen drama che affronta per la prima volta il tema del revenge porn attraverso il punto di vista dei giovani protagonisti

“Nudes” sta per arrivare su RaiPlay, soddisfatta?

Mi è stata offerto l’adattamento di questa serie norvegese più di un anno fa. Il tema del revenge porn mi interessava molto, ne avevo sentito parlare, avevo letto molte cose, ma quello che noi leggiamo è solo la punta dell’iceberg e arriva ai media dopo denunce, scandali e tragedie. La pancia dell’iceberg è piena, me ne sono accorta quando chiacchierando con mia figlia Lucia, mi disse che lei e i suoi amici conoscevano qualcuno a cui era successo, che aveva perpetrato o che era rimasto vittima. Questa cosa mi ha molto colpito. Un altro passo che ho voluto fare è stato quello di ascoltare i miei ragazzi, un cast di 18 non attori e di alcuni attori protagonisti (Nicolas Maupas, Fotinì Peluso, Giovanni Maini). Mi sono messa a disposizione di una ricerca sul campo, è stato bello farmi raccontare ciò che sapevano e pensavano, le loro esperienze. È stato il tentativo di essere più naturali e veri possibile, con l’obiettivo di accendere una piccola luce su qualcosa di poco illuminato.

Che narrazione emerge?

Molto onesta, è cambiata insieme a loro laddove era fatta troppo da un occhio adulto. Ho cercato di rimanere con lo sguardo al loro livello, mettendomi sempre accanto, mai sopra. L’ho portata in una direzione molto vicina ai ragazzi.

Quali sono state le scelte di linguaggio?

“Nudes” è un progetto di finzione basato su una casistica molto simile in tutti i Paesi. Registicamente ho pensato che la cosa più giusta fosse stare attaccata a loro, ho la macchina da presa sempre in faccia, addosso, sulla pelle, e allo stesso tempo li metto in contesti molto isolati e isolanti. La fenomenologia di questo dramma è che i ragazzi rimangono assolutamente isolati, tanto che a volte non si confidano nemmeno con i propri amici.

Che cosa significa lavorare con i giovani?

Con i ragazzi rivivo il ricordo dell’adolescenza in generazioni differenti. L’amore per la mia professione è reso più grande dalla possibilità di lavorare con loro. Ci sono l’innocenza e il momento in cui questa si rompe, fondamentale della vita di ogni essere umano, è quello su cui ripongo la più grande attenzione. A quell’età se c’è stata perdita dell’innocenza c’è anche la possibilità di riconquistarla.

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