Simone Liberati

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Come Anna ed Enrico

Nella serie diretta da Gianluca Chiavarelli è il compagno follemente innamorato della sua donna, incapace di cogliere i segnali della crisi profonda della coppia. «Mi sono sentito veramente di respirare a pieni polmoni, coinvolto in un lavoro emozionante e bellissimo» racconta l’attore romano al RadiocorriereTv dell’esperienza in “Chiamami ancora amore”, in onda il lunedì in prima serata su Rai1

©-Fabrizio-de-Blasio

Come si può amare tanto per poi arrivare a distruggersi?

È una domanda alla quale sembra difficile dare una risposta, in realtà non lo è. Esiste, infatti, un collegamento stretto tra l’amore e il sentimento apparentemente opposto. L’insofferenza che a un certo punto questa coppia manifesta, fino ad arrivare al rancore e all’odio, è qualcosa che appartiene alla loro esperienza amorosa.

Una regia spogliata di ogni artificio per arrivare al cuore e all’anima dei protagonisti. Com’è stato mettersi così a nudo?

Un privilegio. Il racconto aveva fin dal principio un presupposto fortemente realistico, è una storia molto bella e ben scritta, che propone una ricchezza esplorativa enorme, per un attore il pane quotidiano. Mi sono sentito veramente di respirare a pieni polmoni, coinvolto in un lavoro emozionante e bellissimo. Tavarelli (il regista) ha voluto asciugare il più possibile, evitare una regia sofisticata che avrebbe creato troppo distanza dai personaggi. Credo che questa sia una scelta innovativa rispetto ad altri prodotti seriali che vediamo, si sceglie di scostarsi dal macro racconto per dedicarsi a un racconto più intimo, privato, che in realtà parla a tutti, al di là delle esperienze vissute, più o meno simili rispetto a quelle che vivono i personaggi. Chiunque può riconoscersi in questa storia, in Anna ed Enrico, nel loro amore, in quello che vivono prima come coppia di giovani amanti, poi come nucleo famigliare, nei loro cambiamenti personali nel tempo.

Quale geografia emotiva emerge dalla serie?

Una intimità molto fragile, sempre molto sul crinale, con equilibri precari e con sbilanciamenti nel rapporto di Anna ed Enrico che hanno smesso di parlarsi, di conoscersi, di rinnovare quel desiderio, quella sete di conoscenza reciproca. Questa fragilità, alla fine, porta a deteriorare il rapporto fino alla tremenda contesa legale che ha come oggetto il figlio. C’è la determinazione a farsi guerra nella maniera più bieca possibile per rivendicare una certa ragione, una sorta di primato, ma che in realtà non fa altro che mettere in evidenza la grandissima debolezza di questi ragazzi. Nel rappresentare questa “battaglia”, il sentimento che ci ha attraversati, seguendo proprio le indicazioni del regista, è stato non dimenticare mai quanto Anna ed Enrico avessero necessità dell’idea dell’altro, del desiderio di non spezzare del tutto ciò che li aveva uniti. Non sapremo mai se loro torneranno veramente insieme, ma riusciremo a scoprire se saranno in grado di salvare quel legame che avevano deciso di creare quando hanno dato vita alla loro famiglia.

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Davide Shorty

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“Fusion.”, oltre le parole

Davide Shorty, cantautore, rapper e producer capace di far convivere la sua voce soul con sonorità jazz e rap, secondo tra le nuove proposte al Festival di Sanremo con “Regina”, ci racconta il suo nuovo album: «vuole essere una fusione di tantissime cose: cultura, generi, esperienze, persone».

ph.-Ambra-Parola_Alta

Iniziamo da Sanremo. Non si sarebbe mai aspettato di partecipare, com’è accaduto?

Ho avuto una visione. Dopo aver scritto “Regina”, ho visto la canzone con l’orchestra sul palco del Festival.  Nella visione c’era anche la mia band. Quello che ho portato è un pezzo italiano, ma anche molto internazionale. Ho pensato che poteva essere qualcosa di nuovo per Sanremo, che è il palco più italiano che ci sia. Abbiamo costruito un team di lavoro che alla fine ci ha premiato.

Secondo posto, tra le nuove proposte, per la canzone “Regina”. A chi è dedicata?

Originariamente l’ho scritta parlando di una persona con la quale stavo condividendo la vita che è la mia ex compagna. Penso che sia dedicata a tutte le donne forti, una celebrazione della loro indipendenza e della loro determinazione. Guardando lei mi sono reso conto di quanto sia importante lasciarsi liberi di gestire la vita anche quando amiamo. L’amore non è possesso, anche se spesso la società in cui sono cresciuto dà un esempio di amore tossico, in cui l’uomo diventa quasi padrone. In Sicilia questo cattivissimo esempio l’ho visto davanti ai miei occhi, anche se non direttamente a casa mia. Importantissimo è rompere questa visione e celebrare la libertà delle donne.

Il titolo del suo nuovo album ci riporta ad una mescolanza di musica, parole e cos’altro?

Il titolo è “Fusion.” Ho scelto il minuscolo che ritengo importantissimo, così come il punto. Vuole essere una fusione di tantissime cose: cultura, generi, esperienze, persone. In televisione durante le selezioni per Sanremo mi hanno definito “fusion” e io ho apprezzato questa parola. La Sicilia, ad esempio, è una fusione di tantissime cose ed essere stato definito così credo sia stata una vera e propria benedizione. Il minuscolo mi piace perché mi infonde pacatezza, lo trovo modesto.

All’interno ci sono numerose collaborazioni. Come avete costruito “fusion.”?

Siamo partiti da una session sul Lago Maggiore che è la stessa in cui abbiamo scritto “Regina”. Abbiamo registrato tanta musica e, mentre lo facevamo, io e la mia band siamo rimasti folgorati dalla natura. E da lì è partito tutto, una settimana fantastica. Claudio Guarcello al piano, Emanuele Triglia al basso e Davide Savarese alla batteria, hanno condiviso con me quei giorni e, tornati a casa, abbiamo rimesso in ordine testi e musiche, tanto materiale che abbiamo messo da parte. Durante la quarantena ho ripreso tutti i progetti, ho terminato di scrivere i testi e ho contattato tutti gli artisti che volevo dentro al mio album.

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Fotinì Peluso

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Un po’ Barbara, un po’ Sofia

Il RadiocorriereTv incontra la giovane attrice romana, protagonista delle serie “La Compagnia del cigno” (Rai1) e “Nudes” (RaiPlay).  Impegnata sul set e negli studi di Economia, al nostro giornale confida: «La mia prima passione è stata il pianoforte poi è arrivata la recitazione, che ha rivoluzionato la mia vita»

Ph-Sara-Petraglia

Fotinì, la seconda stagione de “La Compagnia del cigno” va a concludersi, come è stato incontrare nuovamente Barbara?

Molto emozionante perché, proprio come me, era molto cambiata. Ha avuto una sua evoluzione pur portandosi dietro una serie di fragilità, di problemi irrisolti.

La “Compagnia” ha sedotto un pubblico che cerca bellezza in un anno di grandi silenzi, dove ha trovato bellezza ed energia in tutto questo tempo?

Nella quarantena dello scorso anno e nei mesi successivi ciò che mi ha aiutato di più, mi ha fatto sentire più libera, è stata l’arte: i film, la musica le mostre online. Tutto questo mi ha permesso di essere me stessa e di evadere.

La serie ha al centro i temi del maestro, della passione, del talento, quanto sono importanti per lei?

Ho avuto la fortuna di avere un percorso scolastico molto sereno, al tempo stesso ho incontrato tante piccole chicche di maestri che mi hanno accompagnato, soprattutto al liceo. Ho frequentato lo scientifico, il Virgilio di Roma, dove ho trovato insegnanti con i quali sono ancora in contatto, si preoccupano del mio percorso, di quello che sto facendo, vogliono sapere. Sono stati un po’ dei secondi padri. Per quanto riguarda la passione posso dire che non si vive senza, è il motore della vita, mi dispiace per chi non ne ha ancora trovata una. Credo che in fondo, anche quando non riusciamo bene a individuarla, tutti ne abbiamo una. La mia prima passione è stata il pianoforte, poi è arrivata la recitazione, che ha rivoluzionato la mia vita.

E il talento?

Speriamo di averlo, ma non sta a me giudicare (sorride). Certamente lo ammiro molto negli altri, mi piacciono le persone talentuose che mettono l’anima in ciò che fanno e vorrei tanto emularle.

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Paolo del Brocco

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Le grandi emozioni tornano in sala

Centotrentacinque film, di cui sessanta tra opere prime e seconde, nel solo biennio 2020-2021. Il RadiocorriereTv incontra l’amministratore delegato di Rai Cinema: «crediamo nel ruolo che il cinema può ricoprire – afferma – siamo pronti a ripartire con un nuovo slancio»

Assunta Servello

Nonostante la pandemia il cinema italiano non si è mai fermato del tutto. Obiettivo di Rai Cinema è dare nuovo impulso al settore, quali sono le strategie e i numeri?

Grazie alla sensibilità della Rai siamo riusciti a collocare parte degli investimenti non utilizzati nel 2020 – a causa dello slittamento di molte produzioni – all’interno dell’esercizio 2021, tutelando un ambizioso piano biennale di produzione 2020 – 2021. Aver garantito la prosecuzione delle produzioni, da cui partono tutte le economie della filiera, significa essere riusciti a mantenere acceso il motore della cinematografia italiana. In questo modo abbiamo cercato di dare una risposta concreta alle difficoltà del settore. Nel biennio 2020-2021 Rai Cinema sta investendo su 135 film – di cui 60 tra opere prime e seconde – e 40 film documentari, per un investimento complessivo di oltre 150 milioni di euro, collaborando con 120 diverse società di produzione e 180 registi.

Uno sforzo che va di pari passo all’incremento delle risorse messe a disposizione dal ministero della Cultura…

Il ministero ha dato un impulso fortissimo al comparto con il notevole incremento del fondo cinema e audiovisivo, che nel 2021 arriva a ben 640 milioni, con le varie misure che hanno consentito aumenti significativi del tax credit alla produzione e alla distribuzione, con i contributi ad hoc per tutto il sistema: dalle sale alle società di distribuzione, oltre ai 125 milioni per il fondo d’emergenza del cinema e audiovisivo. Senza questi interventi oggi parleremmo di un avvenuto blocco totale della produzione, di tante società chiuse e di migliaia di lavoratori a spasso da oltre un anno.

Come la pandemia e questi anni nuovi e diversi influiranno sulle pellicole che vedremo?

Ci sarà grande voglia di contenuti, di storie più profonde, che ci colpiscano sempre più a livello di sentimenti, e questo a prescindere dal genere cinematografico. Saranno forse meno le storie un po’ più asettiche, intimistiche, che hanno caratterizzato una certa parte del cinema d’autore. Gli autori si stanno spostando, c’è una tendenza in atto che va nella direzione di storie che possano incontrare maggiormente il pubblico. E poi c’è l’esigenza di un prodotto identitario, la voglia di vedere storie in cui riconoscersi, dove trovare i nostri luoghi, la nostra vita, le nostre caratteristiche, il nostro Paese. Se da un lato le piattaforme hanno sicuramente tenuto viva l’attenzione rispetto all’audiovisivo in generale, e anche al cinema, con storie più standardizzate adatte a un pubblico molto più vasto e per forza di cose con caratteristiche meno locali, il nostro cinema ha sempre avuto caratteristiche molto local, identitarie. Credo che ci sarà maggiore esigenza di questo tipo di prodotto.

Rai Cinema dà da sempre fiducia alle nuove leve, come e dove si scopre il talento?

Come diceva un grande regista il talento in Italia c’è sempre stato, ma serve l’architettura economica per far sì che quel talento emerga. Nella cinematografia si manifesta in varie forme, molto fanno le scuole di cinema. Chi deve scegliere, come noi, deve avere una certa esperienza per osservare le prime mosse, capire come questi talenti scrivono, che gusto hanno e che storie vogliono rappresentare. E poi bisogna vederli all’opera in cortometraggi, documentari. Scovare i nuovi talenti e farli crescere significa per noi fare ricerca e sviluppo. Non tutti coloro che vengono messi alla prova diventeranno grandi registi e avranno una luminosa carriera, accadrà per una parte di loro, perché dalla quantità nasce anche la qualità. Anche questa per noi è una pietra miliare, quasi la metà dei film che contribuiamo a realizzare sono opere prime o seconde, è così anche nel nuovo piano di produzione. Trovare talenti nuovi è parte della mission della Rai.

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Anna Dalton

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La mia vita da “scrattrice”

Nella serie di Rai “I Guardiani” è Elda, una vegana amante della natura e dal cuore d’oro, nella vita si destreggia tra le parole, quelle scritte nei suoi romanzi pubblicati da Garzanti e quelle pronunciate in Tv o al cinema. Il RadiocorriereTv incontra il giovane talento veneto

La sua Elda sempre più sorprendente…

Una scoperta continua. È la fidanzata ufficialissima del Commissario, vive la tranquillità familiare ed è molto brava con la piccola Mela, la figlia di Nappi, una donna affidabile, amante e rispettosa della natura, a volte anche eccessivamente. Ha dei nobili propositi, che anch’io difendo, e, dopo una partenza “granitica”, piano piano vengono fuori le sfumature del suo carattere. È veramente un personaggio positivo e allegro.

Quali sfumature del suo personaggio l’hanno conquistata alla prima lettura?

Mi ha subito colpito il “tono” del personaggio, che si destreggia con tante scene brillanti, che come attrice adoro fare. Leggendo già le prime scene mi sono divertita e, non so come mai (ride), non è la prima volta che mi cimento in un ruolo da vegana con la mania dell’ambiente. Forse ce l’avrò scritto in faccia.

O forse le è venuto troppo bene la prima volta…

Chissà! Sono vegetariana da vent’anni, avrò una tendenza naturale a essere credibile in questi ruoli.

Una serie ad alta quota, come ha vissuto la sua esperienza in montagna?

Meravigliosa, fin dal viaggio Roma – San Vito di Cadore. Non è stata proprio una passeggiata – treno, macchina, tante curve impegnative -, ma partire da una metropoli calda e, dopo qualche ora, trovarsi sempre più in alta quota immersi in paesaggi suggestivi, è un’esperienza unica. È vero, dalla serie si vede la bellezza dei luoghi, ma svegliarsi tutte le mattine con un panorama così, è stato davvero un privilegio.

Lei è un tipo più da montagna o anche il mare ha il suo fascino?

Sono veneta e, come si può vedere dalla mia carnagione, non sono per niente una tipa da spiaggia. Direi quindi montagna e freddo. 

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Mario Tozzi

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Fotografando i Sapiens

Dopo la puntata speciale d’esordio dedicata al nucleare, sabato 8 maggio torna il programma di divulgazione scientifica e ambientale di Rai3. Sei puntate in prima serata per parlare dell’uomo, della sua casa, del suo futuro.  «Il nostro appetito, la nostra sete di accumulo, ci portano a intersecare traiettorie che dovremmo lasciare in pace» afferma il conduttore-geologo

foto di Assunta Servello

Sono passati vent’anni dal suo esordio alla conduzione con Gaia, come è cambiato, nel tempo, il suo essere divulgatore?

Fondamentalmente non è cambiato tanto, faccio sempre una televisione molto d’assalto, sul terreno, dentro le cose, con cose che accadono in una maniera un po’ meno convenzionale. Programmi più sporchi dal punto di vista del linguaggio televisivo, cerco sempre di dare l’impressione della diretta, non sto tanto attento all’imperfezione linguistica o all’accavallamento della voce. Il prodotto invece è più curato perché sono cambiate un po’ le tecnologie, in “Sapiens” abbiamo una qualità di resa formale molto soddisfacente.

Quando ha capito di avere una passione così forte per la terra?

Subito, da bambino. A sei anni andavo nelle grotte insieme agli speleologi, ricordo che accendevano le lampade a carburo sull’acqua, cosa che mi faceva rimanere incantato. Mi piaceva scendere sottoterra, mi chiedevo da dove venissero le rocce, i sassi.

Come è cambiato, nel tempo, il suo approccio alla conoscenza?

Faccio il ricercatore e uso il metodo scientifico, anche se non racconto solo cose di geologia. Il metodo ci dice che le cose che approssimano meglio la realtà sono quelle della scienza, e quelle le trovi scritte negli articoli di scienza, non sui giornali o in televisione. Lì trovi certamente una traduzione, una comunicazione, ma se vuoi andare alla fonte devi optare per quella originaria. È il rigore che in genere cerco di applicare.

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Ario Nikolaus Sgroi

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Nel mio futuro la passione

«È stato un anno pieno di confusione, velocissimo, e allo stesso tempo sembra sia trascorsa un’eternità. Da quando abbiamo iniziato con la serie a oggi la mia vita è cambiata tantissimo. Se penso a tutto quello che è successo, rimango sbalordito» racconta Ario Nikolaus Sgroi, il giovane pianista milanese che nella serie di Ivan Cotroneo, la domenica su Rai1, interpreta Robbo

Ph Sara Petraglia

Nuove storie, nuove sfide per i ragazzi della Compagnia…

Siamo cresciuti e siamo a un passo dalla maturità, pronti alle nuove sfide della vita e al confronto con i nuovi personaggi che fanno di tutto per scombussolare le nostre esistenze.

Come sta Robbo?

È ormai grande fisicamente, anche se rimane lo stesso ragazzo che abbiamo apprezzato nella prima stagione. La sua storia familiare l’ha costretto a crescere in fretta, anche se per certi aspetti è rimasto ancora un bambino. Nella prima stagione era alle prese con l’adolescenza, sempre chiuso nel Conservatorio con gli stessi amici. La sua cerchia ristretta era un po’ la comfort zone che gli dava sicurezza. In questa seconda stagione, però, Robbo ha voglia di sperimentare, di mettersi in gioco, aprirsi a nuove conoscenze. È buffo il modo in cui si approccia alle novità.

Cosa l’ha conquistato del suo personaggio?

La prima volta che l’ho incontrato mi hanno attratto la sua fantasia, la sua capacità di evadere dal mondo reale, di astrarsi in cerca di un locus amenus per risolvere i suoi problemi. Anche se è diventato grande, conserva la sua creatività e ha voglia di affrontare le situazioni in maniera più diretta, perché non ha più paura della realtà.    

Qual è la sfida di una serie come “La Compagnia del Cigno”?

Credo che tutti noi ragazzi ci siamo fatti un discorso interiore, ci siamo detti che la prima volta ci siamo messi alla prova come attori, ma al primo posto c’era la musica. Siamo stati scelti non solo perché sapevamo recitare, ma perché sapevamo suonare uno strumento. In questa seconda stagione non bastava essere musicisti con capacità da attori, ci siamo dovuti impegnare di più nella recitazione, conoscevamo le dinamiche di un set e potevamo focalizzare meglio gli obiettivi nuovi da raggiungere. Secondo me abbiamo fatto un buon lavoro. 

Sette note che si ritrovano sullo stesso spartito, proprio come voi Cigni…

Ritrovarsi è stato emozionante. Abbiamo iniziato a girare a febbraio dell’anno scorso, quando la pandemia era ancora un discorso lontano. Ci siamo interrotti per qualche mese e finalmente a giugno abbiamo ripreso a lavorare, capendo ancora di più l’importanza di quello che stavamo facendo.

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Anna Agio

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Anna mi ha dato forza

“Nudes”, la serie antologica diretta da Laura Luchetti in esclusiva per RaiPlay, è la sua prima prova da attrice. Al RadiocorriereTv la giovane interprete, racconta: «Dare voce e vita alla metamorfosi del mio personaggio è stato un percorso interessante ed emozionante. Da lei ho imparato la voglia di non arrendermi alle difficoltà».

La sua prima volta da attrice in un progetto importante. Che esperienza ha vissuto?

È stata davvero una bella opportunità, sono felice di aver recitato in una serie che affronta un problema molto attuale da non sottovalutare, perché ha un impatto devastante su chi ne è vittima. In “Nudes” parliamo di revenge porn, prendendo in considerazione anche quello che accade a chi commette un gesto di questo tipo, senza giudizio, ma facendo luce sulle motivazioni che spingono un ragazzo così nel buio.

Ci racconta di Ada?

Dare voce e vita alla metamorfosi di Ada è stato un percorso interessante ed emozionante. Negli episodi che la riguardano assistiamo al suo cambiamento: da ragazza fragile, spaventata, alla sicurezza ritrovata che le dà forza per affrontare le difficoltà della vita. Quello che colpisce è il suo non essere stata educata a certe tematiche, come il revenge porn. Quando però si ritrova davanti a un buco nero, non si lascia abbattere, ma prende le redini e affronta la situazione.

Cosa le ha lasciato questo ruolo?    

Lo spirito di affrontare i problemi e la voglia di non soccombere.

Cosa insegna “Nudes”?

Il revenge porn può colpire davvero tutti, ragazzi e adulti. La serie mette bene in evidenza il peso delle nostre azioni, le conseguenze di quello che potrebbe accadere quando ci si comporta in maniera superficiale.

Quanto è stato importante avere come guida una regista donna?

Laura (Luchetti, la regista) non è solo una brava professionista, ma è anche mamma di una ragazza adolescente. Ci ha raccontato che, quando stava scrivendo la storia della serie, aveva sentito la necessità di confrontarsi con sua figlia e con le sue amiche, perché per lei era fondamentale ascoltare il punto di vista dei ragazzi. Le statistiche raccontano, inoltre, che la maggior parte delle vittime di revenge porn sono donne, il suo sguardo è stato dunque fondamentale, perché ha raccontato storie molto realistiche, senza filtri, che possono davvero capitare a ciascuna di noi.

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Greta Scarano

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In amore vince la verità

In “Chiamami ancora amore” veste i panni di Anna, una giovane donna alle prese con una difficile crisi di coppia. L’attrice romana, protagonista della serie diretta da Gianluca Maria Tavarelli, in onda dal 3 maggio in prima serata su Rai1, parla del suo personaggio al RadiocorriereTV: «Ha fatto delle scelte per le quali ha pagato. Quando i sentimenti sono molto forti capita che ti facciano fare cose un po’ estreme»

©-Fabrizio-de-Blasio

In “Chiamami ancora amore” veste i panni di Anna, una giovane donna alle prese con una difficile crisi di coppia. L’attrice romana, protagonista della serie diretta da Gianluca Maria Tavarelli, in onda dal 3 maggio in prima serata su Rai1, parla del suo personaggio al RadiocorriereTV: «Ha fatto delle scelte per le quali ha pagato. Quando i sentimenti sono molto forti capita che ti facciano fare cose un po’ estreme»

Come si può amare tanto per poi arrivare a distruggersi?

È una domanda difficile a cui dare risposta, quando i sentimenti sono molto forti capita che ti facciano fare cose un po’ estreme. Poi, quando ci sono di mezzo dei figli, le cose diventano ancora più complicate, gestirle con razionalità può essere difficile. Me lo chiedo anch’io come si possa arrivare a tanto, però l’ho visto accadere anche a persone molto vicine. Ci sono milioni di ragioni e nessuna.

Vista da fuori, che cosa prova per la sua Anna?

Molta empatia. Nei suoi confronti sono molto comprensiva, ha fatto delle scelte per le quali ha pagato. È stata messa un po’ alle strette dalla vita. Le voglio anche molto bene perché penso che sia una persona che è stata un po’ sfortunata: ha provato a reagire, cosa che comprendo perfettamente e che cerco di fare anch’io di fronte ai problemi. Mi sono un po’ rivista in lei.

Che cosa ha mosso la storia di Anna e di Enrico nella sua idea di relazione di coppia?

Tra loro capitano tantissime cose, si vogliono bene da subito, si sentono affini dal primo sguardo. Il racconto del loro innamoramento è anche molto romantico, emozionante. A farmi riflettere è stato però il meccanismo che scatta, per cui, quando si entra in crisi, si usa ciò che di più intimo e profondo si sa dell’altro come arma per colpirlo. E questo mi fa stare malissimo, mi fa ragionare sull’essere umano, su quello che possiamo diventare senza rendercene conto. Di fronte a questo mi trovo a pensare quanto sia importante dirsi le cose, ciò che non viene detto diventa troppo grande, ti soffoca e soffoca la coppia. Bisogna comunicarsi le verità, anche quelle difficili da dire, da ascoltare e accettare.

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Emanuele Misuraca

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Il mio sogno è la musica

Emanuele Misuraca è Domenico nella serie di Rai1 diretta da Ivan Cotroneo: «La recitazione mi affascina parecchio, ma resto sempre con i piedi per terra – afferma – so che adesso la mia professione è quella del musicista»

Ph Sara Petraglia

Domenico e i ragazzi della Compagnia sono cresciuti, di fronte a loro una carriera e le sfide della vita…

Da ragazzi ci ritroviamo giovani adulti, pronti a vivere le difficoltà che affronta un musicista che ha appena concluso la maturità. Ci sono le prime sfide, le audizioni che ci vedono in competizione gli uni con gli altri. Il pubblico ha ritrovato Domenico più maturo che nella prima stagione, impegnato a vivere la sua storia d’amore ancor più travagliata con Barbara.

Com’è stato ritrovarvi sul set in un momento così difficile?

Ritornare sul set dopo i mesi di quarantena è stato emozionante. Abbiamo girato un’estate intera con tutte le precauzioni del caso: un’orchestra che suonava, la troupe, non abbiamo mai avuto un positivo, un miracolo. È stato bellissimo ritornare a suonare, anche se non per un vero e proprio pubblico ma per le maestranze che lavoravano con noi.

Come ha vissuto questo anno senza pubblico?

Tutti i pianisti, i musicisti, trovandosi chiusi in casa hanno trascorso un periodo molto difficile. Io ho cercato di ampliare il mio repertorio, certo, è stato un po’ demoralizzante perché per un artista cerca un riscontro, un applauso. Esprimo emozioni anche per trasmetterle a un pubblico.

Quanto pesa la passione per la musica nella sua vita?

Noi musicisti siamo dei sognatori. Ti innamori di quest’arte meravigliosa, del tuo strumento, vivi in un sogno. È come trovarsi in un videoclip. In passato mi è capitato di suonare la rapsodia di Liszt in casa e pensare di suonarla al Carnagie Hall di New York (sorride). Quando superi una certa soglia e provi a diventare un concertista o un musicista di livello, superi anche la soglia umana delle ore di studio, dalle 6 alle 8 compresa la domenica. Se il sogno non è forte, non riesci. Ho avuto la fortuna di trovare il mio sogno da piccolino e da lì sono stato drogato di musica.

La compagnia ha portato i giovani a vedere i conservatori in modo diverso?

Li ha resi più umani. In molti vedono i conservatori come un covo di geni, di persone fuori dalle dinamiche del mondo. Non è così, sono persone normali, con storie d’amore, sentimenti, amicizie, ragazzi che vivono come un adolescente che frequenta lo scientifico. Hanno solo ambizioni e sogni completamente differenti.

Continua a leggere sul RadiocorriereTv N. 18 a pag.26.