Al cinema il film biografico di Gianluca Jodice con Sergio Castellitto e Francesco Patanè che narra gli ultimi anni di vita di Gabriele D’Annunzio
È il 1936. Giovanni Comini (Francesco Patanè) è stato appena promosso federale, il più giovane che l’Italia possa vantare. Ha voluto così il suo mentore, Achille Starace, segretario del Partito Fascista e numero due del regime. Comini viene subito convocato a Roma per una missione delicata: dovrà sorvegliare Gabriele d’Annunzio (Sergio Castellitto) e metterlo nella condizione di non nuocere… Già, perché il Vate, il poeta nazionale, negli ultimi tempi appare contrariato, e Mussolini teme possa danneggiare la sua imminente alleanza con la Germania di Hitler. È arrivato nelle sale “Il cattivo Poeta”, diretto da Gianluca Jodice, film sull’inverno della vita di un poeta, e di una nazione intera. La pellicola racconta l’ultimo anno di Gabriele d’Annunzio e lo fa da un punto di vista particolare, quasi come fosse una storia di spie, basato però rigorosamente su fatti storici accertati. Un biopic, un film storico ma anche un thriller…
Lunedì 24 maggio alle 21.25 Rai1 trasmette il film di Marco Bellocchio che racconta Tommaso Buscetta, primo grande pentito di mafia. Protagonista della pellicola, vincitrice di sette David di Donatello e di numerosi altri premi, Piefrancesco Favino
Un film di vendette e tradimenti. Marco Bellocchio racconta Tommaso Buscetta, l’uomo che per primo consegnò le chiavi per avvicinarsi alla Piovra, cambiando le sorti dei rapporti tra Stato e criminalità organizzata. Ne “Il Traditore” Pierfrancesco Favino interpreta il Boss dei due mondi, secondo una prospettiva inedita e mai studiata prima. Un racconto fatto di violenze e di drammi, che inizia con l’arresto in Brasile e l’estradizione di Buscetta in Italia, passando per l’amicizia con il giudice Falcone e gli irreali silenzi del Maxiprocesso alla mafia. Ed è proprio nel momento in cui la giustizia sembra aver segnato un punto, che Cosa Nostra ricorda a Buscetta e all’Italia che la sua sconfitta è ben lontana.
Carlo Conti e Mara Venier conducono la 63esima edizione del Festival della canzone dei più piccoli. Protagonisti i giovani interpreti dei 14 brani in gara e il Piccolo Coro dell’Antoniano di Bologna diretto da Sabrina Simoni. Domenica 30 maggio alle 17.20 su Rai1
Musica, divertimento e sorrisi. Finalmente ci siamo, domenica 30 maggio alle 17.20 Rai1 trasmette la 63esima edizione dello “Zecchino d’Oro”, che non ha potuto svolgersi come da tradizione in autunno a causa della pandemia. A presentare i 16 cantanti in erba, interpreti dei 14 brani in gara, Carlo Conti e Mara Venier. A dirigere il Piccolo Coro dell’Antoniano di Bologna, che accompagna tutte le esibizioni, la maestra Sabrina Simoni. Una grande festa televisiva con tanti ospiti, che vedrà la proclamazione, poco prima del Tg delle 20, della canzone vincitrice. I brani in concorso, scelti tra le 586 proposte arrivate all’Antoniano, trasmettono attraverso la musica importanti messaggi educativi e sociali. Tra le tematiche il valore dell’amicizia, l’inclusione, il rispetto per l’ambiente.
Con “Mamma, ti ricordi di me?”, edito da Rai Libri, l’amata conduttrice di Rai1 racconta il suo profondo legame con la madre Elsa. Una vita di emozioni condivise, poi l’arrivo della malattia, l’Alzheimer. «È terribile non essere “visti” da chi ci ha messo al mondo, chiunque lo abbia sperimentato sa cosa significa»
“Che soggetto la mia mamma, non
c’era volta in cui non dicesse ai quattro venti: «Mi so e a mama de Mara
Venier». Lo sbandierava a destra e a manca: al dentista, al medico, al
fruttivendolo. «Guarda che prima o poi ti becchi un bel chissenefrega, ci sarà
pure qualcuno a cui sto antipatica» le dicevo io per arginarla. Ma lei niente,
nel suo cuore c’era spazio solo per l’orgoglio di avermi messa al mondo, le
critiche nei miei confronti non le interessavano, le ignorava completamente,
come se non esistessero. E quel suo orgoglio mi rendeva felice, me ne rendo
davvero conto solo adesso”.
Mara Venier come raramente l’abbiamo conosciuta, quella che in
“Mamma, ti ricordi di me?” apre il suo cuore e il suo privato ai fans, a quel
pubblico che negli anni ne ha apprezzato le qualità umane e professionali
seguendola con un affetto sempre crescente. Mara donna di spettacolo,
protagonista di molti programmi televisivi di successo, Mara regina (e zia)
della domenica pomeriggio, Mara empatica intervistatrice capace di narrare e ascoltare
con tatto e rispetto. Il volume edito da Rai Libri racconta un altro volto
ancora della popolare conduttrice, quello di Mara figlia, alle prese con la
drammatica malattia della mamma, la signora Elsa, colpita dall’Alzheimer e scomparsa
nel 2015. Mara racconta di diagnosi, di ospedali, di badanti, di cosa significhi
assistere un genitore che non è più autosufficiente eppure non se ne rende
conto, e ripercorre nello stesso tempo i ricordi di una vita, da quando,
bambina, passava interi pomeriggi al cinema con la mamma al giorno in cui per
la prima volta lei non l’ha riconosciuta e l’ha salutata con un raggelante
“Buongiorno, signora”.
“Il cuore mi sprofondò nel petto. Non l’aveva mai fatto, non era mai successo che non mi riconoscesse. È terribile non essere ‘visti’ da chi ci ha messo al mondo, chiunque lo abbia sperimentato sa cosa significa. Ti senti quasi negato, privato di te stesso, come se ti avessero strappato via l’anima”.
Giunto alla 33esima edizione “Chi l’ha visto?” si conferma ancora una volta colonna portante del palinsesto di Rai3 e uno degli appuntamenti più amati e seguiti del Servizio Pubblico. La popolare conduttrice al RadiocorriereTv: «Coinvolgiamo tutta la famiglia, non è un programma che guardi e finisce là, ma ti rende partecipe»
Quasi
il 13 per cento di share contro la finale di Coppa Italia. L’ennesimo mercoledì
d’oro per “Chi l’ha visto?”, come ti senti di leggere i risultati di
quest’ultima stagione?
È stato un anno molto importante
per noi, rimaniamo solidi il mercoledì sera nonostante le fiction, le partite, il
commissario Montalbano. La stagione è iniziata benissimo ed è continuata ancora
meglio. La vicenda di Denise Pipitone ci ha messo in grande sintonia con il pubblico.
La storia della ragazza russa, che in realtà era una storia nella storia, ha
fatto sì che scattasse una carezza collettiva nei confronti di Piera Maggio.
Non ci capitava da tempo di avere tanti telespettatori pronti a darci
suggerimenti, ad aiutarci.
Un
pubblico ancora più partecipe…
Noi
lo diciamo sempre che “Chi l’ha visto?” lo facciamo con il pubblico. Recentemente
abbiamo ospitato l’appello di Cristina, una ragazza cinese che parlava con
accento milanese, alla quale era scomparso il padre, fuggito di casa a torso
nudo. Un ragazzo di Milano lo ha visto e così lo abbiamo riportato in famiglia.
Sono i telespettatori che fanno riportare le persone a casa. Già nel corso
della diretta ci capita di trovare tanti scomparsi proprio perché l’ascolto è aumentato.
Le
storie che raccontate fotografano la realtà. Come hai visto cambiare la nostra
società nel corso degli anni di conduzione?
Il
cambiamento più evidente è avvenuto sul fronte dei femminicidi. Quando iniziai con
la conduzione non ne avvenivano così tanti, certo, c’erano casi di donne
scomparse, che, ovviamente, erano state fatte scomparire. Oggi, nonostante ci
sia una certezza della pena, perché mariti, ex mariti, fidanzati, compagni,
vengono quasi sempre beccati, sembra che questi uomini non abbiano paura del
carcere tanto è più forte la voglia di danneggiare una donna. Penso all’ex
marito dell’infermiera calabrese Maria Antonietta Rositani, che diede fuoco alla
moglie mentre era agli arresti domiciliari e che ora resterà in carcere per
tutta la vita. È più forte l’odio, e questo per me è incomprensibile.
Un viaggio tra misteri e leggende lungo lo Stivale in compagnia del cantautore lombardo. “Il Mythonauta”, il giovedì in seconda serata su Rai2
Perché
un programma sui miti?
Perché
ho da sempre una grande passione per usi, costumi, tradizioni, luoghi e
territori, che cito anche nelle mie canzoni. E poi perché veniamo da un periodo
in cui la gente ha premuto il testo pausa, penso che ora abbia voglia di tornare
a viaggiare, visitando luoghi anche relativamente vicini. Andando lì potrebbe
lasciarsi un po’ trasportare dal mito, come quando si era più piccoli, o come è
stato nel corso dei secoli.
Un
racconto appassionato, che va oltre la divulgazione…
l
nostro non è un programma scientifico, diamo al viaggiatore la possibilità di
incontrare leggende millenarie che possono rendere il viaggio ancora più
interessante e sognante. Non sta a noi dire, “si diceva che c’era il mostro”.
No, qui c’era il mostro, perché nella storia, nella testa, nel mito, c’era. Se
parlo di Zeus o di Venere è chiaro che parlo di miti, ma sono diventati così
importanti per la letteratura, per l’arte, per la pittura, per il vivere delle
persone, che ormai esistono e vanno tenuti in considerazione in quanto miti. Si
intrecciano con la storia, con le credenze di tante altre persone. Non posso
entrare in un tempio induista deridendo un Dio con sei braccia o più, ma devo
essere consapevole di trovarmi di fronte a un simbolo di una credenza antica.
Se ha quella forma o una certa immagine, sarà sicuramente per motivi archetipici
e primordiali che lo hanno portato a essere così raffigurato.
Qual
è l’importanza dei miti nell’umanità oggi?
Il mito tende a ricordarti chi eri e chi sei stato nel tempo, quali erano i tuoi compiti. Ci sono miti nati probabilmente per tenere lontane le persone da luoghi molto pericolosi, magari in una civiltà contadina. Così creare una storia che parla di mostri, fantasmi, punizioni divine, in prossimità di un precipizio poteva scoraggiare le persone ad andare in quel luogo. È ovvio che se una montagna ha la forma di un volto che guarda verso il cielo, è facile pensare che lì ci sia un Dio e che ci sia stata una battaglia tra creature mitologiche. Ci sono poi i miti che hanno a che fare con la vita di un uomo. Ti sei comportato bene con questo santo? Allora hai avuto una tua ricompensa. Sei stato disonesto? Ecco la punizione. Il mito è anche fatto di presenze, di persone, di spiriti che appartengono alla natura. Dovunque tu vada nel mondo, hai sempre a che fare con spiriti legati alla natura: un ritorno alle origini, al primordiale, a ciò che sei stato e dovrai tornare a essere. Il mito ci dà sempre una mano per tornare a casa.
Il giovane attore, lanciato sul grande schermo dal film “Lazzaro felice” di Alice Rohrwacher, è tra i protagonisti più apprezzati della serie di Rai1 “Un passo dal cielo – I guardiani”. Il RadiocorriereTv lo ha incontrato: «Ho sempre percepito una grande connessione con la natura. Andare a girare lì è stato bello, un po’ tornare alle origini ma in Italia»
foto di Erika Kuenka
Partiamo
da “Un passo dal cielo”, come ha vissuto l’esordio in una serie tanto popolare?
È
stato particolare. Sono nato artisticamente come cantante, ho cominciato a 14
anni caricando i video su YouTube. Poi ho avuto la fortuna di essere preso da
Alice Rohrwacher per il film “Lazzaro felice” e ho avuto la possibilità di
iniziare il percorso cinematografico. Non pensavo nemmeno di continuare, non
sapevo come funzionasse la recitazione, nel tempo mi sono accorto che in realtà
è una cosa introspettiva. Subito dopo il lockdown mi è capitato il casting di
“Un passo dal cielo” dove ho incontrato il regista Jan Maria Michelini. Pensi che quando arrivai al provino non volevano
farmi entrare perché il termometro per la febbre misurava sempre temperature
diverse, a volte 35, altre 38. Fortunatamente si si sono accorti che quel
termometro non funzionava e mi hanno ammesso al casting. Di fronte al regista
ho cantato una canzone con la chitarra. A Jan è piaciuta ed ha avuto inizio la
bella esperienza delle riprese in luoghi meravigliosi.
“Un passo dal cielo” non è una
serie come le altre, tra i protagonisti c’è la montagna, ci sono le Dolomiti,
che rapporto ha instaurato con quel mondo?
Sono un ragazzo di montagna, anche
se non sembrerebbe. Vengo dalla Georgia, dal Caucaso. Sin da piccolo, quando
avevo cinque, sei anni, andavo per ore nel bosco, nessuno sapeva dov’ero,
parlavo con gli animali, conoscevo quei luoghi a memoria. Ho sempre percepito
una grande connessione con la natura. Andare a girare lì è stato bello, un po’ tornare
alle origini ma in Italia.
Quello che l’ha portata alla
fiction è un percorso nato altrove, nel mondo di YouTube, qual è il territorio
in cui ha deciso di affondare le radici?
Una domanda difficile, sono
contrario a volermi definire. Penso che un limite della società moderna sia
quello di cercare di attribuire sempre un luogo preciso, piccolino, a tutte le
persone, categorizzando tutti quanti. Sono sempre stato un ribelle da questo
punto di vista, affascinato dai filosofi, che studiavano tante cose, perché
l’importante della vita è l’esperienza che si acquisisce. Musica e cinema sono mondi
diversi che servono ad arricchire tanto l’esperienza della vita. La musica è
l’unica arte non raffigurativa che connette alla realtà spirituale. La
recitazione mi consente invece di vivere le esperienze di alcuni personaggi e
di ampliare così la mia personalità.
Quanta musica c’è nella sua vita?
La musica è sempre stata molto
importante. Anche da piccolo viaggiavo nella fantasia, lo facevo anche
attraverso la musica, tanto che i miei insegnanti pensavano che avessi dei
disturbi di attenzione. Nel tempo ho scoperto che è una grande cosa che
dovremmo sviluppare tutti quanti. Viaggiavo con la musica e immaginavo cose che
avrei fatto in futuro. Ho imparato a suonare gli strumenti ascoltando.
Immaginavo nella mia mente quello che faceva il bluesman al pianoforte e poi lo
riproducevo. Bisogna sviluppare la fantasia, la potenzialità di visualizzazione
che si ha nella mente. La fantasia è uno strumento di conoscenza della realtà,
molti non credono in questo, ma l’ho provata su di me e per questo lo racconto.
Il 23 maggio 2021 si commemora il 29° anniversario delle stragi di Capaci e di via D’Amelio in cui persero la vita Giovanni Falcone, Paolo Borsellino e gli agenti delle loro scorte. Il RadiocorriereTv ha incontrato Maria Falcone, sorella del magistrato ucciso in un attentato dinamitardo lungo l’autostrada che conduce dall’aeroporto palermitano di Punta Raisi al capoluogo siciliano
Suo
fratello diceva che la mafia è anche una questione culturale, lei da molti anni
parla con gli studenti portando alta la bandiera della legalità. Quanto è
forte, nelle nuove generazioni, la voglia di riscatto?
Incontrando
i ragazzi, prima nelle scuole e in questo ultimo anno e mezzo via Skype, noto
soprattutto grande attenzione, sono molto preparati da insegnanti che parlano
loro di lotta alla mafia. Trovo entusiasmo di conoscere Giovanni per quello che
rappresenta, come magistrato e come uomo.
Che
cosa le chiedono i giovani, da cosa sono incuriositi?
Vogliono
capire come nacque la scelta di Giovanni di fare il magistrato, e poi sono
curiosi di sapere come era da bambino, quali erano i suoi sogni, i suoi desideri
per quando sarebbe stato grande. Bambini e ragazzi sono sempre interessati di
capire come, anche da piccoli, si scelga quella che sarà la propria vita
futura.
Cosa
bisogna fare affinché la legalità sia considerata da tutti un valore
inalienabile?
Per
noi che siamo una democrazia che ha alla base una delle Costituzioni più belle
e complete d’Europa la legalità dovrebbe essere sempre messa al primo posto. È
un caposaldo che garantisce la vita sociale di ogni giorno. Solo attraverso
delle norme si possono determinare i rapporti sociali.
La
pandemia ha lasciato macerie, la ricostruzione economica e sociale è cominciata.
Come si può rendere virtuoso questo percorso molto delicato anche per le
possibili infiltrazioni della criminalità?
Le rispondo con le parole che avrebbe usato mio fratello con miei figli che gli ponevano spesso questa domanda: facendo solo e semplicemente il proprio dovere. Dovremo ricostruire il Paese sia da un punto di vista economico che sociale, ma penso che sarà più facile ricostruire l’economia, se tutto andrà come deve andare, se ognuno farà il proprio dovere. La grande quantità di moneta che arriverà al nostro Paese, un debito buono che resta scritto per i nostri eredi, ci farà crescere, porterà all’aumento dell’industria, delle attività commerciali, del lavoro. Può essere un volano. Difficile sarà invece recuperare il tempo da un punto di vista sociale. Non possiamo immaginare quanto sarà grande per i nostri giovani la perdita dei momenti di comunicazione, dell’essere ragazzi tutti insieme, cosa che noi non potremo ridare loro.
Tre serate di grande spettacolo per una platea globale. Trentanove le nazioni partecipanti, altrettanti gli artisti in gara, il 18 maggio (e anche il 20 e il 22) va in scena l’Eurovision Song Contest, il programma non sportivo più seguito al mondo. A rappresentare l’Italia i Måneskin, vincitori dell’ultimo Festival di Sanremo
Le telecamere dell’EBU stanno per riaccendersi, questa volta all’interno della Ahoy Arena di Rotterdam, dove Chantal Janzen, Jan Smit, Edsilia Rombley e Nikkie de Jager condurranno la 65esima edizione dell’Eurovision Song Contest, il programma televisivo non sportivo più seguito al mondo. Alla sfida parteciperanno 39 nazioni rappresentate da altrettanti artisti, 26 quelle che accederanno all’ultima fase della gara. Per l’Italia saliranno sul palco i Måneskin con il brano “Zitti e buoni”, portato al trionfo sul palco del Teatro Ariston in occasione dell’ultimo Festival di Sanremo. L’Italia, insieme ai Paesi Bassi, paese organizzatore, e a Francia, Germania, Regno Unito e Spagna, è qualificata di diritto alla finale.
Il teatro riparte. Tra le prime protagoniste a calcare nuovamente la scena c’è l’attrice romana, in cartellone al Manzoni di Roma fino al 23 maggio con “Oggi è già domani” di Willy Russell per la regia di Pietro Garinei. «Il palcoscenico è un posto sicuro in cui sognare e vivere altre storie – afferma – Vivendo le storie degli altri si vive meglio la propria»
foto di Gianmarco Chieregato
Cosa
significa tornare sul palcoscenico dopo un anno tanto difficile?
Il
tempo si è dilatato, confuso, mi sembra trascorso più di un anno. La gioia è grande,
come grande è il senso di responsabilità. Credo di essere tra le primissime a
farlo, avverto un peso che è una gioia, la dolce responsabilità di non deludere
il pubblico e di non fargli perdere la voglia di andare a teatro, perché il
teatro è un posto sicuro in cui sognare e vivere altre storie. Vivendo le
storie degli altri si vive meglio la propria.
Con
“Oggi è già domani” in che mondo ci porta?
“Oggi
è già domani” è una commedia davvero giusta per questo particolare periodo. Parla
di una donna, Dora Valenti, che vive a Codigoro, un piccolo paese del
ferrarese. Dora era piena di speranze, di sogni, di gioia di vivere, ma in
famiglia hanno fatto di tutto per farglieli spegnere. Il marito vive con lei,
ma non le dimostra più amore, gentilezza, i figli sono distratti e villani. In
scena sono da sola, ma sembra che parli con tanti personaggi. Dora si sfoga con
il muro della cucina, è proprio il muro a trattenerla dal mandare a quel paese
il marito. Riesce a essere paziente fino a un certo punto, quando decide di
fare un viaggio in Grecia. Il resto è tutta una sorpresa. Quando me lo propose
la prima volta Pietro Garinei lo lessi tutto d’un fiato, come fosse un giallo. Il
messaggio è chiaro, bisogna volersi bene, essere più gentili, parlare. Il testo
ha in sé tanta voglia di rinascita, di vita, un desiderio che nessuno deve
spegnere.
Come
viene raccontata la donna nel teatro di oggi?
A
volte viene ridicolizzata. Se ne parla tanto, ma in realtà il suo ruolo è
sempre in lotta, non è che sia cambiato molto. L’uomo ha sempre la meglio,
anche in teatro. Anche le parti più belle sono sempre maschili, per questo quando
trovi il personaggio femminile che ti dice qualcosa è una grande gioia.
Come
vive la dimensione del cambiamento, della rinascita, che valore assumono questi
due concetti nella sua vita?
Per me ogni giorno è una rinascita. Nonostante i miei anni sono una donna che guarda molto avanti, e forse è questo a rendermi così vitale e giovane. Faccio fatica a guardare indietro, mi spaventa. Ho fatto talmente tante cose che mi sembra di avere duemila anni (sorride). Mi piace guardare avanti e pensare ai progetti. I progetti e la libertà sono la cosa più importante della vita.
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