Daniele Luchetti

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Lila, Lenù, gli anni Settanta

Il regista della terza stagione della serie di Rai1 tratta dall’opera di Elena Ferrante al RadiocorriereTv: «È stato come salire su un treno in corsa cercando di non deragliare. Ho tentato di dare profondità alla storia, ai personaggi lo spessore che meritavano, e mi sono trovato a fare una cosa che alla fine ho riconosciuto come mia»

“L’Amica geniale”, fenomeno mondiale in letteratura e in Tv. Come è stato il suo incontro con la storia di Lila e Lenù?

Sono stato un fan de “L’Amica geniale” dal primo minuto, dalla prima lettura avvenuta circa sette anni fa. Pensai da subito che potesse esser una grande serialità e per questo mi proposi, andai in casa editrice prima ancora che i diritti fossero venduti. La storia ha preso un’altra strada, ma quando mi hanno proposto di fare la terza stagione sono stato contento, essendo un fan delle prime due, viste con passione e anche con disappunto pensando che avrei potuto farle io (sorride). In realtà mi sono trovato dentro una macchina complessa, dal punto di vista narrativo molto solida, a partire dagli sceneggiatori, da Elena Ferrante, da un cast già scelto: è stato come salire su un treno in corsa cercando di non deragliare. Ho cercato di dare profondità alla storia, ai personaggi lo spessore che meritavano, e mi sono trovato a fare una cosa che alla fine ho riconosciuto come mia. Nonostante tutti questi mattoni messi prima di me, mi sembrava di dovere costruire un altro piano di un palazzo meraviglioso.

Che scambio ha avuto con Elena Ferrante?

Con la Ferrante c’è stato un rapporto ottimo. All’inizio, da parte mia, anche un po’ titubante, ampolloso come modo di scriverle, poi sempre più diretto. Ci siamo scritti molto spesso, in maniera franca, da sceneggiatrice a regista, da autrice a regista. Non avevo più paura delle sue e-mail, è una persona che ha un grande istinto nel trovare soluzioni a un problema narrativo come a uno cinematografico. Nella maggior parte dei casi i suoi erano suggerimenti di chi conosce i personaggi dall’interno.

Come ha affrontato questo viaggio?

Per me è stata un’esperienza enorme, che potrei paragonare a quella di chi fa uno spettacolo a teatro, un’opera lirica. Tutto ciò che c’è prima di te è solido, lo sono il genere, la scrittura. Però tutto quello che viene dopo lo fai tu, ed è tantissimo: dalla scelta degli ambienti alle indicazioni che dai agli attori, alla scelta dei colori, della fotografia, dei movimenti di macchina, all’utilizzo della musica, al montaggio. Il problema non è quello di dare poca personalità, ma di darne troppa, per non modificare l’immagine che ha la serie. Mi sono preso alcune libertà, ma con grande cautela. Uno degli elementi che ho cercato di trasformare secondo il mio gusto è stato dare maggiore realismo alla serie. Giustamente gli anni Cinquanta e Sessanta li si raccontava come lontani, un’altra epoca. Qui ci avviciniamo agli anni Settanta, che per me sono ieri. Li ho raccontati attraverso il filtro della mia memoria, abbastanza recente di me adolescente, e quindi ho voluto infilare colori, dinamiche, energia, così come li ricordo nella mia famiglia, che non è più una memoria mediata da vecchi film e telegiornali, ma diretta, e questo cambia molto.

Continua a leggere sul RadiocorriereTv N.05 a pag.26

Alberto Malanchino

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Ho imparato a fare i conti con le emozioni

foto di Erika Kuenka
Il RadiocorriereTv ha incontrato l’attore milanese che interpreta il dottor Kidane in “DOC. Nelle tue mani”: «È il porta bandiera delle serie italiane: c’è una storia molto forte, ben scritta, parla dell’Italia e ha successo all’estero!». Del suo personaggio dice: «Si entra sempre più a fondo della sua intimità, Gabriel dovrà fare i conti con le sue fragilità». L’appuntamento è il giovedì su Rai1.
Due anni fa arrivava “DOC” ed è stato subito colpo di fulmine…
Siamo davvero molto felici per come sono andate le cose, dell’impatto avuto sul pubblico di una serie che si basa sull’empatia e sulle seconde possibilità. Ci siamo chiesti all’inizio se fosse la scelta giusta presentare “DOC” proprio nel bel mezzo di una pandemia, era davvero un momento estremamente delicato in Italia e nel mondo. Dopotutto si trattava di un medical drama… Poi però ci siamo resi conto che non era un progetto che parlava solo di medici, piuttosto dei legami profondi che connettono le persone, a prescindere dalla medicina. C’è stata una alchimia giusta tra un’ottima sceneggiatura, una sapiente regia (la prima stagione affidata a Jan Maria Michelini e Ciro Visco, la seconda a Beniamino Catena e Giacomo Martelli), e un cast di giovanissimi attori tirato su molto bene.
 
E un set che ha funzionato alla grande, con Luca Argentero come fratello maggiore…
È stato un gruppo caratterizzato da un forte spirito di collaborazione, grazie anche a Luca e ai registi. Quando si lavora bene, il resto viene più facile. Luca non è stato solo un fratellone, ma un capitano di questa squadra capace di sostenerci, soprattutto nei periodi più difficili. Come potete immaginare, abbiamo lavorato in condizioni precarie, sotto stress per le moltissime restrizioni e scadenze, ma lui ha mantenuto sempre una grande lucidità, alleggerendo la pressione.
 
La pandemia è entrata anche nel vostro racconto…
È vero, inevitabilmente si parla anche di covid, lo abbiamo visto nella prima puntata, ma è importante dire che la pandemia non è la protagonista della nostra storia. Sul set il virus è stato una sorta di anti-compagno, l’antagonista, lo spettro che ti viene a trovare, poi però ci siamo abbandonati alle emozioni. Nella sfortuna del momento storico, la nostra professione consente a noi interpreti quella piccola magia di attingere al nostro quotidiano per metterlo a servizio del personaggio e della scena.
 
Dal suo primo incontro con Gabriel a oggi, com’è cresciuto il personaggio?
Si entra sempre più a fondo della sua intimità, se nella prima stagione lo spettatore percepiva il suo trascorso di ragazzino arrivato in Italia dopo aver subito violenze e maltrattamenti, dopo aver visto morire tutta la sua famiglia e gli amici, in “DOC2” abbiamo giocato molto di più sulle fragilità di Gabriel, anche lui, come medico, messo a dura prova dalla pandemia.

Continua a leggere sul RadiocorriereTv N.04 a pag.14

 

L’amica geniale

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Storia di chi fugge e chi resta

Dopo lo straordinario successo internazionale delle prime due stagioni, torna dal 6 febbraio in prima serata su Rai1 la fiction tratta dai best seller di Elena Ferrante. Con Margherita Mazzucco e Gaia Girace, nei ruoli delle protagoniste Elena e Lila, a firmare la regia delle quattro puntate è Daniele Lucchetti

© Eduardo Castaldo

Anteprima(si apre in una nuova scheda)

Elena (Margherita Mazzucco) e Lila (Gaia Girace) sono diventate donne. Lo sono diventate molto presto: Lila si è sposata a sedici anni, ha un figlio piccolo, ha lasciato il marito e l’agiatezza, lavora come operaia in condizioni durissime; Elena è andata via dal rione, ha studiato alla Normale di Pisa e ha pubblicato un romanzo di successo che le ha aperto le porte di un mondo benestante e colto. Ambedue hanno provato a forzare le barriere che le volevano chiuse in un destino di miseria, ignoranza e sottomissione. Ora navigano, con i ritmi travolgenti a cui Elena Ferrante ci ha abituati, nel grande mare aperto degli anni Settanta, uno scenario di speranze e incertezze, di tensioni e sfide fino ad allora impensabili, sempre unite da un legame fortissimo e ambivalente, a volte evidente nella dolorosa e inevitabile alternanza di esplosioni violente o di incontri che riservano loro prospettive inattese. Ritorna su Rai1 “L’amica geniale” con la terza stagione intitolata “Storia di chi fugge e di chi resta”, quattro serate, otto episodi, in cui ritroviamo le emozioni intense e vere che hanno contraddistinto i primi due incontri del grande pubblico televisivo con la vicenda narrata da Ferrante. Dietro la macchina da presa della produzione, firmata HBO e Rai Fiction, Daniele Lucchetti, che raccoglie il testimone da Saverio Costanzo e Alice Rohrwacher.

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La sveglia di Radio”

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A svegliarvi ci pensiamo noi

Dalle 4 alle 6, terra di mezzo tra notte e giorno, dal lunedì al venerdì, Noemi Serracini e Fabrizio D’Alessio aprono la programmazione del canale radiofonico. Un viaggio di parole, musica e ironia

Siete al lavoro quando è ancora notte fonda, chi prepara il termos del caffè?

NOEMI: Il tè o il caffè li porto io, e ho il vago presentimento che continuerà a essere così (sorride). Anche se Fabrizio potrebbe stupirmi…

FABRIZIO: Confermo, me lo auguro con tutto il cuore, non sono una delle persone più organizzate al mondo (sorrise).

Cosa avete pensato l’uno dell’altra al primo incontro…

FABRIZIO: Noemi mi ha trasmesso grande serenità, è una persona tranquilla e molto preparata, sa quello che dice. Una grande virtù. Ci siamo trovati abbastanza velocemente.

NOEMI: Lo avevo incontrato tramite conoscenze comuni e mi era sembrato molto simpatico. Ne ho avuto la prova quando abbiamo sperimentato il duo sul campo, registrando la puntata zero e mi sono divertita molto, c’è stata da subito una sintonia spontanea.

Chi è il più “serio” della coppia?

FABRIZIO: Non sono io. Il non prendermi troppo sul serio è il litemotiv della mia vita. Se hai la fortuna di fare questo lavoro l’autoironia e il cercare di vedere le cose con il giusto peso, aiutano.

NOEMI: Almeno di facciata temo di essere io, pur essendo anche molto ironica Abbiamo entrambi più colori da giocarci.

Dalle 4 alle 6 in diretta, che risveglio date al pubblico di Rai Radio2?

NOEMI: Soft nella prima parte, quando per qualcuno la giornata deve ancora finire, e più energico nella seconda, quando la notte si dilegua. Vogliamo prendere il primo caffè con gli ascoltatori, dando loro un piccolo assaggio delle notizie che vengono poi approfondite da “Caterpillar AM”. Diamo anche la sveglia personalizzata agli ascoltatori che lo desiderano, basta prenotare tramite messaggio… a svegliarli ci pensiamo noi (sorride). Il nostro è anche un viaggio che attraversa i fusi orari…

FABRIZIO: …abbiamo un nostro meridiano, diamo la sveglia anche agli ascoltatori, con il cuore italiano, che si collegano da ogni angolo del mondo. Mettiamo a nanna le persone che appartengono alla notte e svegliamo i più mattinieri. Ironia e leggerezza sono le parole che ci rappresentano.

Continua a leggere sul RadiocorriereTv N.04 a pag.46

Matteo Romano

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Voglio dare il meglio di me

Matteo Romano è l’artista più giovane in gara al Festival di Sanremo 2022, dove porterà la canzone “Virale”. “Sono davvero super contento – dice al RadiocorriereTv – di partecipare ad una edizione con nomi così importanti”.

Matteo, la sua storia è una favola tutta contemporanea: appassionato di musica, pubblica alcuni brani sui social e viene notato. Ma si aspettava di arrivare a Sanremo?

Se me lo avessero detto un anno fa non ci avrei creduto. Direi quindi di no. Ovviamente il mio sogno fin da piccolo è stato Sanremo e sono davvero super contento di partecipare ad una edizione con nomi così importanti. Sono davvero sorpreso e felice.

Come nasce la sua passione per la musica? Ci racconta il suo percorso?

In realtà la mia passione per la musica c’è da sempre. Non ho mai voluto fare altro che cantare. Tre anni fa ho iniziato anche a studiare il pianoforte ed è venuto naturale iniziare a scrivere i miei brani. Tutto è stato abbastanza veloce. Un anno fa, pubblicando il mio primo singolo, ho ottenuto il primo contratto discografico. Da lì è iniziata la corsa a Sanremo.

Quali sono stati gli artisti che la hanno ispirata in passato?

Direi assolutamente grandi nomi come Gino Paoli, Fabrizio De André, Lucio Dalla e, in generale, i cantautori della musica italiana.

Colossi come Paoli, De Andrè, Dalla… artisti più giovani invece?

Una delle mie artiste preferite è Levante ma mi piace anche Madame, molto vicina al mio mondo e che trovo di ispirazione.

“Concedimi” è una intensa ballata composta durante il primo lockdown e parla di un amore immaginario. A cosa e a chi si è ispirato?

Alla mia esperienza personale. La mia musica parla sempre di me ed è come se fosse il mio diario personale. Le pagine bianche su cui scrivo, si riempiono di ciò che sento. La musica mi aiuta ad analizzare quello che sento e a prenderne coscienza.

A “Concedimi” segue “Casa di Specchi” e poi il brano che l’ha portata a vincere la selezione per Sanremo 2022, “Testa e Croce”. Che cosa hanno in comune le sue canzoni?

Il finale è sempre lo stesso. Sono brani intimi e personali e raccontano sempre nuovi lati di me. Questi tre pezzi raccontano varie sfaccettature della mia persona.

Continua a leggere sul RadiocorriereTv N.04 a pag.60

Ero in guerra ma non lo sapevo

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Al cinema

Sul grande schermo il film sull’omicidio del gioielliere Pierluigi Torregiani avvenuta nel 1979 a Milano. Protagonista del film, prodotto da Luca Barbareschi e diretto da Fabio Resinaro, è Francesco Montanari. Nelle sale il 24, il 25 e il 26 gennaio

Milano, fine anni ‘70. Pierluigi Torregiani, un gioielliere che si è fatto da sé, subisce un tentativo di rapina in cui muore un giovane bandito. Non è stato lui a sparare, ma molti giornali lo accusano di essere un giustiziere borghese. La tensione politica dell’epoca lo rende un obiettivo perfetto per i PAC, gruppo di terroristi guidato da Cesare Battisti, che individuano in lui un colpevole da punire. Torregiani e la sua famiglia ricevono minacce di morte: il pericolo è così concreto che gli viene assegnata una scorta. Ma le intimidazioni non si fermano: sempre più invasive, lo condizionano nel lavoro e soprattutto nei rapporti con i famigliari, che si consumano fino a sfiorare la rottura. Torregiani venne assassinato a Milano il 16 febbraio del 1979. L’omicidio, inizialmente attribuito alla malavita milanese, fu poi rivendicato dai Proletari Armati per il Comunismo (PAC) che professavano solidarietà alla criminalità che si riappropriava dei beni e giustiziavano chi rispondeva alle rapine con le armi. “Ero in guerra ma non lo sapevo”, diretto da Fabio Resinaro e interpretato da Francesco Montanari, racconta un uomo che, sotto attacco suo malgrado, vive una profonda crisi famigliare che si “ricompone” solo dopo la sua morte, avvenuta per mano di sedicenti rivoluzionari.

Continua a leggere sul RadiocorriereTv N.04 a pag.50

Giorno della Memoria

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Sette film per non dimenticare

Rai Movie dedica una programmazione speciale per ricordare uno dei momenti più tragici della storia dell’umanità: la Shoah. Sette film e il magazine “MovieMag” per raccontare la persecuzione degli ebrei e per scongiurare nelle memorie i tentativi di rimozione dell’olocausto

La programmazione del canale 24 del digitale terrestre inizia domenica 23 gennaio alle 21.20 con il film “Un sacchetto di biglie”. Nuovo adattamento dell’omonimo best seller autobiografico di Joseph Joffo, che all’età di dieci anni, per sfuggire alla persecuzione degli Ebrei, attraversa rocambolescamente la Francia nazista accompagnato solo dal suo fratellino. Martedì 25 alle 23.20 “Bye bye Germany”. A Francoforte, nell’immediato dopoguerra, alcuni ebrei sopravvissuti ai lager tentano di racimolare il denaro per andarsene negli Stati Uniti, ma la persona a cui si sono affidati potrebbe avere un passato da collaborazionista. Una commedia di taglio fiabesco per affrontare l’indicibile in modo leggero e profondo. Mercoledì 26 alle 23.10 “MovieMag”, il magazine di informazione cinematografica di Rai Movie, anticipa la ricorrenza del Giorno della Memoria con un servizio dedicato ai film in programma e con il repertorio: dal backstage del film “La tregua” di Francesco Rosi, un ricordo e una testimonianza di Primo Levi. Alberto Caviglia, autore del libro “Olocaustico”, parlerà del suo film del cuore. Giovedì 27 gennaio, data della ricorrenza, tre appuntamenti nella programmazione del canale. Alle 14.20 “L’oro di Roma”. Un classico di Carlo Lizzani ambientato nella Roma occupata del 1944, quando i tedeschi costrinsero la comunità ebraica a raccogliere e consegnare 50 chili d’oro in cambio di una promessa di libertà che poi sarebbe stata brutalmente disattesa.

Continua a leggere sul RadiocorriereTv N.04 a pag.22

Tananai

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Sanremo

Alberto Cotta Ramusino, in arte Tananai, è tra i tre vincitori di Sanremo Giovani. Il RadiocorriereTv lo ha incontrato mentre si prepara a salire sul palco del Teatro Ariston

Roma : Presentazione dei 12 finalisti di Sanremo Giovani 2021. Nella foto : Tananai

La sua canzone “Esagerata”, cosa racconta?

Racconta di un rapporto burrascoso, una sorta di nascondino a guardia e ladri con la diretta interessata del brano in cui giochiamo senza davvero divertirci. A Sanremo Giovani ho voluto portate questo brano perché penso che possa farmi conoscere al meglio. Io produco i miei brani, collaboro anche con altri artisti, però nasco come produttore.

C’è qualcosa di autobiografico nella canzone?

E’ la mia storia. Sono tutte cose che ho vissuto. Dall’aspettare la mia ragazza al fare tanta strada nella speranza di rivederla. Ho parlato di sensazioni mie.

Il suo genere è il pop. Ma se dovesse descrivere la sua musica più precisamente?

Un pop ibrido, diciamo. Utilizzo timbri di musica elettronica che può arrivare dai Radiohead, dai Gorillaz o da altri artisti.

Le piace molto anche sperimentare, in particolare l’elettronica…

Credo sia fondamentale per qualsiasi artista. La sperimentazione è una tappa necessaria per conoscere di più e scoprire che ti piacciono cose che non pensavi, sia come persone sia come artista.

Il nome d’arte Tananai come lo ha scelto?

Il nomignolo è quello che mi dava mio nonno. Significava “piccola peste”, ma non so di preciso da quale dialetto arrivi. Mi scrivono persone da diversi luoghi d’Italia dicendo che anche loro conoscono questo termine.

A Sanremo Giovani si è goduto l’esperienza. Quali aspettative aveva?

Emozione grande, l’ho sentito molto. Giorni bellissimi, tra i più belli della mia vita. Mi sono inserito in un contesto mai visto fino ad ora. E poi, il fatto di poter portare la mia musica a tante persone, è stato incredibile. Non mi sento ancora tornato da Sanremo nel senso che ancora non riesco a credere a quanto successo. Sono davvero molto contento.

Continua a leggere sul RadiocorriereTv N.03 a pag.38

Takeaway

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Al cinema

Una giovane marciatrice cerca l’affermazione sportiva, sulla sua strada il doping, la possibilità di essere più veloce facendo uso di sostanze illecite. Arriva giovedì 20 nelle sale la pellicola diretta da Renzo Carbonera, protagonisti sono Libero De Rienzo, nella sua ultima interpretazione, Carlotta Antonelli, Primo Reggiani, Paolo Calabresi e Anna Ferruzzo

Siamo nel 2008, agli albori della grande crisi finanziaria globale. Maria (Carlotta Antonelli) è un’atleta, una marciatrice. L’orgoglio di papà (Paolo Calabresi), che vorrebbe vederla coronare un sogno di successo. La mamma (Anna Ferruzzo), invece, è più scettica, sebbene Johnny (Libero De Rienzo), compagno della ragazza, che ha quasi il doppio dei suoi anni, sappia come tenere vivo il sogno di Maria e dei suoi genitori. Per questo motivo Johnny ha il frigo pieno di boccette, avendo aiutato molti giovani con sostanze illegali, nel suo passato da preparatore atletico. Tom (Primo Reggiani) è uno di questi e sta cercando Johnny, ritenendolo responsabile del fatto che il doping gli abbia rovinato carriera e salute. Ma i piani di vendetta di Tom si infrangono quando lui e Maria iniziano una relazione e i dubbi di lei crescono, come una febbre incontrollabile. La resa dei conti è inevitabile in un ambiente così ristretto, così come nel mondo esterno, scosso da debiti e fallimenti in cui si diffonde un bisogno urgente di nuove speranze. Il film, diretto da Renzo Carbonera girato sul monte Terminillo nel reatino, vede per l’ultima volta su un set l’attore Libero De Rienzo, scomparso la scorsa estate.

Continua a leggere sul RadiocorriereTv N.03 a pag.32

Tifo per Maria

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Serena Rossi

«Non si arrende di fronte a nulla. La sua è una storia di emancipazione femminile e sorellanza»: così la protagonista della serie, la storia di una donna calabrese che, sposata per procura negli anni Sessanta, cerca con determinazione l’occasione di riscatto. La domenica in prima serata su Rai1

Siamo negli anni Sessanta, in un’Italia che comincia ad accettare alcuni cambiamenti sociali importanti, mentre una parte dello stesso Paese ha ancora il freno a mano tirato. Com’è stato far rivivere questa realtà?

È stato un viaggio bellissimo attraverso la nostra storia recente. Mentre giravamo ho pensato spesso ai miei nonni, alla loro determinazione come a quella di tanti che sognavano un futuro migliore per se stessi e per le loro famiglie.

Emancipazione femminile, parità di genere, affermazione e riscatto sociale delle donne. Temi affrontati nella miniserie, ma è come se stesse parlando ai giorni nostri…

Sì, assolutamente, parla a noi. La serieracconta una storia attualissima, appassionante, che fa anche riflettere su temi al centro del dibattito sociale e culturale in Italia e non solo. Maria si sposa per procura e dalla Calabria si trasferisce al Nord dove inizialmente viene emarginata perché donna del Meridione.  È una storia di riscatto, di emancipazione femminile e di sorellanza davvero avvincente, dove non si può non fare il tifo per Maria, una donna incredibile che non si arrende di fronte a nulla.

Che tipo d’amore si racconta ne “La Sposa”?

È proprio l’amore verso l’altro a far muovere tutto. Maria ama profondamente la sua famiglia d’origine, tanto da sacrificare la propria vita pur di salvarla. Impara ad amare la sua nuova famiglia, anche se inizialmente è una storia d’amore un po’ ruvida, che porta sofferenza. Ma c’è amore anche verso la comunità che con fatica l’ha accolta e verso la terra che dà nutrimento e per questo va rispettata e protetta.

Una napoletana in Puglia. Cosa ha ricevuto nel corso delle riprese da questa terra e dalla sua gente?

È stato meraviglioso girare in Puglia. Torno sempre molto volentieri perché è una terra bellissima che ti apre le porte di casa.

Cosa significa essere una donna del Sud oggi?

Domanda difficile, come si può spiegare? Ciò che amo di Napoli e che credo contraddistingua i napoletani è la capacità di essere accoglienti. La nostra città storicamente è stata abituata ad accogliere l’altro. Sarà per questo che amo così tanto le mie radici.

Continua a leggere sul RadiocorriereTv N.03 a pag.10