Nicole Grimaudo

Il bello di… un ordine fragile

 

Un gioco di sguardi e con Dante Balestra scatta subito l’alchimia, perché è impossibile non amare la straordinaria umanità del Professore. Tra ricordi e lavoro, l’attrice new entry nella serie tv di successo, il giovedì su Rai 1, si racconta al RadiocorriereTv

 

 

Come ti ha accolto la famiglia di Un Professore?

Come una famiglia affiatata e premurosa: è stato davvero un ingresso caloroso. Quando si subentra in un progetto che esiste da tanto tempo c’è sempre un po’ di timore, è come entrare in una classe al quarto anno, non sai mai come saranno i compagni. In questo caso, però, ho trovato una squadra unita, composta da grandi professionisti, generosi e appassionati. C’è stato un vero “cuscinetto” ad accogliermi, è stato molto bello, a partire da Alessandro Gassmann che, oltre a essere il grande attore che tutti conosciamo, è una persona dall’animo enorme. Lavorare con lui è stato un piacere.

Se mai la vita di Dante Balestra ne avesse avuto bisogno, l’arrivo della nuova preside del Da Vinci spariglia un po’ le carte…

Ormai lo abbiamo capito: il professor Balestra, nella regolarità, si annoia (ride). L’arrivo della nuova preside creerà un po’ di scompiglio, soprattutto all’inizio. Già dalla prima puntata si percepisce un gioco di sguardi tra i due che lascia intuire la possibilità di qualcosa. Rispetto alle storie precedenti, però, questo incrocio di occhi nasconde un reale bisogno di affetto da entrambe le parti.

Chi è Irene?

È una donna che appare molto forte, risoluta e “risolta”, ma ovviamente non è tutto così lineare. Ha dedicato la vita allo studio, ma porta con sé un matrimonio sbagliato, un trasferimento in una nuova città per ricominciare e una figlia nel pieno di un’età complessa, tra adolescenza e ingresso nell’età adulta.

Mamma e figlia nella stessa scuola…

Sua figlia frequenta il quinto anno del liceo classico Da Vinci, insieme ai ragazzi di Dante. Non è una ragazza semplice e Irene si è ritrovata a fare da madre e padre da quando il marito ha abbandonato entrambe. L’incontro con Dante avviene nel momento della sua massima fragilità, e quest’uomo riesce a darle il conforto di cui aveva bisogno.

Cosa significa, per lei, nella vita quotidiana, scuotere gli equilibri?

Io sono una persona che, per indole e temperamento, cerca sempre di non stravolgere troppo l’equilibrio. Mi piace l’ordine (ride), anche perché ho avuto una vita e un passato in cui l’equilibrio non esisteva affatto. Cerco quindi di preservare ciò che con il tempo sono riuscita a costruire: un equilibrio spesso precario, perché così è la vita, ma fatto di punti fermi e certezze che mi fanno stare bene.

Cosa ha voluto dare di sé al suo personaggio?

Ho cercato di darle umanità. È una preside giovane, inizialmente un po’ rigida per essere più credibile nel ruolo, ma resta pur sempre una donna di quarantacinque anni, legata alle istituzioni e alle regole, ma con una vita, una storia e una figlia con cui confrontarsi. Non volevo renderla antipatica, anche perché Irene è un personaggio che sentivo molto vicino. Amo lavorare con i giovani e ho cercato di costruire una preside contemporanea, autorevole senza farsi detestare dagli studenti.

Ritroviamo i ragazzi della quinta B nell’anno della maturità. Che ricordi ha di quell’anno?
(Ride)… Diciamo che lavorare mi ha aiutata molto, ma gli anni della scuola sono quelli in cui senti di avere il mondo in mano, con una leggerezza e un coraggio che solo a vent’anni puoi avere. Ricordo la maturità con tenerezza: intere giornate a studiare con due compagni, pranzi a base di scatolette di tonno, e nottate ad ascoltare Notte prima degli esami di Antonello Venditti. Tanti giri notturni in motorino, per prendere un po’ d’aria, e un’ansia terribile la sera prima. È il primo vero momento in cui ti senti giudicato, e io l’ho percepito moltissimo.

Tra scuola, studenti e famiglie si crea un forte patto di fiducia. Ha mai incontrato un insegnante “alla Dante”?

Alle medie, la mia professoressa di italiano. La porterò sempre nel cuore. L’ho amata molto perché usciva dagli schemi e aveva stabilito con noi un contatto reale. Non avevamo paura di esprimere le nostre opinioni, neppure quelle più difficili. Con lei c’era una grande apertura, fondamentale in un’età delicata come l’adolescenza, quando non sei né carne né pesce. Le devo molto: mi ha spinto a scrivere, mi ha spronata e sostenuta anche umanamente in un periodo in cui ero sopraffatta dalle insicurezze.

“Un Professore” ha conquistato un pubblico trasversale. Perché secondo lei?
Perché è una serie onesta: offre ritratti autentici della scuola e dei ragazzi, che sono meravigliosi e veri, proprio come quelli che incontriamo ogni giorno per strada. È interessante anche il modo in cui affronta il rapporto con le famiglie, mai banale né melenso, sempre nel rispetto della filosofia del Servizio Pubblico. Anche quest’anno tratta temi forti. I ragazzi, che ormai sono critici televisivi esperti e abituati a vedere contenuti su tutte le piattaforme, aspettano questa serie perché si sentono chiamati in causa e ben rappresentati.

Che cosa vorrebbe che la scuola rappresentasse davvero per i suoi figli, oltre all’istruzione?

Vorrei che i professori vedessero non una classe, ma individui. Ogni ragazzo è un mondo a sé e andrebbe messo a fuoco singolarmente. Capisco che sia faticoso, ma riconoscere l’unicità di uno studente aiuta a comprenderne la sensibilità e la storia. Vorrei una scuola in cui i ragazzi si sentano compresi, liberi di esprimersi, di agire, di sbagliare. Una scuola in cui vadano volentieri. Vedere mio figlio sereno nel varcare la soglia la mattina mi fa sentire tranquilla.
Mi piacerebbe che a scuola si parlasse di più di sessualità, di droghe, di temi scomodi, per non lasciare i ragazzi soli. E vorrei che il teatro diventasse parte della programmazione: sarebbe meraviglioso. Sono tutte vie per restituire ai giovani quel contatto umano che, secondo me, oggi manca molto.

Dopo Noi del Rione Sanità e Un Professore, dove ti rivedremo?

C’è in ballo una serie Rai molto interessante, una sorta di giallo tutto al femminile, le cui riprese dovrebbero iniziare a gennaio. È un progetto a cui tengo molto, un ruolo da protagonista che mi permette di raccontare un personaggio a tutto tondo. Interpretare ruoli piccoli, paradossalmente, è più difficile: in poche scene devi raccontare tanto. Un ruolo più ampio ti permette invece di conoscerlo meglio e di lavorare su una palette di colori più ricca.
Uscirà anche un film americano, la mia prima esperienza internazionale, molto divertente, girato con Kevin James. A gennaio volerò negli Stati Uniti per l’anteprima a New York, poi sarà disponibile su Netflix.

Cosa deve avere una storia per conquistare la sua attenzione?

Deve riuscire a smuovermi dentro, a far “vibrare lo stomaco”. Anche se giro poche scene, ci deve essere qualcosa di emotivamente forte. Cerco ruoli che raccontino la forza delle donne. Ultimamente interpreto spesso figure femminili con vite difficili, donne lasciate, maltrattate. Mi interessa raccontare il coraggio: quel coraggio che noi donne sappiamo trovare, la capacità di essere tante cose insieme — madri, mogli, amiche, esseri umani completi e forti.