Alessandro Margheriti

Le storie rendono la vita sopportabile

«Avevo diciassette anni quando lessi un giallo di tipo “paranormale”. La protagonista era un’adolescente che era stata uccisa, e dopo la morte le veniva concesso di reincarnarsi nel corpo di una sua coetanea, ma con una missione ben precisa: scrivere dei libri che avrebbero aiutato le persone a essere migliori. Questo concetto mi colpì molto. Forse è un po’ ambizioso, perfino utopistico, ma mi piace pensare che lo scopo della letteratura sia questo.»

Alessandro Margheriti, scrittore e traduttore, vive in Spagna da dieci anni ma ha un’anima nomade.

«Prima di trasferirmi, vivevo a Torino, dove in otto anni ho cambiato casa sette volte. Quando raccontavo questa curiosa statistica, la gente era incredula: pensavano che fossi un piantagrane o che avessi scelto uno stile di vita nomade. Gli amici dopo un po’ avevano smesso di sorprendersi, mi chiedevano solo: “Dove vai, stavolta?” perché ormai si erano abituarmi a vedermi sempre con le valige in mano. In realtà ogni trasloco è stato sempre improvviso, conseguenza di una necessità impellente, e non credo di esserci stato a pensare mai per più di un paio di giorni. Ad un certo punto era diventata parte dell’ordine delle cose. La parte divertente è che traslocavo sempre in una circoscrizione diversa, ed è stata una cosa bella perché mi ha permesso di conoscere tutta Torino. Un quartiere lo conosci solo se lo vivi, e allora impari anche ad apprezzare le cose belle di ogni zona.»

Qual è stato il momento in cui hai capito che le storie avrebbero fatto parte della tua vita?

«Anni fa, al ritirare un premio di narrativa, mi chiesero di dire qualcosa sul rapporto tra vita e letteratura. Io dissi che la letteratura fa sì che la vita sia più sopportabile. Secondo me per un lettore non esiste un regalo più grande che la sensazione di trovarsi di fronte a un libro “perfetto”, quello che nel momento peggiore riesce a farti stare meglio. Può succedere, per me è stato così. Ho un libro che mi ha salvato la vita, è “Il porto dei sogni incrociati” di Björn Larsson.»

 

Il tuo lavoro in ambito editoriale spazia da autore a traduttore. Quale aspetto preferisci?

«La scrittura e la traduzione coinvolgono un processo mentale molto simile, entrambe hanno a che vedere con un lavoro chirurgico sulle parole, la scelta di impiegare un termine invece di un altro. Della scrittura mi piace l’aspetto creativo, il perdersi in una storia, vivere assieme ai propri personaggi, ma anche quello tecnico: provare a raccontare una storia in modo originale, inconsueto. Della traduzione mi piace la parte di scouting: è quando mi trasformo in un cercatore d’oro per scovare inediti di valore da far conoscere al pubblico italiano. Vederli poi pubblicati mi riempie di soddisfazione.»

 

La reinterpretazione dei miti è un trend molto seguito. Tu, però, con “Il cuore di Icaro” hai fatto qualcosa in più. Come ti sei approcciato alla leggenda?

«Non so se ho fatto qualcosa in più, ma volevo che fosse qualcosa di diverso. L’idea mi era venuta tanti anni fa, osservando le foto di un ragazzo con ali finte. C’era qualcosa nel suo aspetto, nel suo sguardo, nell’espressione del suo volto che l’avresti creduto davvero capace di spiccare il volo. È stata quella la prima volta che ho pensato a Icaro. Era un peccato non saper nulla di più se non il suo ultimo gesto di disobbedienza al divieto paterno. Spesso si è visto in ciò una ribellione e una presunzione, forse anche della superbia, e io ho voluto un po’ prenderne le difese, cercare di rivalutare questo personaggio mostrando quello che non è mai stato raccontato. Era un adolescente come tanti altri, perché non mostrare le sue paure, i suoi dubbi, le sue passioni? Col mio romanzo ho tentato di dargli un’identità, una personalità, e ho provato a dare una spiegazione al suo folle gesto. All’inzio pensavo che sarebbe stato un libro perfetto per gli adolescenti, vista l’età dei personaggi, ma poi mi hanno scritto un sacco di lettori adulti, che si sono riconosciuti non solo nel protagonista, ma anche nei personaggi secondari. E allora ho capito di aver fatto centro: volevo che in questo romanzo potesse riconoscersi chiunque.»

Laura Costantini